Perché Expo 2015 non è stato un successo

 

Expo 2015, the walking dead
Ora che Expo 2015 è terminato, proviamo a fare una prima valutazione del grande evento anche sulla base degli scenari che si prospettano. Il balletto dei numeri è già iniziato, attendiamo quindi i dati di quanti visitatori hanno varcato i cancelli della kermesse e a quanto ammontano i ricavi complessivi. Poi, bisognerà attendere la Corte dei conti – al cui controllo è sottoposta Expo 2015 S.p.A. in quanto società pubblica – per conoscere con precisione i dati di bilancio.

Il dato contabile relativo ai costi di gestione dell’evento fornirà l’entità del ‘buco’. Tuttavia, anche qualora emergesse un sostanziale pareggio tra costi e ricavi per quanto riguarda i 6 mesi di evento, si tratterebbe di un equilibrio ottenuto comprimendo fortemente il costo del lavoro e introducendo nuovi dispositivi di sfruttamento come il lavoro gratuito dei volontari. Nel corso dell’esposizione universale, le decine di volantinaggi effettuati ai tornelli di ingresso e i contatti presi con i lavoratori ci hanno permesso di descrivere una realtà fatta di condizioni di lavoro precarie, turni fino a 13/14 ore e mancato pagamento degli stipendi e degli straordinari. A tale proposito, emblematico rimane il caso dei lavoratori del Padiglione Italia che ancora aspettano lo stipendio di giugno.

Ma al di là della gestione dell’evento, Expo 2015 risulta comunque un’operazione in perdita, se consideriamo l’aspetto immobiliare.
Infatti, il valore di mercato dell’area è uno dei fattori più critici per la trasformazione urbanistica dell’intero comparto. Il valore posto a base d’asta nel bando di gara per la vendita dell’area nell’agosto del 2014 era pari a più di 315 milioni di euro. A questi, recentemente, si sono aggiunti i 72 milioni di euro (a fronte dei 6 milioni preventivati) necessari per completare i lavori di bonifica.
Dubitiamo che una cifra del genere venga scaricata sui proprietari originari come previsto dall’accordo quadro del 2 agosto 2012. Soprattutto, se si considera che Fondazione Fiera Milano – uno dei proprietari originari dei terreni – fa parte dell’azionariato di Arexpo, attuale proprietaria.

Come è noto, la gara per la vendita dei terreni è andata deserta. Fondamentalmente per tre motivi: l’alto valore economico delle aree, i vincoli urbanistici per l’operatore immobiliare e la crisi del mercato immobiliare. Fattori che determinavano un livello di rischio troppo alto. Per questo, è stato necessario chiamare in causa il Governo. Il suo ingresso segna una ridefinizione dei rapporti pubblico-privato. Il pubblico, come al solito, farà quadrare i conti iniettando denaro e svolgendo il ruolo di garante nei confronti delle banche. Il privato, invece, si metterà in tasca i profitti.

Inoltre, va osservato che, rispetto alla tematiche dell’esposizione, il dibattito è stato del tutto ininfluente. Ciò che ha ha prodotto è stata la ‘Carta di Milano’ che, per usare le parole del Segretario
generale di Caritas Internationalis – non certo etichettabile come estremista – “riflette le vedute di Paesi ricchi piuttosto che rappresentare i poveri del mondo”. L’ennesimo documento fatto di enunciazioni di principio destinate a rimanere lettera morta. D’altra parte, all’interno di Expo 2015 hanno trovato posto sia le ONG raccolte a Cascina Triulza che alcune multinazionali eticamente incompatibili – Monsanto, Coca Cola, Nestlè, Selex, McDonald’s, per citarne alcune – con il tema dell’evento, ma che hanno trovato ugualmente spazio all’interno dei padiglioni, riuscendo a rifarsi il maquillage. Agli antipodi di ogni discorso sulla sovranità o sull’autodeterminazione alimentare, ci pare che Expo abbia invece favorito su questo tema i ben noti meccanismi di predazione dei territori anche attraverso una risignificazione del cibo trasformato, anzi “ribrandizzato”, in food, così vicino alle necessità del mercato quanto lontano da ogni diritto reclamato in merito all’accesso alle risorse prodotte. Anche sulla sua tematica caratterizzante, Expo 2015, coerentemente con le sue impostazioni di base, ha rappresentato una vetrina dei meccanismi di espropriazione della ricchezza prodotta.

Per quanto riguarda le ipotesi di utilizzo delle aree, l’idea è quella di trasferire alcune delle facoltà scientifiche – quelle attinenti al tema di Expo – dell’Università degli Studi di Milano e realizzarvi un campus universitario dismettendo l’area di Città Studi. Collegato a questo primo progetto c’è anche l’insediamento del Centro per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (CREA) e la realizzazione, da parte di Assolombarda, di un polo tecnologico, in grado di far convergere tutti gli attori coinvolti nella filiera italiana dell’Information Technology. All’interno dell’area troverebbero posto anche diversi uffici della Pubblica Amministrazione, realizzando una sorta di defénse, ma in versione meneghina.

L’investimento complessivo si aggirerebbe intorno al miliardo di euro e servirebbe a realizzare ‘un’area per l’innovazione’, cioè una zona giuridicamente indipendente con un’autonomia legale, economica, amministrativa e politica. Sull’esempio di quanto effettuato già a Shenzhen, Hong Kong, Singapore o Dubai, si tratterebbe di creare un’area con una fiscalità bassa, assenza di burocrazia ed un sistema legale snello attirando investimenti produttivi sull’area.

L’obiettivo sarebbe quello di istituzionalizzare il ‘modello Expo’. Un sistema che in questi 6 mesi si è caratterizzato per bassi salari, orari di lavoro di 10-11 ore al giorno, utilizzo in deroga dei contratti a termine, di apprendistato e degli stage, utilizzo abusivo dei volontari, ma soprattutto, conflittualità sindacale assente.

Il post Expo, quindi, si sta configurando come la ricetta neoliberista di uscita dalla crisi. In quest’ottica, il successo, per gli attori coinvolti in questa partita, non è tanto quello del numero di
visitatori, visto che dal 2008 ad oggi l’asticella si è progressivamente abbassata fino a quota 20 milioni, ma quello di realizzare una zona franca dello sfruttamento, in nome della crescita, dell’occupazione e del rilancio economico.

Citiamo per ultimo uno strascico politico legato a Expo 2015, che ci pare comunque confermare la tendenza del Grande evento, e soprattutto delle logiche che gli soggiacciono, a “tracimare” fuori dai confini del sito espositivo per permeare di sé quello che gli sta intorno, infettandolo. Stiamo parlando della candidatura, al momento non ancora ufficializzata ma altamente probabile, di Giuseppe Sala a sindaco di Milano per il Partito Democratico. Una scelta che non può che avere alle sue fondamenta la stessa logica commissariale propria del Grande evento Expo 2015. Una logica fatta di poteri speciali, deroghe alle leggi vigenti o legislazioni create ad hoc, figure di commissari, manager, domini che dalla gestione del Grande evento approdano alla governance tout-court. Se Expo, non diversamente dalle “Zone economiche speciali”, è stato il laboratorio privilegiato in cui testare sperimentazioni da generalizzare, allora è evidente che con l’Esposizione universale nella Milano del 2015 si è testato un nuovo “sistema Italia” fatto di sfruttamento dei lavoratori, massimizzazione dei profitti e assenza di ogni simulacro di amministrazione “pubblica”, sostituita da una gestione esclusivamente “business-oriented”.

Expo 2015 come laboratorio di debito, cemento e precarietà che anticipa il paese di domani: questo, sinteticamente, è stato l’approdo interpretativo e analitico di una rete di soggetti che ha provato a sfidare il Grande evento. A una manciata di giorni dal 31 ottobre, non possiamo che confermare questa lettura indicando nel trittico menzionato il lascito duraturo dell’Esposizione universale.

Non avevamo avuto molti dubbi nel percepire il tono di sfida rappresentato dall’apertura dei cancelli di Expo fissata proprio per il 1 maggio, tradizionale giornata di lotta ed emancipazione. Uno sberleffo, un guanto di sfida gettato ai lavoratori e, in generale, agli oppressi, da parte del laboratorio dei nuovi meccanismi di sfruttamento e spoliazione.

Oggi, che vediamo giorno dopo giorno l’eccezione rappresentata dal Grande evento farsi norma generale, cogliamo anche la simbologia del 31 ottobre, data che unisce il commerciale al macabro; Expo ha concluso la propria esperienza quel giorno ma, come gli zombie e i morti viventi di Halloween, sopravvive alla morte per continuare sotto altre forme la propria esistenza, diffondendo l’infezione a macchia d’olio. E, se “gli zombie non uccidono ma reclutano”, allora la lotta contro i meccanismi messi in moto da Expo si misurerà anche in termini di rifiuto, resistenza e conseguente pratica autonoma delle possibili alternative da parte della nuova generazione degli sfruttati dall’economia diffusa generata del Grande evento. Ed è ancora troppo presto per dire come andrà a finire.

 

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