Cpt, l'ultima frontiera

Più di 50 persone nei recinti sotto il sole, condizionatori rotti e coperture metalliche
fonta la stampa.it

RAPHAEL ZANOTTI
TORINO
Per quanto ti giri, cammini, ti sposti, non c’è scampo: il sole picchia su quello spiazzo d’asfalto e non c’è modo di trovare ombra. Mai. L’aria tremula sale sopra il pavimento. L’unica struttura che potrebbe assomigliare a un riparo, è un suicidio climatico che nessuno ha il coraggio di affrontare: il container in metallo. Un forno che si arroventa fin dal mattino e da cui fanno capolino, inutilmente ironici, i cassoni rotti dei condizionatori. Tutt’intorno, la gabbia. Filo spinato e grate metalliche. Alte, ricurve, per scoraggiare i più acrobati. Dentro, uomini. Che si aggirano come animali, cercando l’ombra che non c’è.

Sono le 12.30 di giovedì 26 aprile quando Marilde Provera, deputata del Prc, varca la soglia del Centro di permanenza temporanea di corso Brunelleschi presidiato da due poliziotti in tenuta antisommossa e armati di mitraglietta. Da due anni a questa parte lo fa almeno una volta al mese. «È l’unico modo per tenere il fiato sul collo di chi lo amministra». E infatti, appena entra, comincia la consegna dei ricambi. Il Cpt è una di quelle strutture ibride volute dalle leggi sull’immigrazione: non sono carceri, ma nemmeno case di accoglienza. Di qui si esce solo in due modi: o espulsi, o perdendo la propria identità. Non sapendo da che Paese vieni, non sanno nemmeno in quale rispedirti e, passati 60 giorni, vieni rimesso fuori.

Mustapha è uno degli uomini senza nome. Sorride, sa che i suoi 60 giorni stanno per scadere. Quando arriva la parlamentare, le racconta la sua storia. Lo fanno anche altri. Storie diverse, particolari: eppure tutte hanno qualcosa in comune: «Lavoravo», «Non avevo rinnovato il permesso», «Io avevo una casa», «Perché sono qua?». Mustapha è un caso particolare. «Sono molto efficienti al Cpt di Torino - racconta la Provera con una punta di ironia -. La media di permanenza è di 12 giorni. Nonostante la capienza sia di 72 posti letto, non si sono mai superate le 62 permanenze». In mattinata sono state espulse 5 nigeriane. Ora ci sono 9 donne e 46 uomini. Le donne sono in una delle quattro gabbie in cui è diviso il centro, quella che chiamano l’area rossa. Gli uomini nella blu, nella gialla e nella verde.

Tutte le aree sono fatte nella stessa maniera. I container hanno tre letti a castello imbullonati al pavimento. Lenzuolini di carta, una coperta, un piccolo bagno, una doccia, un televisore. Ogni area ha un container-mensa, ma nessuno lo usa. «Dieci giorni fa erano uno schifo - racconta la Provera - veniva usato come immondezzaio. Oggi siamo venuti per controllare che l’abbiano rimesso a posto». È così, anche se nessuno lo usa. Tutti preferiscono mangiare nel container-letto.

«Vieni, vieni dentro a vedere - invita Johnson, un nero di dimensioni preoccupanti -. Guarda come viviamo, qui dentro nemmeno gli animali». È a torso nudo e quando gli abitanti di corso Brunelleschi escono sul balcone, fischia. Oppure batte con le mani sulla gabbia. D’altra parte, qui, non c’è nient’altro da fare. Non sono previste attività. Il pallone, unico svago, viene calciato in ciabatte. Vietate le scarpe. I soldi, se riesci, li proteggi. I cappotti, pure. Soprattutto d’inverno, quando i termosifoni hanno gli stessi problemi dei condizionatori d’estate. Bisogna solo aspettare. Sono uomini liberi, qui dentro. Eppure, per superare la grata, hai una sola chance: non far sapere mai chi sei

Mer, 02/05/2007 – 10:04
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