La Repubblica — 03 marzo 2010
ROMA – Aggirare l’ articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che tutela dal licenziamento senza giusta causa, e anche altre norme della nostra legislazione sul lavoro. Ma senza dirlo, almeno direttamente. La nuova legge sul processo del lavoro presentata dal governo è ormai a un passo dall’ approvazione: questa settimana dovrebbe concluderne l’ esame la Commissione Lavoro di Palazzo Madama, subito dopo sarà l’ Aula a dare il via libera definitivo dopo quasi due anni di navetta tra Camera e Senato. In quel testo (il disegno di legge 1167-B) c’ è scritto che le controversie tra il datore di lavoro e il suo dipendente potranno essere risolte anche da un arbitro in alternativa al giudice: o l’ uno o l’ altro. Un cambiamento radicale rispetto alla tradizione giuridica italiana, dove c’ è sempre stata una forte diffidenza nei confronti dei lodi arbitrali di stampo anglosassone. Un affievolimento di fatto delle tutele a favore del lavoratore, la parte oggettivamente più debole in questo tipo di controversie. E anche, appunto, un superamento dell’ articolo 18, come di altri vincoli legislativi. Perché di fronte a un licenziamento l’ arbitro deciderà “secondo equità”. «Secondo la sua concezione di equità, non secondo la legge», commenta preoccupato Tiziano Treu, senatore del Pd, ex ministro del lavoro, giuslavorista non certo un massimalista visto che porta il suo nome il primo pacchetto sulla flessibilità. Eppure Treuè tra i firmatati di un appello (“Fermiano la controriforma del diritto del lavoro”) contro il disegno di legge del governo giudicato «eversivo rispetto all’ intero ordinamento giuslavoristico». Tra i firmatari il giurista di Bologna Umberto Romagnoli, il sociologo torinese Luciano Gallino, l’ ex presidente dell’ Inps Massimo Paci. Un appello che però resterà nel vuoto. La norma è davvero complessa. In sostanza – modificando l’ articolo 412 del codice di procedura civile – si prevedono due possibilità tra loro alternative per la risoluzione delle controversie: o la via giudiziale oppure quella arbitrale. Già nel contratto di assunzione, anche in deroga ai contratti collettivi, potrebbe essere stabilito (con la cosiddetta clausola compromissoria) che in caso di contrasto le parti si affideranno a un arbitro. Strada assai meno garantista per il lavoratore che in un momento di debolezza negoziale (quello dell’ assunzione, appunto) finirebbe per essere costretto ad accettare. E il giudizio dell’ arbitro sarà impugnabile esclusivamente per vizi procedurali. «Questa volta – sostiene Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil – è peggio rispetto al 2002: allora l’ attacco all’ articolo 18 fu diretto ed era semplice spiegarlo ai lavoratori. Ora l’ aggiramento va ben oltre l’ articolo 18 impedendo addirittura di arrivare al giudice del lavoro». Di «approccio chirurgico», parla l’ ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano (Pd). «Si fanno le “operazioni” – aggiunge – senza andare allo scontro frontale». Preoccupata anche la Cisl, dice il segretario Giorgio Santini: «Non abbiamo pregiudizi nei confronti dell’ arbitrato, ma ora spetta alla contrattazione fissare i paletti di garanzia per l’ esercizio dell’ arbitrato». La legge infatti rinvia a un accordo tra le parti che però se non arriverà entro un anno lascerà spazio a un decreto del ministro del Lavoro. Ma per Giuliano Cazzola (Pdl), relatore del disegno di legge alla Camera: «bisogna smetterla di considerare i lavoratori come dei “minus habens”, incapaci di scegliere responsabilmente e consapevolmente un percorso giudiziale o uno stragiudiziale (l’ arbitrato, ndr ), per dirimere le loro controversie di lavoro»