Intervista ad una attivista dei collettivi universitari E.A.A.K. (Grecia)
1. La situazione in Grecia è arrivata a un punto estremo: come si è arrivati a questo? È possibile individuare le origini della crisi? E il suo rapporto con il debito pubblico?
Per rispondere bene a questa domanda ci vorrebbe un dibattito di ore ma proverò a fare una sintesi. L’attuale crisi del capitalismo è una crisi strutturale e non una crisi del debito dei Paesi. L’enorme accumulazione di profitto degli ultimi anni è all’origine di questo crollo. La gente accendeva mutui per le vacanze, per le scarpe, per la casa, per la macchina,… per tutto, insomma; i mutui erano facilmente accessibili, la circolazione dei soldi “virtuali” era enorme, le borse in crescita. Era la Grecia dei giochi olimpici (che vedeva la costruzione di opere imponenti e inutili), la Grecia dell’Unione Europea.
La crisi comunque non significa la fine del sistema. Per rinascere, per andare avanti, rigenerarsi ancora una volta, il capitalismo, oltre a “bruciare” capitale, deve trovare altre via di uscita: i tagli alla spesa pubblica, l’annullamento di diritti conquistati in anni di lotte, le guerre. È emblematico il fatto che l’unico settore in cui la Grecia non ha dovuto/voluto fare dei tagli sia stato quello militare.
La speculazione e i giochi finanziari esistono per quelli che possono permetterseli. È dal 2008 che i governi tagliano diritti e finanziamenti all’istruzione e alla salute per “salvare” le banche. I giornalisti di regime, ogni giorno con tanta passione, fanno leva sulla paura del default cercando di convincere la gente che tutti questi maneggi sono necessari per evitare il collasso del paese.
E la nostra risposta è una domanda retorica: perché non andare in default?
Questa crisi non è stata creata né dal debito né della corruzione, perché tutti questi elementi semplicemente fanno parte del capitalismo stesso. Lo scandalo con la Siemens qualche anno fa (l’azienda tedesca che elargiva soldi ai politici per fare le grandi opere in Grecia) è esattamente parte di questo sistema. Ed è vero che i paesi del Sud dell’Europa si trovano prima degli altri a dover fronteggiare la crisi, ma non è possibile credere ancora che la crisi in Grecia esiste a causa del debito pubblico. I paesi a capitalismo più “avanzato” stanno approfittando delle difficoltà economiche della Grecia per mettere le mani su quei beni pubblici che ancora ci sono rimasti. L’unica cosa sicura è che solo quando capiremo che non c’è via d’uscita (almeno non in senso popolare) da questa fase che non sia anche lotta e rivoluzione, solo allora potremo parlare nuovamente di diritti sociali.
2. Qual è la composizione politica del governo greco? Quali settori, quali partiti vi sono rappresentati?
Il governo eletto qualche anno fa era a grande maggioranza del partito PASOK (socialdemocrazia). Il loro slogan è stato “i soldi ci sono”, quindi che non ci sarebbe stato nessun bisogno di aiuto dall’esterno, o necessità di tagli. Un anno fa lo stesso governo ha scelto la linea contraria firmando un accordo che accettava l’“aiuto” finanziario della Banca Europea e del Fondo Monetario Internazionale. Da quel momento tutte le leggi e i tagli alla spesa pubblica sono stati imposti senza alcuna resistenza politica, mentre si creava fra la gente un clima di paura davanti allo spettro di un possibile default. Qualche mese fa, quando questo governo non poteva più continuare, visto che non sembrava più abbastanza forte nemmeno ai capitalisti, è stata fatta una coalizione tra Nua Democrazia (destra), Laos (estrema destra) e Pasok sotto la guida di Papademos che doveva rimanere al governo fino al 19 febbraio, mentre è ancora saldo al suo posto. Governo tecnico, così è stato chiamato, ma in piazza tutti lo chiamano dittatura.
3. Quali sono state le risposte del governo alla crisi?
Il governo attacca con pervicacia qualsiasi diritto conquistato dal movimento greco nell’ultimo secolo. Dall’educazione (tramite la legge che è stata votata in estate viene imposto il modello dell’università-azienda), passando per i tagli al sistema sanitario, alle pensioni fino alle continue tasse di “emergenza”. Per la prima volta lavoratori del settore pubblico vengono licenziati, mentre i servizi pubblici chiudono (chiude pure l’ ALER greca, la cui sede è attualmente occupata dai suoi dipendenti).
4. E qual è stata la risposta del capitale, la risposta delle aziende greche?
Dall’inizio della crisi (2008) le aziende hanno fortemente attaccato lavoratori e operai. Con la scusa della recessione sono stati fatti licenziamenti senza motivo, mentre il ruolo dei sindacati è stato pressoché inesistente. I licenziamenti sono stati portati avanti non solo nelle aziende in difficoltà economica ma pure in quelle che continuano tuttora a fare profitti enormi. Hanno usato il paravento della crisi, lo stato di emergenza come scusa per cambiare le carte in tavola, per creare posti di lavoro in cui la precarietà è estrema. Gli operai si trovano costretti a scegliere fra stipendi risicati e occupazioni ridotte al minimo o licenziamento. Per la prima volta è cambiato l’accordo nazionale sugli stipendi che si faceva tra sindacati, Stato e aziende. Riguardo al fallimento aziendale, la legge a cui si rivolgono migliaia di imprese è l’articolo 99. Ricorrendo a questa legge spesso le aziende riescono a non pagare gli stipendi dei lavoratori e ad accordarsi con le banche.
In generale possiamo parlare d’uno stato di terrorismo in cui versano lavoratori e operai che solo alcuni sindacati hanno potuto arginare attraverso la lotta, lo sciopero, l’azione e l’unione dei lavoratori.
5. A questo punto, qual è stata la risposta dei movimenti politici e sociali?
La prima risposta alla crisi e stata la rivolta di Dicembre 2008: un momento in cui la gente, soprattutto i giovani, ha espresso nelle strade la sua rabbia contro il sistema e anche contro un termine di riferimento nuovo, quello della crisi. Da quella rivolta a oggi sono cambiate tante cose, fra cui il livello politico e i contenuti che vengono espressi in piazza. Attraverso gli scioperi dei lavoratori e le rivendicazioni studentesche (a partire dal settembre scorso, le facoltà greche sono state occupate per mesi) si è cercato di creare momenti di crescita politica e di coesione sociale tra i vari soggetti in lotta. L’unità fra lavoratori e studenti è stata molto importante per raggiungere questo obiettivo.
Dalla primavera 2011 è nato un movimento molto particolare: il movimento delle piazze. Un movimento che inizialmente rifiutava i compagni antagonisti, rifiutava i loro volantini; era gente normale che usciva per la prima volta in strada. In quel periodo gli attivisti hanno dovuto scegliere se rimanere in piazza e dare sostegno a quei movimenti per farli crescere o andarsene. Credo che la scelta dei compagni di rimanere lì, proteggendo la gente e dando vita ad assemblee nelle piazze, sia stata la scelta giusta.
Nell’ultimo anno le piazze e gli scioperi generali sono stati molto partecipati. I sindacati di base per la prima volta avevano migliaia di persone nei loro spezzoni e contestavano duramente i sindacati confederali che cercavano il modo migliore di svendere poco alla volta tutto alle aziende.
La composizione delle piazze greche non è semplice da spiegare. Nel movimento greco ci sono tantissimi gruppi e gruppetti: dalla sinistra riformista di Syrisa, alla sinistra extra parlamentare di Antarsya (di cui io faccio parte), al Partito Comunista Greco, fino ai gruppi anarchici. Il partito comunista ha sempre tenuto una posizione di distanza dai movimenti che non riesce a controllare.
Anche se ci si trova nella stessa piazza non vuol dire che si scelgono le stesse pratiche o che si riesca sempre a creare un coordinamento: la dialettica ed il dibattito non è mai mancata nelle piazze e nelle assemblee greche. Personalmente ritengo questo fattore positivo: credo infatti che il movimento debba sempre crescere politicamente, anche tramite il confronto fra idee diverse.
6. Ci sono state anche altri tipi di risposte e proposte, come è successo ad esempio in Argentina? Si è verificata la collettivizzazione di qualche fabbrica, oppure si sono organizzate delle mense comuni, o altro?
Forme di autorganizzazione e autogestione in Grecia si stanno presentando ora, per la prima volta e poco a poco, perlomeno sotto questa forma. Uno dei giornali storici (la cui proprietaria sta cercando di chiudere in tribunale la possibilità di avvalersi dell’articolo 99) da qualche settimana viene pubblicato direttamente dai giornalisti, con il nuovo titolo “I lavoratori”. Poi c’è stato un caso di autogestione in un ospedale del Nord, e un caso di autogestione in un ospedale di Kilkis . I medici che non venivano pagati da mesi hanno deciso di occupare l’ospedale, continuando però a farlo funzionare, vista la necessità e l’importanza di cure popolari di questi tempi. L’ospedale adesso funziona attraverso la sua assemblea, in cui sono invitati oltre al personale anche i cittadini che vogliono dare una mano.
Le mense di solidarietà si sono sviluppate in più città, però ancora una volta ci siamo trovati di fronte alla repressione del governo. Infatti sono state dichiarate illegali le mense non gestite da Organizzazioni Non Governative, con la motivazione che il cibo delle mense popolari non rispettava i parametri igienico-sanitari imposti dalla legge! Ovviamente ciò è dovuto alla paura delle relazioni sociali che si stanno creando a poco a poco nei quartieri, e si in questo modo di limitare la solidarietà alla filantropia (tenuta sotto controllo se a gestire le mense sono i soggetti no profit finanziati dallo stato).
7. Gli ultimi scioperi sono diversi dagli altri? Le manifestazioni più “di scontro” prima venivano viste/vissute come “casi isolati”: ora c’è differenza?
I cortei e le piazze di oggi sono determinati. Gli scontri succedono perché la gente vuole varcare le zone rosse che la polizia cerca di imporci. Una cosa è fare gli scontri di massa perché la gente crede che le piazze siano un suo diritto, che il palazzo che si chiama Parlamento debba rappresentare il popolo. Un’altra cosa sono “I casi isolati”, quei gruppi che pensano sia una buona idea lanciare una molotov e poi scappare lasciando un corteo senza protezione. Lo scopo del movimento non è lo scontro. Gli scontri avvengono perché il movimento vuole vincere, e oggi, sì, gli scontri sono accettati dalla maggioranza della gente che sta in piazza. Probabilmente qualche anno fa la gente non era abituata, perché non si era mai trovata in una situazione simile o perché non capiva che spesso il motivo per cui i cortei vengono caricati è il semplice fatto di stare in piazza. Oggi lo scontro non è solo la lotta con le molotov o con i bastoni, ma anche i manifestanti che resistono senza scappare quando la polizia attacca con i lacrimogeni. I militanti sono lì a portare la loro esperienza; tuttavia io credo che attualmente in piazza la cosa importante non sia tanto l’organizzazione militare dei cortei, ma piuttosto vi sia la necessità di trovare un livello di gestione collettiva delle piazze che sappia rappresentare e tutelare anche tutti quelli sono lì con le loro famiglie.
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