In questi giorni il senatore Pietro Ichino compare spesso in televisione e sulle pagine dei giornali. E’ uscito infatti l’8 novembre la sua ultima opera: “Inchiesta sul lavoro”. In tale libro, il senatore Ichino spiega la sua proposta di “grande riforma” del lavoro e delle relazioni industriali. Il perno è la cd. flexsecurity, ovvero l’utilizzo combinato di flessibilità nel mercato del lavoro e sicurezza sociale. La proposta non è nuova (è almeno da dieci anni che se ne parla), ma è solo da due anni che è stato depositato in Senato un disegno di legge (il n. 1873/2009) che reca la sua firma. La premessa, l’ipotesi di partenza, è fondamentale: l’esistenza di un rigido apartheid nel mercato del lavoro, tra i garantiti e i non garantiti. Dalla sua verifica deriva infatti la validità della proposta.
Sino a pochi anni fa, prima dell’esplosione della crisi economica del 2007, Ichino si affannava a dichiarare, dalle pagine del Corriere della Sera (“Il lavoro precario dal 2001 al 2005 non è aumentato”, 26 maggio 2006, http://archivio.pietroichino.it/articoli/view.asp?IDArticle=388), che in realtà, i precari in Italia non erano poi così tanti, come alcuni (tra i quali San Precario) andavano sostenendo, poco più di 2 milioni di persone, il 12% del totale della forza-lavoro.
Oggi, invece, il prof. Ichino afferma che il mercato del lavoro italiano è caratterizzato da circa 9.5 milioni di persone che hanno un posto garantito contro 11 milioni di occupati che svolgono mansioni come gli altri ma che, in quanto precari, stanno fuori dalla “cittadella dei diritti”. Non possiamo che prenderne atto con soddisfazione. Un primo tabù è caduto. La precarietà è una condizione che si è oramai generalizzata. Come affermato da più di dieci anni di MayDay, anche i cd. Esperti del lavoro riconoscono che la precarietà è una situazione oramai strutturale e generalizzata. Magari tra un po’ si accorgeranno che è anche esistenziale.
Bene. Cioè, male. Se l’obiettivo è eliminare le discrepanze di trattamento tra i supposti garantiti e i precari, vi sono solo due possibilità. La prima è elevare al rango dei supposti garantiti i precari. La seconda è esattamente l’opposto: rendere precari anche i supposti garantiti. La proposta di Ichino, che tanto piace anche a buona parte del sindacato concertativo (Angeletti in testa), al terzo Polo e alla destra liberista tende a scegliere la seconda opzione. Diciamo “tende”, perché il progetto di legge in questione pone come obiettivo l’omogeneizzazione dell’intero mercato del lavoro, tramite un intervento in due tempi. Il primo tempo consiste, di fatto, nel consentire la piena liberalizzazione dei licenziamenti (quindi verso una precarizzazione della stessa attività lavorativa), processo che, di fatto, è già in corso nel momento stesso in cui si consentono deroghe alla contrattazione collettiva. E solo successivamente si propongono interventi, peraltro temporanei e condizionati, di sostegno alla sicurezza sociale.
Più nello specifico, tre sono i provvedimenti cardini della proposta di Ichino:
- L’articolo 2118 prevede «il recesso del datore di lavoro o committente» per «mancanza grave del lavoratore» o per «motivi economici, tecnici od organizzativi». Qualora il licenziamento disciplinare risulti ingiustificato il giudice «condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno nei confronti del lavoratore, oppure alla ricostituzione del rapporto di lavoro, oppure a entrambe le sanzioni». Nel primo caso il «danno non può essere inferiore a 5 mensilità più 1 per ciascun anno di anzianità di servizio». La reintegrazione, invece, è prevista necessariamente solo in caso di «violazione di un divieto di discriminazione», mentre negli altri casi «ciascuna delle parti ha facoltà di optare, in alternativa alla ricostituzione (del rapporto di lavoro), per il pagamento a carico del datore di un indennizzo sostitutivo pari a 15 mensilità». Restano le eccezioni oggi previste per le aziende sotto i 16 dipendenti, le onlus, le organizzazioni politiche, religiose, culturali e sindacali. Questo articolo di fatto presenta una modificazione lieve dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che vieta il licenziamento individuale senza giusta causa (atto discriminatorio da parte del datore di lavoro). La differenza è che l’obbligo di reintegro, stabilito dall’art. 18, è valido solo nel caso di palese discriminazione (il cui onere della prova è comunque a carico del lavoratore, aspetto di non poco conto).
- L’articolo 2119 regola invece il licenziamento per motivi economici od organizzativi. Esso prevede anzitutto un certo preavviso (1 mese per ogni anno di anzianità del lavoratore, fino ad un massimo di 12). A questo punto scatta un nuovo «contratto di ricollocazione» con «un’indennità pari a tanti dodicesimi della retribuzione quanti sono gli anni di anzianità di servizio in azienda, diminuita della retribuzione corrispondente al preavviso». Di fatto, si tratta della libertà di licenziamento per motivi economici, con il solo vincolo di un preavviso prestabilito.
- L’articolo 2120 infine stabilisce quale assistenza debba essere assicurata al lavoratore licenziato nel mercato del lavoro. Il «contratto di ricollocazione» che si è instaurato tra il dipendente e l’azienda che lo licenzia prevede: «L’erogazione a cura e spese del datore di lavoro o committente, per la parte non coperta da programmi statali o regionali, anche mediante un’agenzia terza, di un trattamento complementare per il periodo di disoccupazione effettiva e involontaria, tale che il trattamento complessivo ammonti al 90% dell’ultima retribuzione per il primo anno (limite massimo della retribuzione 40.000 euro)…dell’80% il secondo anno…e del 70% per il terzo». Dopo di che, nulla. Tale trattamento è però «condizionato all’assolvimento da parte del lavoratore degli obblighi di porsi a disposizione dell’organismo» preposto alle attività di ricollocazione. Per il lavoratore licenziato che non abbia superato i 2 anni di anzianità è prevista solo l’attività di ricollocazione senza indennità (quindi senza nessun sostegno al reddito!). L’impresa e l’agenzia possono recedere dal contratto di ricollocazione se il lavoratore rifiuta (senza giustificato motivo) un’opportunità di lavoro o un’iniziativa di formazione. Il costo gravante sui datori di lavoro per le attività di ricollocazione e formazione «è sostenuto dalle Regioni», mentre in caso di «insolvenza del datore di lavoro o committente e in assenza di altre forme assicurative, il Fondo di garanzia istituito presso l’Inps si surroga al debitore nell’erogazione del trattamento» previsto per il lavoratore licenziato.
I tre articoli citati di fatto tendono alla monetizzazione (parziale, in quanto non prevista per i lavoratori con meno di 2 anni di anzianità) del licenziamento sulla base delle esigenze aziendali. Tale flessibilizzazione del mercato del lavoro vien giustificata in nome dell’occupazione e della competitività, condizioni necessarie per poter poi procedere, in un secondo tempo, a interventi sulla sicurezza sociale, almeno nell’ottica del sindacato e del PD, secondo i principi di una fraintesa flexsecurity. In altre parole, si sanciscono nel primo tempo le forme del licenziamento, con la promessa che nel secondo tempo, verrà assicurata una qualche forma di sicurezza sociale. Dopo vent’anni di flessibilizzazione siamo ancora al primo tempo. Nel frattempo la flessibilità si è tramutata in precarietà e di sicurezza sociale non se ne parla. Piuttosto che parlare di flexsecurity, sarebbe più sensato e ragionevole parlare di secur-flexibility: solo dopo che la sicurezza sociale (accesso ai beni comuni, garanzia di reddito, salario minimo) viene garantita, si può, infatti, discutere, in una fase successiva, di regolamentazione del mercato del lavoro.
Fin qui la proposta di Ichino e l’analisi dei suoi limiti. Ma c’è di più. Come ricordato, tale proposta si basa sull’ipotesi fondamentale che la segmentazione del lavoro tra garantiti e precari sia effettivamente reale e esistente. E’ grazie a tale ipotesi, che Ichino si presenta come “difensori dei precari”, dal momento che l’indennità di ricollocazione per i tre anni dalla perdita del posto di lavoro verrebbe estesa anche ai precari (ma solo, lo ricordiamo – e qui sta l’inganno – per coloro che hanno più di due anni di anzianità). Ma siamo sicuri che oggi, dopo tre anni di pesante crisi economica e occupazionale, nel mercato del lavoro si possa ancora parlare di lavoratori garantiti? Se ne esistono ancora delle sacche, ciò non è dovuto sicuramente alle normative vigenti, ma piuttosto all’esistenza di complicità e di privilegi funzionali alle gerarchie d’impresa.
L’esperienza Fiat insegna. Anche i lavoratori che a livello formale si presentano come i più tutelati (presenza del sindacato, esistenza di un contratto collettivo di lavoro, un minimo potere contrattuale, ecc.), sanno perfettamente che tale situazione di stabilità può venir meno da un momento all’altro. La precarietà è infatti condizione generalizzata perché anche chi si trova in una situazione lavorativa stabile e garantita è perfettamente cosciente che tale situazione potrebbe terminare in seguito a un qualsiasi processo di ristrutturazione, delocalizzazione, crisi congiunturale, scoppio di una bolla speculativa, ecc. Tale consapevolezza fa sì che il comportamento dei/le lavoratori/trici più garantiti sia di fatto molto simile a quello dei/le lavoratori/trici che vivono oggettivamente e in modo diretto una situazione effettivamente “precaria”. La moltitudine del lavoro è così o direttamente precaria o psicologicamente precaria.
Far finta di non rendersi conto di ciò di fatto supporta la totale liberalizzazione del mercato del lavoro italiano. Viene così a compimento il progetto iniziato nel 1984 con l’introduzione della prima figura atipica in Italia (il contratto di formazione lavoro), un progetto che ha pervicacemente perseguito, a destra come a sinistra (e troppo spesso con l’avvallo sindacale), lo smantellamento delle tutele del lavoro in nome di una presunta (ma falsa) ideologia che lo scambio nel mercato del lavoro sia uno “libero scambio tra pari” (come scritto nel Libro bianco sul lavoro, redatto da un gruppo di esperti bipartisan, sotto la guida di Maroni e poi di Sacconi).
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