Donne e lavoro: discriminazione di genere, questione di classe

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Lʼoppressione della donna non nasce con il capitalismo. Il capitalismo la eredita dal passato, la perpetua e allo stesso tempo la sviluppa. La violenza sulla donna, la sua discriminazione, coniugano così insieme alla vecchia oppressione nuove contraddizioni e nuove ingiustizie. Si arriva a questo paradosso: la società è teoricamente dotata di tutti gli strumenti necessari per superare lʼoppressione di genere, ma tale oppressione continua e per alcuni versi si inasprisce.

Nellʼepoca della produzione in serie, tutte le piccole faccende di casa ricadono ancora nellʼambito famigliare e lì in particolare sulla donna. Nellʼepoca in cui automazione e tecnologia tendono a uniformare la forza lavoro, ancora persiste la discriminazione di quella femminile. Nellʼepoca in cui concetti come stato di diritto e parità sono ipocritamente accettati da tutti i salotti buoni della classe dominante, ogni genere di molestie e violenze sessiste continua ad attraversare la società.

Eʼ lʼessenza del capitalismo: porre le basi per un balzo in avanti, senza mai compierlo. Eʼ il dazio da pagare alla proprietà privata dei mezzi di produzione: finché esiste lo sfruttamento, esiste violenza e sopruso. Ogni genere di differenza va sfruttata per dividere gli oppressi. Per questo la lotta al sessismo non può essere slegata da quella contro il capitalismo.

Con questo testo non affrontiamo la questione nella sua complessità, ma vogliamo mettere a fuoco un suo aspetto particolare: la discriminazione femminile in termini di salario e occupazione.

Uno sguardo sullʼoccupazione

il rapporto Eurostat 2015 (ufficio statistico europeo) ci consegna un quadro in cui si evidenziano marcate differenze occupazionali in termini di età, livello di istruzione e soprattutto sesso. Nel 2014 il tasso di occupazione degli uomini nellʼUE-28 era del 70,1 %, mentre quello delle donne era del 59,6 %. Rispetto ai dati europei, nel 2015, lʼItalia, insieme alla Grecia, si pone allʼultimo posto per tasso di occupazione femminile, 47% contro il 60 della media europea. Il dato appare sconfortante quando confrontato ad un altro: il 40% delle “inattive” ha un diploma di scuola superiore o un titolo universitario. Ne deduciamo che dal punto di vista professionale, il personale femminile qualificato e formato per svolgere alcune mansioni è disponibile in quantità maggiore rispetto a quello maschile: una tale osservazione non può che sottolineare lʼaspirazione delle donne allʼinserimento lavorativo.

Uno sguardo sulla retribuzione

il divario aumenta per quel che riguarda la retribuzione: gli uomini guadagnano in media 1556 euro contro i 1192 delle donne. Se consideriamo anche le donne inoccupate il dato è che per ogni mille euro guadagnati da un italiano le donne devono accontentarsi di 550. Lo confermano ancora una volta i dati dellʼEurostat. Il divario retributivo di genere, o gender pay gap, è la differenza salariale tra uomini e donne, calcolata su base della differenza del salario medio lordo orario. NellʼUnione europea le donne in media guadagnano circa il 16% in meno degli uomini. In Italia tale divario si attesta intorno al 10 %. Ad una prima analisi la valutazione dellʼItalia potrebbe apparire come quella di un paese virtuoso: occorre invece tener presente ciò che i dati dellʼEurostat non spiegano ovvero il divario nord e sud, lʼassenza di coloro che hanno smesso di cercare lavoro e quindi fuoriescono dagli elenchi ed infine il campione di riferimento che tende a sovra-rappresentare le donne laureate e dunque meglio retribuite.

Dal punto di vista della retribuzione le donne in media incassano una ral (retribuzione annua lorda) di 26.725 euro, contro i 29.985 euro degli uomini. Dal 2004 ai 2014 le donne sono aumentate sia tra i dirigenti che tra i quadri e sono oggi il 38% degli occupati in posizioni manageriali, anche se continua- no ad essere inquadrate in maggioranza come impiegate (58%). Eʼ evidente che le donne tendono ad essere concentrate nei settori di attività (es. allʼinterno del settore manifatturiero nel tessile, allʼinterno del terziario, nei servizi alla persona) e nelle occupazioni (insegnanti, impiegati, il personale infermie- ristico) caratterizzate da bassi livelli retributivi. Unʼ analisi affine si conferma nel rapporto Svimez del 2015. Lʼ indagine del 2015 mostra che il gap delle retribuzioni è cresciuto ulteriormente: gli stipendi degli uomini sono saliti dello 0,6%, quelli delle donne hanno subito un taglio dello 0,7%.

Il part- time: dalla conquista alla beffa

Come e quanto lavorano le donne? Una buona parte lavora con contratto part-time. Eʼ stata descritta per anni come la panacea di tutti i mali: la flessibilità a servizio delle donne che possono scegliere finalmente liberamente di dedicare maggior tempo a sé stesse o alla famiglia o alle studentesse o ancora agli anziani estromessi dal circuito produttivo. Nel 2015, in media, in Europa, solo lʼ8,9% degli uomini ha lavorato a tempo parziale contro il ben 32,1% delle donne. Lo stesso Ministero nellʼultimo rapporto sulle tendenze del nostro mercato del lavoro sottolinea come lʼincidenza del lavoro a tempo parziale sullʼoccupazione totale abbia raggiunto il 18,8%.

La domanda da porsi è come interpretare il ricorso a questa forma di impiego.Lʼ incremento di impieghi con modalità di tempo parziale va infatti tradotta, negli anni della crisi, in una crescita del part time involontario ovvero come un lavoro a tempo parziale in mancanza di occasioni lavorative a tempo pieno.La percentuale di impieghi a tempo parziale è alta tra le donne principalmente perché le donne trovano nel part-time lʼunica possibilità di lavorare con percentuali che riguardano il 34,8% per le donne contro il 27,4% degli uomini.

La disoccupazione ed i contratti atipici al Mezzogiorno

La crisi ha portato ad unʼ ulteriore contrazione dei posti di lavoro. Secondo lʼ ultimo rapporto della Svimez nel Meridione il tasso reale di disoccupazione delle donne salirebbe al 30,6 per cento. Solo una donna giovane su quattro ha un lavoro, oltre mezzo milione fuori dalle cifre ufficiali sullʼoccupazione. Interi nuclei famigliari, soprattutto al sud, vivono con monoreddito. Al tempo della crisi il ricorso al part time è ancor meno una scelta. Alla faccia della flessibilità e della possibilità di scelta oggi, seppure le donne ambissero ad altro, sarebbero comunque costrette ad accettare qualunque tipologia contrattuale. Al sud ciò implica il lavoro in nero in taluni casi oppure, più frequentemente, la firma di contratti part-time a fronte di prestazioni full- time: i datori di lavoro preservano il proprio profitto con il disperato assenso di chi accetta pur sapendo che pochi contributi vuol dire infime pensioni.

Infatti, dove cʼè poco lavoro, si lavora a tempo parziale, confermando il binomio tra bassa occupazione e ricorso alla flessibilità degli strumenti contrattuali del lavoro. A distanza di anni è evidente che il crescente ricorso al part time da parte delle imprese si traduce in un effetto sostitutivo rispetto ai lavoro a tempo pieno, anziché aggiuntivo, senza effetti significativi sul tasso di occupazione femminile.

Contratti atipici, maternità, pensioni

I dati dellʼOecd (Osce) mostrano come lʼItalia sia uno dei peggiori paesi per essere una donna lavoratrice. I dati dellʼIstat e dellʼInail che rivelano un aumento della partecipazione al mercato del lavoro (tre milioni in più rispetto a 35 anni fa) mettono anche in evidenza un dato incontrovertibile: una donna su due non lavora. In Sicilia, addirittura, la partecipazione al lavoro scende al 27%.

Quello che più colpisce è la totale assenza delle strutture di assistenza e cura parentali. Sono 2,3 milioni le donne che risultano inattive per motivi di famiglia, di queste il 40% ha un diploma di scuola superiore o un titolo universitario e il 45% vive al sud. Dati che spiegano come le donne, malgrado una preparazione adeguata se non superiore ai colleghi maschi, sono scartate per ruoli di rilievo poiché su di esse ricadono le inadempienze dello stato e sono le donne che devono occuparsi della casa e della famiglia. Per le donne italiane la maternità è un rischio concreto di fuoriuscita dal mercato del lavoro; secondo dati Istat datati 2015 infatti il 22,4% delle madri lavoratrici prima della gravidanza dopo due anni avevano perso il lavoro.

Tra le cause di questa situazione la mancanza non solo di collaborazione alla famiglia da parte degli uomini (solo lʼ8,4% degli uomini italiani ha un part-time) ma anche quella di servizi adeguati come gli asili nido.

Nel Sud la disponibilità di nidi è quasi inesistente, con tassi di copertura medi inferiori al 3%. A questo si somma il problema congedi parentali: pur potendone usufruire anche i padri, tre giorni restano comunque insufficienti a garantire unʼadeguata gestione della famiglia soprattutto se due giorni di congedo sono in alternativa al congedo della madre (quindi sottraendolo al suo congedo obbligatorio!). Insomma una vera beffa. Il divario di retribuzione tra donne e uomini si ripercuote pesantemente anche sui guadagni percepiti nellʼarco di tutta la vita e sulle pensioni delle donne. Le donne guadagnano in media il 16 % circa in meno allʼora rispetto agli uomini. Lo scarto nel guadagno influisce, insieme ad altri fattori, sui futuri diritti alla pensione e comporta una maggiore esposizione delle donne in vecchiaia al rischio di povertà.

Lavoro domestico, sessismo, discriminazione sul lavoro: piani indivisibili

Le donne occupano posti i cui salari sono da sempre mantenuti al ribasso pur richiedendo analoghe qualifiche e capacità rispetto agli uomini. La divisione di classe si alimenta anche delle disuguaglianze allʼ interno della stessa classe. Nel caso della donna la diseguaglianza viene mantenuta attraverso la leva del peso del lavoro domestico e del sessismo, particolarmente attorno alla sua funzione riproduttiva. Per questo è impensabile rivendicare migliori condizioni di lavoro per le lavoratrici, senza rivendicare parallelamente una serie di diritti generali per la donna e lʼabbattimento del lavoro domestico. Questo Stato, uno strumento in mano al grande capitale, nasconde la sua natura di classe dietro diritti civili che sono solo in parte realmente rispettati. Esiste una legge sullʼaborto e contemporaneamente si conferma lʼaccesso al SSN agli obiettori; si velocizza il divorzio ma si introduce il taglio dei servizi di assistenza e di cura di base e le deregolamentazione del mercato del lavoro…

Ecco perché lottiamo per:

- centri di assistenza per anziani e disabili a carattere pubblico e gratuito.

- moltiplicazione e quindi il finanziamento dei centri dʼ ascolto, ambulatori e consultori di stampo laico: perché la salute, il benessere e la salute della donna possano trovare spazi e luoghi adeguati alle diverse esigenze

- gratuità e ampliamento della rete pubblica di asili nido

- la gratuità dellʼistruzione di ogni ordine e grado senza distinzione di genere, razza ed età nel rispetto del concetto di lifelong learning secondo cui è possibile consentire il raggiungimento degli apprendimenti ad ogni età

- la socializzazione del lavoro domestico: salario per il lavoro domestico, rete pubblica di lavanderie, mense, servizi di pulizia.

- lʼ aumento salariale per lavoratrici e lavoratori: non basta equiparare il salario orario delle donne a quello degli uomini è necessario che i salari aumentino per affrontare il carovita

- lʼ aumento dei giorni di congedo parentale per gli uomini perché possano partecipare alla gestione della famiglia

- lʼ esclusione degli obiettori di coscienza dai reparti di ginecologia del servizio sanitario nazionale

- rivalutazione salariale per il part-time femminile

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