Domani, 21 maggio, arriverà in città il primo ministro Matteo Renzi. Secondo i programmi annunciati (poi modificati e infine di nuovo riconfermati), prima visiterà la Brembo, poi incontrerà i sindacati che seguono la vicenda Italcementi e infine alle 11 si recherà al Teatro Sociale, luogo scelto per cominciare la campagna per il referendum di ottobre sulla riforma del Senato. L’incontro viene presentato come pubblico e aperto alla cittadinanza, in contrasto con la scelta di un luogo chiuso e difficilmente accessibile come città alta, considerato il (prevedibile) spiegamento ingente di forze dell’ordine. Già dalla mattina infatti Piazza Vecchia sarà blindata dalla polizia e un presidio di protesta organizzato proprio nel centro di città alta dai sindacati di base non è stato autorizzato dalla questura; più che un evento realmente aperto alla città, dunque, sembra che Renzi prepari l’ennesima vetrina politica, dove sfilare ossequiato da giornalisti ed ospiti compiacenti e sicuramente poco scomodi.
Il premier presenterà a Bergamo “#Bastaunsì” (come dimenticare la passione di Renzi per i social network?), la campagna che porterà al referendum sulla riforma del Senato, meglio conosciuta come ddl Boschi. Approvata in via definitiva alla Camera (manca dunque solo il referendum confermativo per la messa in vigore), questa consultazione non prevede il quorum, ma solo il raggiungimento della maggioranza dei voti. Se vincesse il Sì tanto voluto dal governo sarebbe la fine del “bicameralismo perfetto” che ha caratterizzato il Parlamento dalla nascita della Repubblica. In programma ci sono modifiche strutturali all’ordinamento statale, che toccheranno diversi ambiti.
Innanzitutto, verrà rivoluzionato il parlamento. Attualmente tutte le leggi, sia ordinarie sia costituzionali, devono essere approvate da entrambe le camere con le identiche modifiche: anche la fiducia al governo deve essere concessa sia dai deputati che dai senatori. Con la riforma, invece, l’approvazione delle leggi diventerà prerogativa solo della Camera. Il Senato sarà un organo rappresentativo delle autonomie regionali (si chiamerà “senato delle regioni”) e sarà composto da 100 senatori (invece dei 315 attuali): 74 consiglieri regionali, 21 sindaci, 5 senatori nominati dal capo dello Stato per 7 anni. I componenti del nuovo senato non saranno eletti direttamente dai cittadini durante le elezioni politiche, ma durante le elezioni regionali, attraverso un listino apposito o mediante la nomina dei più votati. I senatori non verranno più pagati dal senato, ma percepiranno solo lo stipendio da amministratori.
Il senato cambierà dunque anche le sue funzioni: potrà esprimere pareri sui progetti di legge approvati dalla camera e proporre modifiche in tempi strettissimi, cioè entro trenta giorni dall’approvazione della legge; tuttavia la camera potrà anche non accogliere gli emendamenti. La funzione principale del senato sarà dunque quella di esercitare una funzione di raccordo tra lo stato, le regioni e i comuni. Cambierà anche il modo di eleggere il presidente della Repubblica: non basterà più la metà più uno degli elettori (come avviene ora, a partire dalla quarta votazione), ma serviranno i due terzi per i primi scrutini; poi i tre quinti; dal settimo scrutinio saranno necessari i tre quinti dei votanti. L’approvazione delle leggi sarà quasi sempre prerogativa della Camera e l’iter di approvazione sarà molto più rapido: il governo avrà addirittura una corsia preferenziale per i propri provvedimenti, che dovranno essere votati dalla Camera entro 70 giorni. Insomma, più potere esecutivo e meno potere legislativo.
Inoltre, anche l’equilibrio tra potere centrale ed autonomie locali verrà modificato. Senza il coinvolgimento degli enti locali (regioni in primis), infatti, con questa riforma una ventina di materie torneranno ad essere di competenza esclusiva dello Stato: ambiente, gestione di porti e aeroporti, trasporti e navigazione, produzione e distribuzione dell’energia, politiche per l’occupazione, sicurezza sul lavoro, ordinamento delle professioni. Tutto ciò grazie all’abolizione del titolo V della Costituzione, che regolamenta i ruoli e le competenze delle autonomie locali. La scomparsa delle Province dalla Costituzione e della legislazione concorrente tra Stato e Regioni è la parte fondamentale di una riforma che riporta la maggior parte delle competenze in seno allo Stato centrale, che può anche commissariare regioni ed enti locali in caso di grave dissesto finanziario. Con il ddl Boschi viene infatti rovesciato il sistema per distinguere le competenze dello Stato da quelle delle regioni: sarà lo Stato a delimitare la sua competenza esclusiva (politica estera, immigrazione, rapporti con la chiesa, difesa, moneta, burocrazia, ordine pubblico, ecc.), decidendo dunque per esclusione le prerogative degli enti locali.
Insomma, il succo della riforma, i cui effetti si faranno sentire in diversi settori, sarà un aumento del potere del governo, a scapito del parlamento e delle autonomie locali (regioni e province in primis); l’obiettivo del ddl sembra dunque essere un accentramento delle prerogative nelle mani dell’esecutivo (premier e ministri) e una velocizzazione dell’iter legislativo, anche a costo di sacrificare il dibattito politico. Chi vedrà maggiormente ridimensionato il proprio potere, dunque, sono proprio i cittadini, che avranno la possibilità di votare direttamente solo i deputati, mentre il senato verrà appunto fortemente ridimensionato nella sua funzione legislativa. I critici della riforma sottolineano proprio questo punto: il delicato equilibrio tra parlamento (eletto direttamente dai cittadini) e governo verrà notevolmente compromesso, a favore del potere esecutivo, che risulta rafforzato anche dal nuovo procedimento sulla fiducia, necessaria solo dalla camera dei deputati e non più anche dal senato.
La riforma rispecchia dunque l’agire di questo governo, costantemente teso alla messa in atto di riforme anche radicali, senza preoccuparsi troppo delle discussioni e dei malcontenti. Enorme è dunque la responsabilità politica che Renzi si assume, se si considera che il suo governo non è stato votato in nessuna elezione; l’assenza di legittimità popolare non ha tuttavia fermato le riforme radicali del governo: se gli ultimi dati dal mondo del lavoro dimostrano come il Jobsact sia stato soprattutto un grande regalo per le imprese, docenti e studenti non se la passano meglio, alle prese con i tagli e vincoli di assunzione stabiliti nella Buona scuola; inoltre, anche lo Sblocca Italia non ha riscosso grandi consensi, con (tra l’altro) la previsione di 12 nuovi inceneritori in 10 regioni .
L’impressione generale, al di là dei toni trionfalistici e propagandistici del governo, è che Renzi e i suoi ministri non godano di grande favore: il PD ha infatti perso dieci punti percentuali di gradimento rispetto al 2014, anno di inizio mandato. A conferma di ciò, gli ultimi incontri pubblici del premier hanno visto massicce proteste in tutta Italia, arginate (spesso non pacificamente) dall’ ingente dispiegamento di forze dell’ordine; proprio a questo proposito è stato creato l’hashtag #Renziscappa, che ci dà tutta la misura della distanza tra il governo (e le sue scelte politiche) e il paese reale.
Anche domani, dunque, non mancheranno le proteste di spazi sociali, sindacati di base, precarie e precari, docenti, studenti e studentesse, lavoratori e lavoratrici che subiscono sulla propria pelle tutti i giorni le scelte di un governo ormai sempre più distante dalla cittadinanza: per esprimere il proprio dissenso, hanno lanciato l’appuntamento in piazza vecchia alle 9,30.
Avete probabilmente letto un altro ddl.