articolo di Bifo
LA FORZA DEL DECLINO ____________________________________________________
Nel settembre del 2001, mentre il presidente americano prometteva guerre interminabili contro un nemico indefinibile, qualcuno scrisse: l'Impero è in guerra con se stesso. L'Impero, ammesso che questa parola abbia un significato nella realtà presente, dichiarò guerra contro il Caos. Errore irreparabile, perché il caos non può essere combattuto dato che si alimenta di tutto ciò che gli si oppone. Perché la Presidenza americana commise quell'errore? Le risposte possibili sono tante: perché il collasso della new economy minacciava una crisi recessiva e solo con la guerra era possibile mobilitare energie economiche? O perché il gruppo dirigente americano aveva un interesse immediato a mettere le mani sul petrolio irakeno? O forse perché un vento di fanatismo demente si è impadronito dei centri politico-militari più potenti della terra? Fatto sta che dopo il lancio della guerra preventiva che ha avuto l'Iraq come bersaglio diretto, il terrorismo si è ingigantito allargando la sua base di reclutamento. Nella nuova generazione islamica, cresciuta con le immagini della tortura e dell'umiliazione davanti agli occhi, la vocazione al suicidio terrorista sta diventando un fenomeno di massa. A differenza della guerra nel Vietnam questa guerra non è destinata a concludersi quando i marines se ne andranno dal paese che hanno devastato. Continuerà catastroficamente in un'area vastissima, che comprende il medio Oriente, l'Iran, il Pakistan, e anche l'Europa. L'immagine politica degli USA ne uscirà devastata senza rimedio.
L'ACQUA IL FUOCO E L'ARIA Ma il caos non ha soltanto le fattezze di una guerra che si ritorce contro i suoi fautori. Anche la natura sembra rivoltarsi contro chi troppo a lungo l'ha violentata. Catastrofi ambientali e crisi energetica si stanno intrecciando in uno scenario da incubo che colpisce la psiche occidentale ancor più gravemente che l'economia. Probabilmente è troppo tardi per rimediare alla criminale irresponsabilità del capitalismo globale: l'acqua il fuoco e l'aria non si placheranno con la firma di un trattato tardivo e insufficiente. La devastazione accumulata nell'arco di decenni sta cominciano a presentare il conto. Kathrina potrebbe essere la Chernobyl del capitalismo liberista. Diecimila morti americani e questa volta è chiaro a tutti. Non li ha uccisi Al Qaida, li ha uccisi Giorgio Bush, li ha uccisi il fanatismo del petrolio. Li ha uccisi il taglio dei fondi per la spesa pubblica. Li ha uccisi la povertà che cresce mentre cresce la ricchezza di Cheney & Co.
La psiche occidentale si sente (e forse è davvero) sull'orlo di un abisso.
LE REGOLE E LA FORZA Un ventennio di deregulation ha spazzato via le difese sociali e legali che limitavano la violenza del capitalismo, ed ora esso si manifesta come una forza scatenata e distruttiva che premia le forze criminali più agguerrite. Il modello predominante del capitalismo non è più quello della borghesia industriale che accumulava profitto costruendo ricchezza. Il modello predominante è quello del capitalismo di rapina che accumula profitti con la speculazione, la sopraffazione militare, la devastazione ambientale.
La sinistra legalitaria rivendica la restaurazione di regole per limitare la forza selvaggia del capitale. Ma non servono a nulla le regole senza la forza per imporle. La forza per imporre le regole è talvolta una forza materiale, il fucile in spalla agli operai per garantire la democrazia. Ma per lo più la forza consiste in una consapevolezza culturale diffusa. Quando milioni di persone cominciano a comportarsi in una certa maniera, a rifiutarsi di fare straordinario, a rifiutarsi di pagare affitti troppo esosi, o a ritrovarsi sulle piazze per fare l'amore invece che per comprare merci inquinanti, ecco la legalità trasformata, rovesciata, riscritta. Con la forza della cultura e del comportamento.
Per alcuni decenni nel ventesimo secolo è esistita una forza capace di rendere operanti le regole della giustizia sociale e del bene comune: era la forza degli operai autonomi organizzati, era la forza della mobilitazione di massa, era la forza del desiderio che dilaga nelle parole e nei gesti. Questo rese operante la democrazia, questo permise di ottenere un equilibrio dinamico e fecondo tra società e capitale. Ma quella forza sociale è oggi distrutta, annientata dalla deterritorializzazione del lavoro, dalla precarizzazione generalizzata che distrugge ogni forma di comunità operaia, e dall'emergere di una nuova spaventosa potenza: la potenza di un nuovo tipo di imperialismo fondato sullo schiavismo e sull'abolizione dei diritti umani.
LO SCHIAVISMO NEL MERCATO GLOBALE DEL LAVORO Mentre l'Occidente declina come forza trainante del capitalismo globale, il nazi-comunismo cinese tende a divenire una potenza egemone.sul piano economico. L'enorme base di lavoro schiavistico di cui la Cina dispone offre un enorme vantaggio competitivo, e l'espandersi economico della Cina sta già producendo l'effetto di un abbassamento generalizzato dei salari nel pianeta, e di un peggioramento delle condizioni di vita per centinaia di milioni di persone in tutto il mondo. Qualche anno fa si pensava che la Cina potesse essere un nuovo mercato per le merci occidentali o un mercato del lavoro sottomesso alle corporation occidentali. Ora cominciamo a vedere che la realtà è differente: la Cina tende a investire i suoi capitali all'estero, a comprare lavoro in ogni zona del pianeta, e non può certo essere il protezionismo a contenerla.
Lo schiavismo cinese potrà essere fermato soltanto dalla rivolta degli operai cinesi. Ma sappiamo davvero troppo poco dell'equilibrio sociale, psichico, culturale, che si va determinando in quel mondo. Occorrerebbe riesaminare la storia delle rivolte sociali in Cina, dalla rivolta Taipei all'insurrezione dei boxer, all'insurrezione operaia del 1927 fino alla grande rivoluzione culturale proletaria, per capire se una sollevazione operaia è oggi possibile, se un ciclo di autonomia e di lotte potrà cambiare il rapporto tra salario e capitale in quell'area del mondo, e di conseguenza potrà riaprire margini per l'autonomia sociale in tutto il mondo.
FONDARE SUL DECLINO LA RISCRITTURA COLLETTIVA DELLA COSTITUZIONE EUROPEA Ma quale forza può ancora avere l'autonomia sociale, paralizzata dalla mutazione in corso e dalla violenza del conflitto planetario? La mia tesi è la seguente: dalla parte dell'autonomia sociale sta oggi la forza del declino.
La parola declino suggerisce un'idea negativa di malinconia e di impotenza solo se si considera positivo ciò che è aggressivo e rampante. Solo nel quadro giovanilistico e testosteronico del maschilismo occidentale la parola declino può suggerire l'idea della sconfitta. Con la parola declino si intende abitualmente la riduzione della potenza competitiva, l'abbassamento degli indici di crescita economica, l'affievolimento della aggressività economica e militare. E questi fenomeni non possono essere separati dal tendenziale calo demografico che interessa soprattutto i paesi occidentali, l'Europa in particolare.
La forza del declino è concentrata in Europa. L'Europa è già oggi il mondo del declino. L'invecchiamento della popolazione è un trend irreversibile, e la decrescita è l'unica prospettiva economica non distruttiva. Decrescita non significa affatto riduzione della ricchezza sociale. Al contrario, può significare un aumento del tempo libero e del godimento, un ripensamento collettivo del concetto stesso di ricchezza.
UNA NUOVA IDEA DELLA RICCHEZZA Un'onda culturale di rilassamento e di insubordinazione pacifica può fare del declino inevitabile un processo di autonomia della società dal capitale. Quando Berlusconi dice che gli italiani sono ricchissimi tutto sommato ha ragione. Da cinque secoli gli italiani hanno accumulato un mondo di ricchezza e di bellezza straordinaria. Perché dovremmo continuare a subire la regola capitalistica e consumista, quando potremmo godere di ciò che è già stato prodotto, e spostare l'energia verso la cura, la creazione, la ricerca?
L'imprinting testosteronico e giovanilista che ha modellato la storia patriarcale non vuole accettare il declino, lo considera un male assoluto. Penso invece che l'azione culturale debba mirare a rovesciare la percezione del declino, per liberare la società europea della spinta aggressiva che ne ha fatto in passato una potenza imperialista. Basta fare una cosa molto semplice: mettersi dalla parte dell'inevitabile, come abbiamo saputo fare nei momenti migliori. Il declino è inevitabile, è iscritto nel codice genetico della società europea, e nel corso del secolo diverrà la tendenza dominante nel pianeta. Il declino può essere un processo traumatico e rabbioso, ma può essere invece rilassato ed euforico, e può aprire nuove prospettive non solo per l'Europa ma per il mondo, quando uscirà dalla febbre guerrafondaia che l'ha preso. Si tratta di far crescere una consapevolezza nuova sul tema della ricchezza: essa non sta nella quantità di oggetti che possiamo accumulare, ma nel tempo disponibile per godere dell'esistente, e nella potenza del sapere che rende la riproduzione del necessario indipendente dalla fatica e dallo sfruttamento.
L'Europa dunque: ecco quel che ci resta da fare. Dopo il referendum sulla Costituzione il processo europeo è entrato in una fase di coma profondo. I politici nazionali non parlano di Europa perché sanno che potrebbe fargli perdere voti alle elezioni. E coloro che hanno portato il No alla vittoria in Francia e in Olanda, non sembrano interessati a riprendere l'argomento. Hanno vinto e basta. Poco gli importa se quel che segue alla vittoria del No è xenofobia e arroccamento. Il compito di oggi è proprio quello di rilanciare il processo costituzionale. Modificandone però le coordinate culturali. L'Europa non deve pretendere di reagire al proprio declino iniettandosi in ritardo dosi di liberismo, puntando ad aumentare la sua competitività. Non funzionerà comunque perché quella partita è persa, a meno di accettare condizioni di schiavismo che l'organismo sociale europeo non può accettare per sopraggiunti limiti di età media della popolazione. L'Europa deve iniziare la partita successiva alla crescita capitalista: deve sperimentare la società della cura, del godimento, dellamicizia. Una società che non ha bisogno di lavorare molto, che non ha bisogno di consumare molto.
Certamente non è questa l'idea di Europa che ha il ceto politico attuale, subalterno al capitalismo liberista. Ma ormai quel ceto politico sta esaurendo il suo ciclo, come la stessa ideologia liberista, ed il caos catastrofico nel quale siamo entrati cambierà le cose in maniera sconvolgente nel corso dei prossimi dieci anni. Noi dobbiamo immaginare i concetti da cui la società europea potrà ripartire, dobbiamo lanciare un processo di elaborazione collettiva di massa della Carta costituzionale. Una Costituzione fondata, se volete, su un'utopia senile. L'utopia del declino felice, della pigrizia creativa, dell'amicizia e della cura.
UNIVERSITà NOMADE In questa prospettiva si colloca il progetto di costituzione espansiva di un'Università nomade. Durante tutto il secondo millennio, nella lunga epoca di formazione e di sviluppo della società capitalistica, l'Università è stata un luogo decisivo proprio grazie al suo statuto di non formale autonomia. Grazie alla sua autonomi l'Università ha potuto essere il luogo della scoperta scientifica, dell'innovazione tecnica, ma anche e soprattutto il luogo della costante rigenerazione delle energie culturali in cui la società riformulava il suo progetto in autonomia e spesso in opposizione alle strutture costrittive dell'economia. Senza indipendenza dell'Università dal sistema economico non ci sarebbe stata nessuna modernità. Ci sarebbe stato un prolungarsi infinito di sistemi di caste feudali, ci sarebbe stato un continuo riprodursi di conflitti barbarici.
Quel che è accaduto negli ultimi decenni in tutto l'Occidente, e che in Italia sta accadendo da almeno quindici anni (la riforma Ruberti, del 1990, avviò esattamente questo processo) è la progressiva erosione dell'autonomia sostanziale dell'Università, e persino la distruzione formale dell'indipendenza della ricerca e dell'insegnamento rispetto al sistema economico corporativo.
L'asservimento dell'Università (come più in generale del sistema educativo, e comunicativo) alle scelte e agli automatismi dell'economia di profitto costituisce la più grave devastazione che il capitalismo porta contro la vita umana contro l'intelligenza collettiva, contro la società. Distruggere l'autonomia dell'Università significa infatti non solo subordinare la ricerca agli obiettivi unilaterali e cortomiranti dell'interesse privato. Ma significa soprattutto togliere al processo di formazione quel carattere di infinita possibilità senza cui non esiste conoscenza, ma soltanto esecuzione, senza cui non esiste differenza, ma soltanto ripetizione.
Perciò occorre portare dentro le strutture della vita universitaria un'iniziativa di costruzione dell'università autonoma e nomade. E questo processo è tutt'uno con la creazione delle strutture di elaborazione condivisa di massa della Carta costituzionale europea.
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