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In contatto con Baghdad (44)
by robdinz Tuesday, Apr. 01, 2003 at 9:00 PM mail: robdinz@hotmail.com

Funerali a Baghdad.

Sembra davvero incredibile che due pulmini di reporters indipendenti e “humans shields” siano stati attaccati, con due missili dall’aviazione americana, mentre erano ancora in territorio giordano. Non lontani con la frontiera con l’Iraq.
La stessa frontiera dove da tre giorni due Tir greci pieni di cibo, e di medicine indispensabili per gli ospedali di Baghdad, sono bloccati proprio sul segno di confine dagli stessi caccia americani che non hanno esitato a sparare in loro direzione ogni qualvolta tentavano di superare la frontiera. E ora rimangono lì, fermi con il loro preziosissimo carico che va in malora nonostante le motrici ed i rimorchi siano visibilmente coperti di enormi scritte e striscioni umanitari in arabo ed in inglese.

Il contatto che sono riuscito a stabilire oggi con Baghdad, difficile come non mai, non era a conoscenza di quanto accaduto sulla frontiera con la Giordania. E non me la sono sentita di essere io a svelare una notizia che potrebbe rivelarsi dolorosa e terribile.

Molte persone, radio, mezzi di informazione indipendenti, e per la vertità anche giornalisti di importanti quotidiani nazionali, hanno lavorato tutto il giorno per cercare di stabilire un contatto con Amman, in Giordania, nell’albergo che normalmente viene usato dai reporters indipendenti, europei ed americani, in arrivo ed in partenza per l’Iraq. Ma, incomprensibilmente, non è stato possibile nonostante le comunicazioni con la Giordania siano in generale buone, anche semplicemente attraverso la teleselezione internazionale.
L’attacco dovrebbe essere avvenuto a Raffa, e nell’ospedale di quella città si trvrebbero almeno cinque europei e due americani feriti. Degli altri non si ha alcuna notizia. In totale, da fonti ancora non completamente controllate ma attendibili, sarebbero stati in 12 su due pulmini. Le ultime notizie che sono riuscito ad ottenere riferiscono di un pulmino in uscita dalla Giordania verso l’Iraq, e di un altro in direzione opposta che riportava ad Amman alcuni reporters indipendenti dopo una permanenza di alcune settimane in diverse zone dell’Iraq . Nell’arco di circa un chilometro tutti e due i pulmini sono stati colpiti da un missile ciascuno. Prima uno e subito dopo l’altro. Ho qui davanti agli occhi i numeri di telefono dell’albergo di Amman e la mail di un contatto acceso oggi nella capitale giordana. La posta torna indietro ed il telefono è muto.
Se saprò qualcosa di certo, confermato e controllato lo scriverò subito.

Il mio contatto Baghdad mi aveva avvisato che oggi a Shaab, lì dove le bombe ed i missili sul mercato avevano portato decine di vittime e non si sa più quanti feriti, si sarebbero svolti i funerali di alcuni dei civili schiacciati e sepolti dal bombardamento.
L’”ordinary people”della capitale: piccoli commercianti, padroni di chioschi e banchetti di legumi e verdura, venditori di tappeti, di artigianato in legno e ottone.
Persino un’addestratore di serpenti, che per pochi spiccioli si esibiva con i suoi animali tra lo stupore e le risate dei clienti del mercato.

Ma un funerale sotto le bombe non è funerale come gli altri. Non si può seguire un amico od un familiare ordinatamente in gruppo. Non ci sono carri funebri e neppure casse da morto. Sei assi inchiodate alla bella e meglio con il nome del defunto scritto a vernice sui lati. Il corpo della vittima non è composto come potremmo immaginare in un funerale, ma esposto e visibile con le braccia e le gambe rilasciate come di chi è stato messo lì in tutta fretta.
Ecco, la fretta è la caratteristica di questi funerali di strada e di dolore, una fretta dettata dalle bombe e dei missili che piombano esplodendo a poche decine di metri. Ecco, il dolore è l’imagine più visibile, un dolore gridato, urlato, con quelle mani battute ripetutamente sul viso dei familiari e degli amici, come a non voler vedere quei corpi scomposti ed ancora pieni di sangue, con i capelli arruffati, con i vestiti polverosi e strappati come a fotografare l’esatto momento che la bomba li ha strappati al lavoro, alla famiglia. Alla vita.
Ecco, la vita non c’è in questi funerali. Quella vita che continua anche per i familiari più vicini durante i funerali che si svolgono in pace. Continua dietro i piccoli gesti, gli occhi lucidi dal dolore. Ma continua. No, a Baghdad la vita non continua. Non si piange a Baghdad, si urla, si maledice questa guerra. Tutti comprendono che questi funerali portano anche un qualcosa di terribile e di simbolico: la fine della loro vita come è stata sempre vissuta fin qui.

Una vecchia signora, vecchia chissà quanto, forse 80 anni forse di più, grande, tanto grande che non riesce neppure a scendere dalla Mercedes nera, vecchia e grande anch’essa, che l’ha portata fin là. Tutti le sono vicini con affetto, cercano di consolarla, le offrono dell’acqua. Le donne provano con garbo, senza riuscirvi, di coprirle testa con il velo che continua a scivolare sul collo ogni singulto, ogni sobbalzo improvviso, come nervoso, che la scuote.
D’improvviso la piccola folla intorno alla Mercedes si apre, fa passare una cassa di legno e l’abbassa fino a terra proprio davanti la signora. E’ il funerale di un giovane ragazzo in tuta mimetica, con una barba lunga e nerissima. Forse un nipote, forse un pronipote. La signora si avventa sulle mani del ragazzo, le alza e le porta fino al suo viso e con forza le passa sulle guance. Un’ultima carezza che quel ragazzo vestito un po’ da militare e un po’da miliziano, e un pò da chi si vuol vestire da militare o miliziano, non ha fatto in tempo a darle.

Il mio contatto mi racconta che continuava a scattare fotografie, cercando di capire ciò che vedeva prima ancora di riportarlo in immagini. Ma era così vicino a quella vecchia signora che non appena le hanno allontanato quella cassa di legno chiaro dalle braccia, se l’è trovata davanti all’obiettivo. Lui e lei, per una attimo, di fronte.
La signora ha allungato la mano destra, facendo scorgere un bracciale d’oro pieno di ciondoli che usciva dalla manica del pesante abito nero che indossava, e senza pensarci un attimo ha accarezzato il viso del fotografo. Lui in risposta le ha accarezzato la mano.
La vecchia signora non ha detto nulla. Con delicatezza tre o quattro ragazi le hanno riposto le grandi gambe nella macchina e chiuso con un tonfo lo sportello.
Con fretta, sempre con fretta sotto le bombe, la vecchia Mercedes nera senza targa è ripartita facendo come pattinare le ruote sui detriti dei bombardamenti che ancora riempiono la piazza di Shaab.
Proprio in quel momento che si sono trovati a tu per tu, uno di fronte all’altra, il fotografo non ha usato la sua camera digitale.
Ma ricorderà per sempre quel viso così grande e quella carezza tanto lieve.

Che la notte sia leggera.
r.

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