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L’attuale situazione politica italiana è alquanto paradossale. Non è una novità, è una costante dell’Italia.
Soltanto un anno fa, da un punto di vista economico, non si riscontravano segnali che potessero far pensare ad una pressione speculativa così forte sull’Italia.
Non aveva tutti i torti il ministro Tremonti ad affermare che i fondamentali economici del paese erano sufficientemente solidi. Il rapporto debito/pubblico italiano era sì molto elevato (120%), ma, tutto sommato, lo stesso di 20 anni fa e nel corso della crisi dei subprime l’Italia aveva fatto registrare l’aumento più contenuto, di gran lunga inferiore a quello Usa (dal 60% del 2007 al 100% di oggi). Al netto della spesa per interessi, il rapporto deficit/Pil risultava inferiore a quello francese e inglese e di poco superiore a quello tedesco. Inoltre il tasso d’inflazione era in linea con quello europeo e la disoccupazione ufficiale (in realtà sottostimata rispetto a quella reale), pure.
Piuttosto, il problema economico dell’Italia è la bassa crescita, conseguenza anche dell’elevata precarizzazione del lavoro, che penalizza i settori a più alto valore aggiunto e la dinamica della produttività, e un’eccessiva concentrazione dei redditi che penalizza la domanda interna.
Troppo vecchi per lavorare, troppo giovani per la pensione. In rete mandano un messaggio di denuncia al ministro dell’Economia, Giulio Tremonti: “Vogliamo dirle che noi, onorevole, noi espulsi dal lavoro , da questa crisi non siamo ancora usciti”. Cinque storie in quattro minuti di “disoccupati maturi”
In fondo dicono la stessa cosa: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e cinque disoccupati over40 che si sfogano in un video su Youtube che in pochi giorni è stato visto da 12mila persone. Il capo dello Stato ieri ha detto: “Oggi più che mai occorre un diritto del lavoro inclusivo ed equo”. Cioè leggi che rendano il mercato del lavoro “attento alla tutela dei diritti della parte più debole contrattualmente e alla riaffermazione rigorosa dei relativi doveri”.
Nel video di 4 minuti su Youtube dal titolo “Non siamo scarti”, Marco Sanbruna, 46 anni, Dilva Giannelli, 58 anni, Fedele Sposato, 63 anni, Nicola Di Natale, 57 anni, Giovanni Laratta, 54 anni, si appellano al ministro dell’Economia Giulio Tremonti: “Vogliamo dirle che noi, onorevole Tremonti, noi espulsi dal lavoro quando avevamo già compiuto i 40 anni, da questa crisi non siamo ancora usciti”.
A promuovere l’iniziativa è l’associazione Atdal, per la tutela dei diritti dei lavoratori over 40. Armando Rinaldi racconta com’è nata: “Sono un ex dirigente della Philips ora in pensione. Mi hanno buttato fuori a 51 anni, nel 1999, quando mi mancavano cinque anni alla pensione, quindi ho dovuto lavorare come free lance”. In quei cinque anni prova a scalfire la solitudine che prova chi è nella sua situazione: “So che può sembrare incredibile, ma è andata così. Compro cinque o sei giornali al giorno, leggo sempre le rubriche delle lettere dei lettori. Così ho iniziato a scrivere a tutti quelli che raccontavano situazioni analoghe alla mia, in un anno ho messo insieme 3-400 contatti a livello nazionale. Poi è nata l’associazione, nel 2002”. Vi partecipano “disoccupati maturi”, come vengono pudicamente definiti, con storie come quelle dei cinque protagonisti del video. Persone come Dilva Giannelli, 58 anni, pubblicitaria vittima di un “tagliatore di teste aziendale” che dieci anni fa viene convinta ad acettare una buonuscita, soltanto per poi dover aprire una partita Iva e mettersi in competizione con giovani precari a 750 euro al mese. Nicola Di Natale ha 57 anni e lo sguardo triste di chi si è trovato in mobilità con la promessa di ritrovare il suo posto di autista in una multinazionale milanese. L’azienda si è ripresa ma non ha ripreso lui: “T’è capì i furbacchioni?”, commenta in milanese. Unica prospettiva realistica: aspettare la fine di ogni ammortizzatore sociale e scoprirsi povero. Peggio perfino dei “working poor”, i lavoratori con salari da fame, la categoria che più appassiona oggi i sociologi.
I “disoccupati maturi” sono tanti: secondo l’Istata 512 mila tra i 35 e i 44 anni, 327 mila tra i 45 e 54 anni, altri 100 mila tra i 54 e i 65. Senza contare gli scoraggiati che non cercano più lavoro e i cassintegrati che sono spesso disoccupati mascherati. Ma i loro sono drammi individuali, che faticano a trovare una narrazione comune. “Mi piacerebbe abbracciarli a uno a uno e urlare loro «non permettete a nessuno di uccidere i vostri sogni», ma le mie sono solo parole increspate da un’emozione”, scriveva giovedì Massimo Gramellini su La Stampa. Su Youtube si accumulano le storie, nei commenti al video. Un certo Marco scrive: “Vi invito a incanalare le energie verso l’impegno per contrastare l’assurdità di questo mondo del lavoro che ci vuole escludere. Scegliete voi la forma: impegno sindacale, partitico, associazionismo. Ma non rassegnatevi a essere scarti”. Si attende la risposta del ministro Tremonti.
Il governo, a partire dal ministro Tremonti, sostiene che i ragazzi devono riscoprire i lavori umili, ma nessun dato conferma questa tesi. Datagiovani spiega: “I questionari Istat non danno indicazioni sui lavori rifiutati”
La tesi ha il fascino della semplicità: se la disoccupazione giovanile è al 30 per cento, la ragione è che i giovani non accettano i lavori disponibili perché non li considerano alla loro altezza. Lo ha detto il ministro Giulio Tremonti, da Washington pochi giorni fa, dicendo che gli immigrati sono meno schizzinosi. Ieri il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini ha scritto una lunga lettera al Corriere della Sera spiegano che il governo aiuterà i ragazzi a “superare il pregiudizio verso l’istruzione tecnica e professionale”. Una diffidenza che “per troppo tempo ha allontano i nostri giovani da prospettive occupazionali che consentono invece una straordinaria realizzazione di sè”. La tesi non è condivisa solo dal governo, ma è stata rilanciata dal Censis di Giuseppe De Rita e da editorialisti come Dario Di Vico che, sempre sul Corriere, invitava ad arruolare “i testimonial più trendy” per spiegare il fascino del lavoro manuale. Peccato che tutte queste certezze non si fondino sui numeri. Sono atti di fede.
Non c’è alcuna indicazione sul fatto che la difficoltà di reperimento dipende dall’età, di solito deriva dalla mancanza di professionalità adeguata o di esperienza. “Non c’è alcun dato ufficiale sul fatto che i giovani rifiutino lavori poco appaganti”, spiega Michele Pasqualotto, ricercatore della società Datagiovani, specializzata in analisi del mercato del lavoro giovanile. Spiega ancora Pasqualotto: “Tra le domande del questionari Istat, su cui si fondano tutte le analisi, non c’è n’è alcuna sui lavori rifiutarti, viene soltanto chiesto che cosa sarebbero disposti a fare per lavorare”.
Su cosa si fonda, allora, tutta questa necessità di riscoprire il lavoro manuale? Su alcuni dati piegati a sostegno dello snobismo dei ragazzi. Il rapporto Unioncamere-ministero del Lavoro studia le richieste delle imprese: stando alle previsioni di assunzioni relative al 2010 (le più recenti a disposizione) e alla difficoltà di reperimento del personale ricercato, risulta che è difficilissimo trovare 2860 meccanici per autoveicoli, una rarità i montatori e riparatori di serramenti e infissi (ne mancano 1350). Questo significa che tutti i giovani devono diventare meccanici o montatori di infissi? Assolutamente no, è lo stesso rapporto Unioncamere a precisarlo. “Se si eccettua il 2009 [quando il Pil è crollato del 5 per cento], le assunzioni di laureati e diplomati programmate dalle imprese sono continuamente aumentate in termini assoluti, segnando entrambe, in ciascun anno, variazioni superiori alla media di molti punti”. E quindi tra il 2004 e il 2009 le assunzioni dei laureati sono cresciute dall’8,4 per cento all’11,9 per cento. Mentre quelli con la sola licenza dell’obbligo sono diminuiti dal 41 al 30,4 per cento. Studiare, insomma, conviene anche se meno di un tempo, come racconta il rapporto di Almalaurea (il tasso di disoccupazione a un anno dalla laurea specialistica è salito tra il 2008 e il 2009 da 16,2 a 17,7). “Inoltre il rapporto Unioncamere non specifica se la difficoltà di reperimento si traduce poi in un congruo numero di assunzioni”, spiega Pasqualotto di Datagiovani.
Anche i numeri del Censis di Giuseppe De Rita sono una fragile base per le asserzioni del governo. Il ragionamento dell’istituto è questo: nei lavori più strettamente manuali la presenza di lavoratori under 35 è diminuita tra il 2005 e il 2010 dal 34,3 al 27,6 per cento. Negli stessi anni è però cresciuta la percentuale di lavoratori stranieri, dal 10 al 18,8 per cento. Ergo, conclude il Censis, gli stranieri hanno preso il posto dei giovani. Ma è solo una teoria, tutta da dimostrare. Che, per esempio, non tiene conto del fatto che i giovani sono i più facili da espellere dal mercato del lavoro perché quasi tutti precari (nel 2010 il 36 per cento dei nuovi assunti era giovane, mentre i contratti a tempo indeterminato sono diminuiti di un altro 15 per cento). E non considera neppure il fatto che, se gli stranieri aumentano (e hanno in prevalenza un basso tasso di istruzione) e i giovani italiani diminuiscono, una certa sostituzione è fisiologica.
Quello sul fascino del lavoro manuale resta comunque un dibattito tutto italiano. Basta scorrere il rapporto dell’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro (dell’Onu) di agosto 2010, dal titolo “Trend globali dell’occupazione per i giovani”. Non c’è alcun cenno alla necessità di spiegare che, in tempi di magra, qualunque lavoro va bene. Ma si insiste sulla necessità della formazione continua, basata su tre principi chiave: “1) Fare tutto il possibile per evitare l’abbandono scolastico 2) Promuovere la combinazione di studio e lavoro 3) Offrire a ogni giovane una seconda chance di formazione”, per recuperare chi ha lasciato gli studi troppo presto. Ma consigliare a chi è tentato dall’università di andare a bottega a imparare un mestiere, magari lavorando gratis e scomparendo dalle statistiche, è molto più semplice.
Il 24 aprile 2010 a Washington nell’incontro dei G20 il ministro Tremonti dichiarava che l’Italia «non avrà bisogno di ampi aggiustamenti strutturali al proprio settore finanziario, né di un riequilibrio tra risparmio e consumi». I livelli di debito del settore privato, infatti, restano contenuti e le banche sono passate attraverso la crisi «molto meglio di quelle di altri Paesi». Inoltre, «il deficit di bilancio è stato molto più limitato di quello della maggior parte dei Paesi avanzati.
Ancora una volta il dibattito politico italiano ha sussulti retrò e stravaganti. Non è la prima volta. Recentemente l’ineffabile ministro della creatività finanziaria Giulio Tremonti pare abbia scoperto il “valore del posto fisso”. Detto da lui, può solo venir da ridere, se, ad esempio, consideriamo che è lui il vero burattinaio che sta dietro ai tagli alla scuola con la conseguente precarizzazione e licenziamento di migliaia di insegnanti.
Tuttavia la boutade di Tremonti, al di là delle motivazioni squisitamente politiciste e interne ai precari equilibri della maggioranza, mette a nudo un problema che oggi sta diventando centrale: l’eccessiva deregulation del lavoro porta non flessibilità ma precarietà con effetti nefasti sulla stessa efficienza dell’apparato produttivo. Tale risultato, come sappiamo, è il frutto congiunto sia delle politiche del centro destra (in nome del profitto) che del centro sinistra (in nome della competitività).