L’Università di giornalismo di Wuhan è considerata una delle migliori
del paese. Il sistema scolastico cinese è rigido e severo: per chi dovrà
raccontare il mito della nuova potenza, c’è bisogno di eccellenza.
E a Wuhan, dove lo Yangtze separa il Nord dal Sud della Cina e continua
a vedere scorrere il paese che nacque dalla sua anima, la vita scorre
come in un villaggio catapultato nella modernità cinese. E’ impregnata
di Cina, Wuhan, rispetto alla occidentale Pechino e alla Shanghai di
tendenza e business dalla mattina alla sera, tanto per citare due città
famose del Regno di Mezzo. Gente in giro, tanta, cibo dappertutto,
socialità di strada, autobus strapieni, fermate improvvisate, taxi la
cui tariffa parte da 3 yuan (circa trenta centesimi). Non manca il
contrasto con le aree cittadine in cui i grandi mall cibernetici della
zona dello shopping, si travestono con insoliti messaggi natalizi.
A Wuhan si erano sviluppate lotte universitarie che avevano anticipato
il 1989, piazza Tian’anmen e tutto il resto, ma anche movimenti musicali
inneggianti al punk e al rock: tutte novità nel panorama sociale cinese,
in nome di un livello pre politico che in Cina costituisce già una presa
di posizione non da poco. Come essere vegetariani, leggere libri
proibiti o tentare di barcamenarsi nella propria vita evitando di cadere
nelle trappole sociali cinesi: le pressioni, istituzionali e famigliari,
i guanxi, le relazioni, i contatti e l’ansia di perdere la faccia. E
tentare di non lavorare, o di farlo il meno possibile, cercando di
sviluppare altre idee di vita. Vivere con lentezza e leggerezza,
apparente contraddizione per i ritmi della nuova potenza cinese.
La conferenza
L’università è in un campus da sogno, perso tra la bruma del fiume e le
strutture per i tanti studenti che vivono lì. E’ nota nel paese per
essere aperta, open minded, come si dice da queste parti, in un inglese
lingua di mezzo tra i cinesi e i tanti laowai, stranieri, ancora alle
prese con l’apprendimento della lingua autoctona. Brulica vita, e
rispetto ai panorami sociali italiani, sembra già di sentire pulsare
qualcosa di migliore, pur nelle tante pieghe, visibili e invisibili, di
un’ardua comprensione.
Il professore che mi riceve avrà sui quarantacinque anni, parla un
inglese stentato ma pare decisamente intrigato dall’idea: la sua facoltà
sta per assistere, per la prima volta in Cina, ad una conferenza
dedicata a fenomeni legati all’attivismo nel mondo occidentale:
Indymedia, San Precario e Serpica Naro, anagramma di San Precario e
stilista immaginaria che nel 2005 bucò la sontuosa macchina da guerra
comunicativa della settimana della moda milanese. Parlare di media
indipendenti, di conflitto, di precarietà in Cina sembra apparentemente
strano: il Dragone passa alle cronache come paese che censura, in cui le
parole comunicazione e indipendente rappresentano un ossimoro del nuovo
millennio, in cui tutto ciò che contraddice, viene messo sotto silenzio.
Eppure: c’è un’aula, ci sono molti studenti e già nelle chiacchiere
prima della conferenza si può intuire il desiderio di confronto. E c’è
all’orizzonte tutta la preoccupazione della nuova generazione, dopo
trent’anni di riforme: trovare lavoro e una sicurezza sociale che appare
una chimera. Qualche giorno fa un blog cinese sottolineava un insolito
fatto: molti laureati ormai si presentano ad ogni tipo di concorso,
perfino quelli che devono stabilire chi assumere nell’ambito del settore
dei bagni pubblici. Segnali, tendenze, potenziali grane sociali
all’orizzonte.
Durante la conferenza si parte con i concetti di free software ed etica
hackers: alcune diapositive proiettate sullo schermo gigante aiutano a
spiegare il concetto che invita a metterci le mani sopra, non accettare
mai verità rivelate e provare a cambiare, modificare, adattare,
migliorare e distribuire, ogni cosa ci passi per le mani, per la testa.
Attitudine è la parola che ricorre maggiormente. E poco importa che in
un paese in cui l’Internet è controllato e censurato, si mostri come
saltare i tanti guardiani dell’armonia on line. Qualcuno annuisce, altri
scrivono frettolosamente, qualcuno, pochi per fortuna, si addormenta. Ma
quando arriva il turno delle domande l’atmosfera diventa più elettrica.
Si parla di media indipendenti, di diventare noi stessi media, di
provare a cambiare quel flusso informativo che pesa così tanto sulle
vite e la propria condizione di precarietà. E i cinesi sono pratici,
difficilmente si fanno catturare da ambiti metafisici. I concetti
astratti faticano anche a trovare una loro connotazione linguistica.
Come per dire cose, genericamente: i cinesi usano il termine dongxi,
letteralmente, estovest, a indicare tutto quanto può esistere
dall’oriente all’occidente del mondo. E allora le domande sono semplici
e precise, per forza: dove avete trovato i soldi, come avete inciso
sulla realtà circostante e soprattutto, l’esca che riporta in avanti il
seminario, come pensate di ovviare alla precarietà della nostra vita. E
sembra strano, in un paese così diverso dal nostro, condividere le
stesse problematiche. E allora si parla di precarietà, della forza dei
simboli e della necessità di creare degli strumenti di riconoscimento e
conflitto, all’interno del quale possano svilupparsi relazioni e
attitudini. La spiegazione di San Precario, la forza della
collaborazione tra precari che si erge sopra i simboli, sviluppa
immediata complicità, anche se immersa nella realtà italiana di santi,
lotte e stranezze. E’ poi il turno del video che racconta l’esperienza
di Serpica Naro, ennesimo esempio della forza delle relazioni e della
necessità di creare un’autonarrazione capace di creare propri miti.
Il workshop
Tra domande sul Chiapas e sulla situazione del movimento italiano, si
arriva ad uno scambio di battute con professori e ricercatori
dell’università. Si parla di tutto, di democrazia, di sinistra di
destra, di letteratura, di individualismo e collettivismo. I cinesi
conoscono l’Occidente, lo vivono sulla propria pelle e lo cercano in un
sentimento che mischia adorazione e fastidio, ammirazione e supponenza:
sentono che questo è il loro secolo e cercano di comprendere meglio
alcuni meccanismi di chi sta per passare la mano. Dell’Italia sanno le
ultime disgrazie, Berlusconi dopo la sparata sui cinesi che bollivano i
bambini è diventato famoso da queste parti. Si sa che possiede una
grande quantità dei mezzi di informazione, anche se non viene mai
accennata la vicinanza con la Cina, dove i mezzi di informazione sono
tutti in mano al partito. Contraddizioni, dal lato occidentale delle
cose, che si concretizzano nel secondo momento della stramba avventura a
Wuhan. Alcuni ragazzi hanno affittato un casolare, in una zona
abbastanza isolata a ridosso dello Yangtze: pagano 500 yuan al mese, 50
euro. Lì vicino c’è anche un monastero taoista. La casa ha tre piani, la
stanno rimettendo a posto, aggiustando, organizzando. E stanno anche
provando a immaginare come usare quello spazio non solo in chiave
privatistica. Hanno già ospitato concerti e presentazioni di libri. Ora
è la volta di San Precario e Serpica Naro. Il posto è freddo – a sud
dello Yangtze il riscaldamento non esiste – e caldo allo stesso tempo:
ragazzi e ragazze lo vivono provando a confrontarsi e capire le
reciproche visioni del mondo. Ci sono anche libri, si possono scorgere
la Società dello Spettacolo di Debord e 1984 di Orwell in bella vista.
Cinese, inglese, fumetti, flyers: quanto di più simile possa esistere a
un centro sociale italiano. Fare paragoni sarebbe assurdo tanta è la
differenza culturale che passa tra le due esperienze.
Questa volta è il turno dei ragazzi e delle ragazze cinesi: la
precarietà, viene ripetuto, è un problema anche loro. E a sentirli
raccontare l’esistenza lavorativa e lo stato di solitudine in cui viene
vissuto il ritmo asfissiante della società cinese e l’incertezza
occupazionale che si riflette in quella di vita, sembra di andare avanti
e indietro nel tempo contemporaneamente. Si accende il fuoco, si mette
un po’ di musica in sottofondo e si vive il cortile come una agorà in
cui confrontarsi. I cinesi parlano fitto, aspettano il proprio turno e
si scambiano impressioni sulla vita nel loro paese lanciato a bomba nel
futuro. Vorrebbero fare nascere una rivista, alcuni di loro si
incontrano per la prima volta: c’è bisogno di annusarsi e comprendersi.
Si parla di viaggi, della necessaria esperienza che serve a una vita, di
etica, moralità, purezza. Poi si va a dormire – che il posto è distante
dalla città e a quell’ora trovare anche un taxi in mezzo al nulla è
un’impresa – con una domanda ronzante nella testa: cosa chiederanno ai
propri sogni le ragazze e i ragazzi cinesi.
// INTERVISTA
Wuhan tra le altre cose è chiamata anche la città dell’LSD, poiché
detiene il record nazionale di uso di sostanze chimiche. I ragazzi che
gestiscono il Laboratorio lo sottolineano a inizio intervista, per
accorciare le distanze circa la comprensione del luogo i cui si trovano
a operare. Si affrontano infiniti temi, perché la voglia principale è
quella di condividere esperienze diverse e con esse la dura realtà e lo
straordinario coraggio che ci vuole a prendere parte.
Quando avete cominciato le attività in questo posto?
A settembre siamo entrati: abbiamo impiegato due mesi per pulire,
mettere a posto e preparare l’impianto audio e una piccola libreria. Poi
abbiamo iniziato con un concerto di musica sperimentale, è venuta
parecchia gente. Infine abbiamo organizzato una conferenza dibattito
sullo zapatismo, molti problemi del Sudamerica ci hanno ricordato la
nostra situazione, una sul concetto di do it yourself e quella su
Serpica Naro. Ogni giorno naturalmente cerchiamo di confrontarci con la
volontà di creare un luogo che risponda ai nostri sogni e alle nostre
necessità. Abbiamo altre iniziative all’orizzonte: una sul femminismo,
una sul subvertising (tecnica di ribaltamento dei messaggi pubblicitari,
ndr) e una sui sistemi di sorveglianza. Infine abbiamo invitato i
ragazzi e le ragazze di Asia Media Activist Net, un’esperienza nata in
Giappone e Corea del Sud.
Quali sono i vostri desideri riguardo questo luogo? I vostri obiettivi?
Ci piace dire che vorremmo creare un laboratorio sociale, in grado di
ricostruire in modo decostruttivo la realtà che ci circonda. Abbiamo
deciso di fare, e di provare a immaginare una realtà che sia diversa da
quella che viviamo giornalmente. Decidere per noi stessi, guidarci da
soli, in una società gerarchica come quella cinese sarebbe già un grande
successo. E lanciare un segnale, un monito, un’attitudine come abbiamo
ripetuto al workshop su Serpica Naro. Riguardo gli obiettivi ne abbiamo
tre in particolare: prima di tutto comunicare. Secondo, agire. Qui in
Cina parliamo sicuramente di un’avventura: vogliamo realizzare un
magazine, ma anche fare azioni di pulizia nelle discariche di questo
villaggio. Come saprete questo è molto difficile, perché questo schifo
che puoi vedere per strada è una cosa che si basa su consuetudini
sociali, burocrazia, governo del villaggio. Sembra una cosa facile, ma
non lo è.
Infine, ovviamente, sperimentare una vita creativa e attiva, che
sviluppi il concetto di un’economia del dono, della condivisione.
Che reazioni sono arrivati dai vostri amici di Wuhan.
Qualcuno ci ha detto che stiamo facendo una cosa senza senso. Può
essere, stiamo giusto cercando di capire cosa stiamo mettendo in piedi.
Poi però quelle stesse persone vanno alle feste di Natale organizzate da
ex punk. Si definiscono marginali, allora noi potremmo definirci di
nessun luogo! Ci sono state anche sorprese: qualcuno ci ha proposto di
finanziarci per creare un ostello della gioventù, altri si sono detti
disposti a venire a darci una mano, una rivista nazionale di arte ci ha
contattato per seguire le nostre attività, un professore dell’università
ci ha dato la possibilità di ospitare un workshop sull’attivismo
occidentale in facoltà. Sono segnali buoni e che non ci aspettavamo.
Se doveste descrivere il mondo in cui vi piacerebbe vivere, che parole
usereste?
Un mondo che non sia dominato dall’idea di destino, che tutto giustifica
e che serve solo a rendere passive le persone. Mutualità solidarietà e
rispetto per se stessi. E’ una domanda che mi piacerebbe rivolgere anche
a voi occidentali, non è facile rispondere. Il mondo ideale esiste nelle
menti, qui proviamo a fare si che il mondo che vediamo e che non ci
piace, possa essere un poco migliore. Serve coraggio, determinazione.
Quali pensiate siano i problemi dei giovani cinesi?
Affoghiamo nella comunicazione mainstream. E’ strano: la pubblicità ci
dice che niente è impossibile, ma poi i giovani sembrano terribilmente
spaventati all’idea. C’è una storiella cinese che esemplifica la cosa:
un uomo era innamorato di un drago. Lo dipingeva ovunque, dappertutto.
Un giorno il drago, toccato da tanta passione, lo va a trovare. E l’uomo
quasi muore di paura. Viviamo sotto una maschera, abbiamo paura e sembra
che ogni cosa che provi a fare sia impossibile. E’ un meccanismo strano
questo del neo liberismo: ti dicono che sei libero, ma ti senti in trappola.
Quali libri state leggendo, adesso.
The Revolution of Everyday Life, di Raoul Vaneigem, i racconti del
subcomandante Marcos e Dharma Bums, di Kerouac.
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