Dopo le polemiche provocate dal nostro articolo
intitolato "Premiata macelleria Indymedia"
Le polemiche innescate dal mio articolo di mercoledì 15 maggio intitolato Premiata macelleria Indymedia pretendono una risposta. Una risposta che mi auguro servirà a trasformare quello che è stato vissuto come un insulto gratuito, in una discussione più costruttiva. Che spazi dal tema dell'open publishing a quello, più generale delle potenzialità e dei rischi dell'informazione on line. Una discussione necessaria.
Prima di entrare nel merito delle critiche che mi sono state rivolte, credo sia giusto scusarsi. Il titolo dell'articolo e l'immagine a esso associata erano volutamente duri e perfino esagerati. Ho scelto di non limare i toni, nonostante mi rendessi conto di quanto fossero violenti, per due motivi:
1 - Per provocare un dibattito che altrimenti sarebbe stato meno acceso.
2 - Per mostrare quanto possa fare male un uso poco equilibrato dell'informazione.
Le scuse non esauriscono il problema. Anzi, forse aiutano a chiarirlo meglio. E' impossibile riassumere qui la valanga di reazioni all'articolo postati su Indymedia e su altri siti. E' impossibile riportare tutte le critiche e tutti gli insulti, tutti i ragionamenti e tutti gli argomenti sollevati. Posso limitarmi a discutere quella che, secondo me, è l'obiezione centrale, quella più intelligente e più sensata. Quella da cui derivano tutte le altre discussioni possibili.
Molti concordano nel dire che senza parlare di open publishing, cioè del cuore stesso di siti come Indymedia, non si possono avanzare accuse, soprattutto se così radicali. La premessa è vera. Indymedia e molti altri media indipendenti si fondano su un'ideologia dell'informazione nuova, interessante e, per certi versi, rivoluzionaria: offrire a ognuno la possibilità di pubblicare liberamente notizie, fotografie, opinioni, stati d'animo in un processo dell'informazione finalmente libero, orizzontale, non piramidale. Una libertà nella quale ognuno è chiamato a portare il suo contributo e a mettere in discussione, se lo ritiene, quelli offerti dagli altri.
Si è scritto: l'open publishing è la spina dorsale di Indymedia. Chi frequenta Indymedia sa perfettamente che tutto ciò che appare sulla colonna di destra (la zona destinata ai liberi contributi) non è materiale redazionale, non è stato verificato, e anzi deve essere sottoposto a un continuo processo di controllo e di smentita da parte degli altri.
Sostenere che poiché tutti i frequentatori abituali di Indymedia sanno come usare le informazioni che vengono pubblicate, non solleva Indymedia da nessuna responsabilità. Precisamente perché contraddice l'idea stessa di Internet come mezzo di informazione essenzialmente democratico, la sua essenziale apertura. E lo fa contrapponendo alla libertà di navigazione offerta dalle reti proprio una visione chiusa, da club esclusivo in cui i soci sono ammessi e gli altri si arrangino. Dire: "Chi frequenta Indymedia sa", significa non volere pensare al web come a uno spazio aperto dove chiunque può muoversi, viaggiare liberamente, scaricare quello che vuole e ripubblicarlo dove più gli piace.
Una tendenza, quella di concepirsi come club esclusivo, che si nota in molte delle reazioni all'articolo. Un atteggiamento che va certamente letto anche come reazione alle mancanze e alle chiusure di quella che viene chiamata informazione "mainstream", cioè l'informazione offerta dai circuiti tradizionali, ma che non ne sminuisce a mio avviso l'effetto devastante. Chi acquista Libero può stare tranquillo: sa bene che non gli capiterà mai di voltare pagina e di trovarsi a leggere un articolo del manifesto. Chi naviga in rete non ha di queste certezze: con un clic può raggiungere un sito neonazista o leggere informazioni false (e magari le crederà vere, proprio perché ha fiducia nel sito di provenienza). Il fatto è che su Internet non esistono i "propri" lettori, ma soltanto gente che legge. Qualcuno torna ogni giorno, bookmarka il sito in questione, molti altri ci capitano, ogni giorno, per caso. Nessuno è tenuto a sapere quali materiali pubblicati siano degni di nota e quali non lo siano. Fa una certa impressione che questo errore di valutazione venga compiuto proprio da chi più ha riflettuto sulle potenzialità democratiche offerte dalle reti.
A questo punto vorrei proporre un altro spunto di discussione, laterale al tema della responsabilità di chi informa sul web, ma comunque importante. Un tema che forse ci permette di fare un passo avanti. Parallelamente alla garanzia di un'assoluta libertà di movimento, Internet provoca anche un effetto contrario. Induce un grado di identificazione maggiore di quello su cui può contare la carta stampata, la televisione e la radio. E questo proprio perché tutti possono partecipare. Non solo nella versione open publishing pura e dura, ma anche attraverso forum moderati e chat.
E' un discorso che non vale per tutta la rete, ma per buona parte di essa. Vale per Diario.it e per Indymedia, non vale per Repubblica.it che viene utilizzato - questa la mia impressione - come grande serbatoio di notizie, che non richiede però nessun investimento "affettivo". La questione dell'affidabilità del logo e del marchio (che su Internet si chiama molto più imperialisticamente Dominio) è quindi in questo campo abbastanza decisiva, con buona pace di Naomi Klein. Lasciando da parte i frequentatori casuali, si può dire che per chi quotidianamente legge e interviene su Indymedia (ovvio che la cosa valga per molti altri siti), la testata Indymedia si trasforma in un marchio di garanzia, in una voce di cui ci si può fidare, in un luogo in cui si dice la verità. Si tratta di un risultato su cui nessuno di voi può avere dubbi. Indymedia, dai giorni di Genova in poi, si è trasformata con merito in un punto di riferimento per molte persone che normalmente stanno alla larga dai mezzi di comunicazione tradizionali. Ma se questa è una forza, è una forza che deve essere vissuta anche come responsabilità.
L'attacco nasceva proprio dal riconoscimento di quello che Indymedia ha fatto e dalla necessità di preservare questo risultato. Perché è proprio Indymedia a pagare le conseguenze, in termini di credibilità, della sua scelta di ospitare senza nessuna distinzione grafica, né alcun avviso esplicito ai lettori, le foto macellaie su Jenin, il Protocollo dei Savi di Sion o le minacce violente lette alcuni giorni fa. Molti dei messaggi di solidarietà che mi sono giunti provenivano proprio da persone che, dopo un iniziale entusiasmo, avevano deciso di allontanarsi da Indymedia proprio per questo. Il rovescio della medaglia dell'open publishing è qui. Limitarne i danni non sarebbe difficile, basterebbe - come detto - distinguere graficamente quello che è open da quello che non lo è e avvisare i lettori, qualunque lettore, anche quello casuale, che quella zona del sito contiene informazioni che non hanno direttamente a che fare con la linea e il lavoro di chi quel sito l'ha costruito e lo costruisce ogni giorno con il proprio lavoro.
Alcuni di voi hanno risposto assicurando che i messaggi razzisti, sessisti etc vengono cancellati. E' una fatica improba e, secondo me, inutile. In questo sì, la rete deve essere libera. Le opinioni sono per definizione qualcosa di cui è individualmente responsabile chi le sostiene. Perfino nel caso in cui siano anonime. Diverso e più pericoloso il caso in cui dalle opinioni si passi alle informazioni, alle notizie, alle cose che dovrebbero essere vere e invece posso non esserlo. Una notizia coinvolge anche e soprattutto le persone di cui si scrive. Non è una differenza da poco. Molte risposte minimizzavano il fatto che le foto fatte passare per scattate a Jenin in realtà erano prive di qualunque verità. Contrapponendo, senza incontrare molte difficoltà nella scelta, alcuni dei mille strafalcioni usciti sulla stampa ufficiale. Non è una risposta. E questo non per una anacronistica difesa della categoria, ma perché un errore non ne autorizza mai un altro (soprattutto se il proprio orgoglio è quello di essere diversi) e in secondo luogo perché l'informazione tradizionale è ancora esposta, e non solo in teoria, a responsabilità civile e penale per ciò che sostiene.
E' ben strano che tra tutti i commenti letti nessuno abbia fatto presente che l'open publishing non è tanto la filosofia di alcuni siti, ma il concetto stesso di Internet. Un mezzo di comunicazione che offre a chiunque la possibilità di pubblicare ciò che vuole a costi bassissimi e con pochissima competenza tecnologica. Se questo è vero - ed è vero - l'attenzione a quello che si pubblica diventa, per chi vuole ritagliarsi un ruolo e informare davvero, una questione essenziale. Non si tratta di blindare la rete o di imporre regole difficilmente applicabili come alcune di quelle contenute nella nuova legge sulla stampa. Si tratta di non dimenticarsi mai che in rete, ancora più che sulla carta, le parole e le immagini sono importanti, lasciano il segno, possono diffondersi ed essere credute in pochissimo tempo e con pochissima difficoltà. Si è detto che il mio intervento era guidato dall'idea di un lettore sprovveduto e da educare, assolutamente incapace di distinguere e capire. Rispondo dicendo che non è qui in questione la stupidità o l'ignoranza del pubblico, ma soprattutto il tempo. Pochissimo per quasi tutti. Pochissimo per darsi la pena di verificare ogni notizia letta e ogni email ricevuta. Non si può pensare al pubblico contemporaneamente come una massa di gente reimbesuita dalla televisione e come una folla di volonterosi reporter indipendenti. A meno che non si scelga la strada di parlare soltanto a quelli che già la pensano come noi, rinunciando per principio all'idea di dire la verità, come a Genova, anche a chi normalmente le notizie le viene a sapere da Bruno Vespa. La verità sta nel mezzo. C'è gente stupida e gente intelligente, gente che è in grado e ha voglia di mettere in discussione quello che legge o vede in tv e gente che invece non ne ha né il tempo, né la voglia.
Internet diventerà, e in parte è già, un'immensa discarica. E proprio come avviene nelle discariche per chi vive di rifiuti, la possibilità di distinguere a prima vista quello che ha valore nutritivo da quello che è spazzatura, sarà sempre di più una questione di sopravvivenza. Alcuni si faranno convincere, per esempio, dall'assurdo sito di un tal John Clive Ball che pretende di dimostrare l'evidenza fotografica della non esistenza dei campi di sterminio, mostrando soltanto dei disegni infantili. Di fronte a casi come questo, l'unica cosa che possiamo fare (non è questione di indy e mainstream) è avere ben chiaro che quello che pubblichiamo non deve, per quanto possibile, prestarsi a essere frainteso e deve, sempre per quanto possibile, essere vero.
Giacomo Papi.
www.diario.it
|