Disastro nucleare vicino alla costa Un istituto statale di studi francese rivela: il sottomarino Usa Hartford il 25 ottobre 2003 si incagliò su uno scoglio tra La Maddalena e Caprera, a pochi metri dal centro abitato e non in mare aperto come avevano sostenuto gli americani. E i danni furono ingenti, mentre i comandi minimizzarono COSTANTINO COSSU OLBIA Il 25 ottobre del 2003 l'Uss 768 Hartford, un sommergibile ad armamento atomico della Us Navy, lascia la base appoggio della Maddalena per raggiungere il mare aperto, ma dopo poche miglia s'incaglia. Lo scafo è gravemente danneggiato. Viene sfiorato il disastro nucleare. Tutto, però, resta segreto sino al 18 novembre, quando, in una nota ufficiale, i comandi americani annunciano: «Alle 12,40 del 25 ottobre il sottomarino Uss Hartford della Marina degli Stati Uniti ha lievemente toccato il fondale mentre navigava a est dell'isola di Caprera. Nessun pericolo. Solo lievi graffi alla vernice dello scafo». Ora si scopre che i militari Usa mentivano due volte. Mentivano sulla posizione del sommergibile al momento dell'impatto e mentivano sulla gravità dell'incidente. Il quotidiano La Nuova Sardegna ha pubblicato ieri un rapporto dell'Irsn (Institut de radioprotection et de sureté nucléaire), ente francese di controllo che risponde ai ministeri della difesa, della sanità e dell'ambiente, che svela come l'incidente dell'Hartford avvenne non ad oriente ma ad occidente di Caprera, e più esattamente nello stretto braccio di mare che separa l'isola dalla Maddalena, a poche centinaia di metri dalla città e dalla base di Santo Stefano. A rischio è dunque stato, direttamente, il centro abitato della Maddalena e la stessa base americana. Ma non basta. Dando un'occhiata al sito web della Us Navy si scopre che è la stessa marina statunitense ad ammettere che l'entità dei danni all'Hartford è stata molto grave. Nel luglio del 2004, in occasione della cerimonia del cambio di consegne della Emory Land, la nave appoggio intervenuta a riparare i danni dell'Hartford il giorno dell'incidente, viene diffuso un opuscolo, leggibile on line, che racconta alcuni episodi in cui i membri dell'equipaggio si sono segnalati per la loro professionalità. Si legge tra l'altro nel documento: «Nell'ottobre del 2003 l'equipaggio della Emory Land ha eseguito lavori d'emergenza sull'Uss 768 Hartford che si era incagliato. I sommozzatori, al lavoro ventiquattrore su ventiquattro in condizioni di mare pessime e in tempi ristretti, hanno effettuato lavori di riparazione che hanno richiesto saldature e tagli per portare l'Hartford a condizioni di sicurezza tali da consentire il ritorno del sottomarino negli Stati Uniti. L'equipaggio ha dimostrato una qualità di primo livello e ha realizzato una delle imprese più grandi di lavori subacquei mai eseguiti da una nave appoggio».
Altro che qualche graffio alla vernice del sottomarino, come ha tentato di far credere il comando della Sesta Flotta. D'altra parte, la versione che puntava a minimizzare la portata dell'incidente era già stata smentita il 22 dicembre del 2003 da un piccolo quotidiano di provincia americano, il The Day, che si stampa a New London, nel Connecticut. Robert Hamilton, un cronista del giornale, andò a vedere l'Hartford quando il sommergibile arrivò nei cantieri di Norfolk, in Virginia, per essere riparato, e scoprì che metà del timone era stata strappata via e che lo scafo era stato squarciato, tanto che venne presa in considerazione l'ipotesi di rottamare il sottomarino. L'anno scorso, poi, il 16 febbraio, il portavoce della Us Navy Robert Mehal, dichiarò ai giornalisti: «I nostri tecnici hanno stimato che per riparare l'Hartford occorreranno 9,4 milioni di dollari. I costi sono stati sensibilmente ridotti perché non sarà costruito un timone nuovo; sarà infatti utilizzato il timone del sommergibile, della stessa classe Uss, Baltimore, dismesso nel 1998».
Insomma, che il 25 ottobre del 2003 alla Maddalena sia stato sfiorato il disastro nucleare ormai non ci sono più dubbi. Ed è agghiacciante scoprire ora, grazie al rapporto dei tecnici francesi, che un incidente che poteva avere effetti devastanti sia avvenuto a poche centinaia di metri dal porto della Maddalena, vicinissimo al centro della città, in un tratto di mare che anche d'inverno è intensamente trafficato. Alla Maddalena, intanto, la tensione cresce. Pochi giorni fa il consiglio comunale all'unanimità ha respinto come inaccettabile il piano di evacuazione dell'arcipelago in caso d'incidente nucleare presentato dalla prefettura di Sassari. Il piano è largamente al di sotto della gravità della situazione, che continua ad essere sottovalutata. Per fare un solo esempio, il monitoraggio di eventuali fughe radioattive è affidato all'Asl di Olbia, che si serve di strumenti vecchi e del tutto inadeguati.
Intanto in tutta la Sardegna cresce il movimento contro le servitù militari. Si moltiplicano le iniziative spontanee. Un gruppo di associazioni (Gettiamo le basi, Comitato popolare di difesa ambientale del Sarrabus Gerrei, Comitato per la tutela dell'ambiente di Escalaplano, Collettivu Barbagia Reverde di Gavoi, Cocis La Maddalena, Comitato tonarese contro le basi militari, Teulada libera) hanno diffuso un documento per chiedere che La Maddalena, Quirra e Teulada chiudano ed è già partita una raccolta di firme che servirà a sostenere la proposta di legge del deputato dei Verdi Mauro Bulgarelli per la chiusura di tutte basi militari in Italia, presentata la scorsa settimana a Roma. «Siamo vittime - si legge nel documento delle associazioni sarde - perché la nostra isola è occupata da circa il settanta per cento delle servitù militari di tutta l'Italia. Sono interdetti permanentemente 24.000 ettari di territorio sardo contro i 40.000 totali in Italia; ai 24.000 ha vanno aggiunti altri 12.000 ettari gravati da servitù militari. Questi numeri fanno della Sardegna la regione più militarizzata d'Europa». «Siamo vittime ma siamo anche complici - dicono ancora i gruppi di base - Siamo complici ogni volta che lasciamo scivolare nell'indifferenza ciò che accade; siamo complici quando facciamo finta di non sapere che dietro ogni attività militare ci sono territori inquinati e vite spezzate dalla violenza. E noi non vogliamo più essere complici».
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