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AMORE & DIBATTITO [1.0] | ||
by onnivora Thursday, Oct. 10, 2002 at 7:11 PM | mail: | |
... Il migrante non ha un valore oggettivo, una propria dignità d'uomo. L'essere umano che si sposta è estraneo perchè estraneo al mercato, se la necessità che lo muove non è quella comune e condivisa della macchina della produzione...
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Dialoghi europei per un'estetica impressionista e sostenibile | ||
by onnivora Thursday, Oct. 10, 2002 at 11:55 PM | mail: | |
DA VERSITUDINE FOGLIO PLUIRVERSO IN MOVIMENTO DELLA CITTA' DI BOLOGNA https://www.autistici.org/mailman/public/rekombinant/2002-October/001915.html |
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Immigrati: il mito dell’integrazione secondo Abdelmalek Sayad | ||
by lo straniero (stefano liberti) Wednesday, Dec. 18, 2002 at 4:37 PM | mail: | |
Diceva Jacques Derrida, all’epoca delle prime lotte dei sans papiers in Francia, che il migrante è come una chiave: elemento esterno al dentro, può al massimo guardare dalla toppa la società in cui vorrebbe introdursi, mentre ha ormai abbandonato l’agevole tasca in cui era rimasto accudito. Con la metafora della chiave, Derrida rappresentava l’emigrato-immigrato come sospeso in un limbo (quello della porta che non si apre) e portatore di una profonda e doppia rottura: straniero due volte, nel suo paese d’origine e in quello d’adozione, non appartiene a nessun luogo. Apolide non per scelta ma per imposizione, è una figura evanescente, la cui presenza nei paesi di immigrazione viene misurata semplicemente nei termini di una tetra contabilità (benefici economici determinati dalla presenza di un lavoratore privo di diritti da una parte, e rischi insiti nella presenza di un rappresentante di una cultura “diversa” dall’altra). E se in potenza, aggiungeva il filosofo francese, la chiave è un ponte, elemento di raccordo capace di mettere in comunicazione due spazi altrimenti chiusi e non comunicanti, in atto diventa invece nelle nostre società falsamente aperte segno scomodo di una presenza ingombrante, testimone di un’incapacità permanente. Eravamo nel 1997. Derrida parlava di quell’accoglienza che la Francia, paese storicamente d’immigrazione, non sembrava più in grado di garantire. Pur intuendo il disagio di una duplice inadeguatezza, le sue riflessioni partivano comunque da un assunto imprescindibile: l’emigrato-immigrato-chiave era giunto alla soglia della porta e doveva essere accolto. La porta doveva aprirsi: l’immigrante aveva operato una scelta e doveva essere aiutato a spogliarsi della sua condizione di emigrante. Spinto dalla necessità politica del momento, Derrida finiva per ignorare nel suo discorso l’altra faccia della medaglia: quella della società d’origine che, avendo subito le rotture determinate dalla partenza in massa dei suoi membri, reagiva rifiutandoli, stigmatizzandone l’assenza come tradimento. Ignorava quindi Derrida, e con lui buona parte del pensiero europeo più progressista, la doppia connotazione negativa del limbo di cui sopra: l’immigrato-emigrato non solo non è accettato nel paese d’immigrazione, ma è anche respinto dal paese d’emigrazione e condannato a un’impossibile schizofrenia mentale tra due mondi ugualmente ostili. Da questa univocità di riflessione risultava una innegabile sfasatura, che segnava e ancora segna buona parte degli studi e delle rappresentazione del fenomeno: tanto abbondante è la letteratura sull’immigrazione, tanto insufficiente, se non totalmente manchevole, quella sull’emigrazione. A questa sfasatura, a questa univocità forzosa pone in parte rimedio oggi la pubblicazione di questa corposa raccolta di saggi di Abdelmalek Sayad da parte delle edizioni Raffaello Cortina, che fin dal titolo – “La doppia assenza” – si propone di analizzare il fenomeno migratorio nella sua interezza: “dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato”, come recita la felice espressione scelta a sottotitolo dell’opera. Algerino emigrato in Francia e mai naturalizzatosi, Sayad ha lavorato vent’anni come sociologo delle migrazioni, sperimentando anche sulla propria pelle la violenza di uno stato che considera l’immigrato un intruso (o un “clandestino”, come ama ripetere oggi la grancassa mediatica), e che gli domanda continue professioni di fedeltà. Centinaia di interviste, un instancabile e quasi maniacale lavoro sul campo lo portano a comporre un mosaico ricchissimo di un fenomeno di grande interesse, di cui era in qualche modo parte in causa: quello dell’immigrazione algerina in Francia degli anni sessanta e settanta. Fenomeno particolare, se si vuole, ma che assume una valenza paradigmatica, giacché presenta tutti gli aspetti del cas d’école: è una migrazione di massa da una società prevalentemente rurale verso una società urbana e industriale; è diretta conseguenza della colonizzazione; avviene verso uno dei più rigidi stati-nazione della Terra, patria e culla di quell’“imperialismo dell’universale” di cui parlava Pierre Bourdieu. Nella sua analisi Sayad parte da una premessa imprescindibile: quella cioè che “ogni studio dei fenomeni migratori che dimentichi le condizioni di origine degli emigrati si condanna a offrire del fenomeno migratorio solo una visione al contempo parziale ed etnocentrica: da una parte, come se la sua esistenza cominciasse nel momento in cui arriva in Francia, è l’immigrante – e lui solo – e non l’emigrante a essere preso in considerazione; dall’altra parte, la problematica, esplicita e implicita, è sempre quella dell’adattamento alla società ‘d’accoglienza’”. Nella prima delle due facce del fenomeno, quella dell’emigrazione, il sociologo algerino analizza i fenomeni di rottura operati dalla partenza in massa dei giovani dai villaggi berberi della Kabilia. Una rottura che avviene gradualmente e che è caratterizzata da due fasi diverse, che corrispondono a una progressiva emancipazione del soggetto migrante e a un suo parallelo isolamento e allontamento mentale dalla società d’origine. Inizialmente, infatti, l’emigrato è un prescelto della comunità: “è un contadino con l’incarico di emigrare, che si sforza di superare la prova dell’emigrazione senza mai rinnegare se stesso in quanto contadino” e che alla fine reintegrava la propria condizione di origine. Ma l’emigrato che torna è un cavallo di Troia: racconta, mentendo, delle meraviglie del mondo al di là del mare e produce nella comunità un desiderio generalizzato di partire, contribuisce a diffondere la mentalità calcolatrice associata all’uso della moneta, provoca una totale destrutturazione della società contadina. Così pian piano l’emigrazione perde la sua caratteristica di missione affidata al gruppo e diventa atto e progetto individuale. “La Francia ci entra fin dentro le ossa”, confessa in una delle interviste un ex fellah di un villaggio berbero, divenuto operaio semplice in una fabbrica della Reunalt. La Francia entra dentro le ossa ed è come un cancro, una condizione di falsa superiorità che il migrante deve difendere, a costo di falsificare in modo patente la realtà, fino all’assurdo di indebitarsi per mandare alla famiglia soldi che non guadagna. L’emigrazione è comunque vissuta come una condizione provvisoria; ma è un provvisorio condannato alla permanenza giacché l’emigrato non può reintegrare il gruppo che ha tradito né mai si sentirà parte della comunità dove è andato a lavorare. Da cui la doppia assenza: l’emigrato continua a essere presente sebbene assente nella comunità d’origine che ha tradito e non è mai completamente presente nella comunità che ha raggiunto. Perché la comunità che ha raggiunto difficilmente lo considererà al di là delle sue braccia, mera corporeità destinata al lavoro, e guarderà con sospetto ciascuno dei suoi atti e dei suoi gesti. Al di là della naturalizzazione e dell’assunzione della cittadinanza, che Sayad definisce una “dolce violenza”, gli algerini rimarranno sempre stranieri e diversi, “francesi di ramificazione, fogliame”, come rileva un giovane beur intervistato dall’autore, in opposizione ai “francesi di ceppo” (de souche), aberrazione semantica ormai diventata norma per indicare diversi gradi e qualità di cittadinanza. L’escamotage è ovvio: il modello repubblicano francese, imbellito dall’imperialismo della virtù dei diritti umani, non può negare i diritti ad altri esseri umani, ma può operare una sorta di imposizione malcelata di una cittadinanza di secondo rango. Si legga con attenzione il capitolo su “Immigrazione e pensiero di stato”, in cui viene analizzato il ruolo dell’immigrante in rapporto allo stato-nazione. Limite del progetto nazionale, in quanto venuto dal di fuori, l’immigrato assume la forma del capro espiatorio, misura di una diversità rispetto alla quale la comunità in qualche modo si definisce in negativo. L’immigrato economico, quello cioè di bassa estrazione sociale, è sempre tenuto a un’ipercorrettezza sociale, deve mostrare di essere animato da una volontà incrollabile di adesione a un sistema che gli viene imposto, giacché ha avuto la fortuna di essere accolto. Da cui le discussioni interminabili in Francia sulle deviazioni dal cosiddetto modello repubblicano: l’uso del velo a scuola, la discriminazione della donna, l’uso politico della religione indicato come forma di integralismo e così via. Tutte discussioni che ormai si propongono anche da noi, sia nei modi beceri e strillati dei proclami leghisti sia nelle forme più surretizie dell’imperialismo della ragione e dei diritti umani, che spesso non è altro che camuffata imposizione di un modello che si propone come universalmente superiore. È importante quindi il libro di Sayad proprio per questa sua valenza paradigmatica, perché mostra il germe di tutte le attuali considerazioni sull’immigrazione, anche nel nostro paese, che il fenomeno migratorio ha cominciato a viverlo solo di recente. Dall’identità immigrato-clandestino al lessico emergenziale della “fortezza assaltata”, dalle riflessioni più o meno amene sulle presunte rotture e sfide che i migranti imporrebbero ai sistemi culturali dei grandi stati europei (sfide e rotture assolutamente marginali e trascurabili se tali stati non fossero alimentati da un paranoico integralismo culturale), fino al grande miraggio: l’utopia-distopia dell’integrazione. Perché l’integrazione non è che un indeterminato irraggiungibile, una falsa chimera, un’illusione forzosa, come rileva argutamente una ragazza interpellata in una delle centinaia di interviste condotte dall’autore: “Abbiamo studiato l’integrazione in matematica, a scuola. Abbiamo imparato gli integrali, la funzione esponenziale. È la curva asintotica che possiamo tracciare all’infinito e che non toccherà mai l’ascissa. L’integrazione è così, bisogna correrle dietro ma più ti avvicini più ti ricordano che non è affatto quella.” |
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