Bari - Immagini dal Cie
L'anno nuovo è arrivato. Come regalo ai gestori del C.I.E. di Bari-Palese diffondiamo queste foto giunteci tramite una renna col doppiofondo.
Diffondiamo queste foto in modo che tutti sappiano di che morte si "vive" all'interno di quella struttura. Diffondiamo queste foto non sperando che un giorno quel lager si dipinga di azzurro, o che, un giorno, gli "ospiti" possano finalmente mangiare su tavoli e sedie, o che un giorno, magari, arrivino letti e coperte, o che i militari di guardia non rispondano col manganello alle richieste dei reclusi.
Diffondiamo queste foto perchè tutti sappiano che a Bari è in funzione un vero e proprio campo di concentramento.
Ed è compito di tutti far si che di questo posto rimangano solo macerie.
Fuoco ai centri per detenzione per stranieri. Libertà per tutti.
alcune renne scorbutiche
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Ecco l'inferno del Centro immigrati "Campo di concentramento al
Per la prima volta diffuse immagini scattate all'interno del Cie del San Paolo. In duecento costretti a vivere in condizioni umane e igieniche molto precarie
di Fulvio Di Giuseppe
Costretti a mangiare per terra, dormire su panni stesi sul pavimento e usare delle latrine per i propri bisogni fisiologici. Quello che fino a ieri erano dei racconti più o meno credibili dai quali uscirsene con ipocrita disinvoltura, ora sono immagini inconfutabili. Arrivano dal C. i. e., il centro di identificazione ed espulsione nel quartiere San Paolo di Bari e sono state diffuse sul sito informa-azione. info, da alcuni volontari che, rimanendo nel contesto natalizio, si firmano "renne scorbutiche". Di natalizio, però, il loro messaggio non ha nulla, anzi.
«Diffondiamo queste foto in modo che tutti sappiano di che morte si "vive" all´interno della struttura - spiegano in una nota - non sperando che un giorno quel lager si dipinga di azzurro, o che gli "ospiti" possano finalmente mangiare su tavoli e sedie, o che un giorno, magari, arrivino letti e coperte, o che i militari di guardia non rispondano col manganello alle richieste dei reclusi. Diffondiamo queste foto - evidenziano - perché tutti sappiano che a Bari è in funzione un vero e proprio campo di concentramento. Ed è compito di tutti far si che di questo posto rimangano solo macerie».
Al Cie vivono al momento quasi duecento persone. Sono quelli che burocraticamente vengono definiti "ospiti" e che certo non serberanno un buon ricordo dei loro padroni di casa, quando saranno rimpatriati. È questo infatti il destino che accomuna coloro che, quasi tutti di origine africana, con il passaggio nella struttura vivranno solo un´ulteriore agonia di massimo 180 giorni, prima del rientro forzato. Un´agonia condita da condizioni di vita che i vari deputati in visita - tra i pochi ad avere il diritto a entrare nei Cie - non hanno potuto che definire «inumane e insostenibili». E scorrendo le immagini riportate sul sito, è difficile trovare altri aggettivi che riescano a rendere meglio questa realtà. Come definire altrimenti i lividi che campeggiano sul corpo nudo di uno dei ragazzi all´interno della struttura.
Segni evidenti di colluttazioni, che potrebbero essere stati provocati anche dallo scontro fisico con altri "ospiti", perché nella terra di nessuno non vige alcuna regola e quando accade, spesso, è quella della violenza. E di altre norme, quelle sanitarie e igieniche, sembra esserne altrettanto sprovvisto l´intero edificio: muri scrostati, bottigliette vuote abbandonate ai piedi di quello che dovrebbe essere un box doccia, ma che in realtà non è neppure servito da un idoneo servizio idrico. Il bagno è una latrina, di quelli che non ti affacceresti neppure a dargli un´occhiata. Eppure qui ci vivono. Anzi sopravvivono, dato che anche mangiare e dormire, per i quasi duecento del San Paolo diventa un´avventura. Il pasto c´è, servito in piatti di plastica ma senza "coperto": è il pavimento il loro tavolo imbandito, su cui lasciare anche bottiglie e posate.
Il rischio di infezioni e malattie raggiunge così dei picchi esagerati e, non a caso, a lamentarsi sono anche agenti e volontari che sono a stretto contatto. Ci si siede per terra, che di notte diventa anche il proprio giaciglio: un telo, una coperta leggera tra due sgabelli e l´augurio che non faccia troppo freddo, abbandonandosi intanto ai propri sogni. Quelli, probabilmente, di vedere al proprio risveglio delle panche su cui sedersi o un materasso confortevole sulle reti metalliche. Dei sogni, per adesso, perché l´ulteriore beffa è che per ora bisogna attendere che si concluda il primo passo: l´iter - hanno spiegato in un recente incontro i vertici istituzionali - per verificare cosa prevede il contratto di manutenzione della struttura e a chi debbano essere imputate tali inadempienze.
Le immagini mai come in questo caso sono lo specchio di una realtà volutamente celata. Ma se in qualche modo emerge la disperazione degli immigrati, quello che le foto non hanno bisogno di immortalare è il senso di rabbia e inadeguatezza di chi convive con quest´agonia, che spesso viene soppiantata dalla protesta. Probabilmente vedendo queste immagini, sembreranno più comprensibili le forme e le manifestazioni, tanto disparate quanto disperate, di chi non avendo altra voce deve provarci con ogni mezzo a disposizione, anche il tentativo di suicidio. Sedie, armadi, tavoli non si possono più usare, sono inchiodati al pavimento, come nei manicomi, perciò, per i piani alternativi si ricorre a pezzi di plastica, posate, flaconi ingoiati.
L´ultimo disperato tentativo che può significare "libertà". E a chi non ci riesce o non ha il coraggio di "morire", resta un´ultima speranza. Scrivere sopra un lenzuolo un messaggio emblematico: «Noi non siamo delinquenti e neppure criminali: perché ci trattate peggio dei cani?». Già, perché?
(06 gennaio 2010)