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La presenza militare in friuli
by IMC Italy Saturday, Aug. 24, 2002 at 11:53 AM mail:

...

Cronistoria
Agli inizi della guerra fredda, la Sardegna, per via della sua posizione centrale nel Mediterraneo e periferica rispetto al settore operativo, la cosiddetta linea di Gorizia, è individuata come luogo in cui concentrare impianti e attività che non possono essere esposti al rischio di cadere in mano nemica in quanto imprescindibili per sorreggere e portare avanti lo sforzo bellico, nella guerra prevista contro l'Est comunista. Nelle alte sfere internazionali si decide il futuro della Sardegna: in una prima fase è destinata a zona per addestramenti, esercitazioni, esperimenti; in una seconda fase ad area d'impianti di telecomunicazione, deposito di armi, munizioni e carburanti.
Utilizzando lo strumento dell'esproprio nascono i tre grandi poligoni: la base aerea cosmopolita di Decimomannu - Capo Frasca e i poligoni Salto di Quirra e Teulada, i più estesi d'Europa, in cui si articola l'attività esercitativa, addestrativa e sperimentale, ancora oggi la più intensa di tutta la penisola. Ad occidente il mare e il cielo sono adibiti a sterminato campo di combattimento aereo e navale, ad oriente a campo di sperimentazione di nuovi sistemi d'arma e a bersaglio di missili e razzi di nuova e vecchia generazione.
L'estremo sud e l'estremo nord diventano i due grandi poli di approvvigionamento "messi a disposizione" della Nato. A Cagliari si sventrano la Sella del Diavolo e Monte Urpinu per contenere i giganteschi serbatoi di combustibili ad uso di aerei e flotte di guerra. A La Maddalena - Santo Stefano si costruiscono i mastodontici depositi sotterranei per carburanti e per armi e munizionamento navale; in applicazione di accordi tuttora segreti e mai ratificati dal Parlamento, s'installa la base nucleare americana, la sola in Italia e in Europa che agisce fuori della copertura Nato, in regime di piena extraterritorialità ed extragiurisdizionalità.
Lungo le coste e sulle vette delle montagne s'impiantano radar e antenne, le grandi orecchie tese a captare voci e movimenti del presunto invasore.
Una vasta parte di spazio aereo del centro Sardegna è "asservita" . Il demanio militare permanentemente impegnato ammonta a 24.000 ettari a fronte dei 16.000 ettari di tutto il restante territorio della penisola italiana. A questa cifra si sommano i 12.000 ettari di terra gravata da servitù. L'estensione delle "zone di sgombero a mare" supera, con i suoi 2.800.000 ettari, la superficie dell'intera isola. Il volume degli spazi aerei sottoposti a restrizione o interdizione è incommensurabile (vedi appendice 1). Oltre al dato quantitativo va considerato l'aspetto qualitativo dei gravami. I poligoni e le zone interdette o pericolose per la navigazione aerea e marittima sono impegnati permanentemente in esercitazioni a fuoco. La pausa dell'intensa attività ottenuta nel periodo di ferie estive e natalizie è il risultato di lunghe lotte.
La colonizzazione militare della Sardegna procede incontrastata nel generale disinteresse della classe dirigente isolana. Speculando sull'antica povertà dell'isola si crea consenso con l'elargizione di alcuni posti di lavoro e molte promesse di futura occupazione. L'opposizione popolare non viene né raccolta né, tanto meno, indirizzata da istituzioni, partiti politici e sindacati. Saltuariamente riesce a organizzarsi e a reagire con forza. ( 1969: lotta di Orgosolo contro il progetto di poligono a Pratobello; 1987/88: mobilitazione popolare per esigere un referendum consultivo sulla base atomica statunitense di La Maddalena; 1997/99: lotta dei pescatori del Sulcis contro il sequestro militare del mare di Teulada). Il dissenso, nella maggior parte dei casi, vie ne confinato nell'ambito di protesta locale e settoriale. In prevalenza si frantuma in isolate azioni individuali contro gli espropri delle terre, in difesa del lavoro e dell'uso di pascoli e zone di pesca. L'antagonismo non ha voce ma si esprime e lascia i segni nei murales di tutta l'isola. Istituzioni e forze politiche rinunciano al loro ruolo di analisi della realtà e di elaborazione politica. Per decenni si rifugiano in disquisizioni su meriti e demeriti delle due squadre avverse, Russia e America. Di fatto, la scelta politica è quella di "non vedo, non sento, non parlo".
In Friuli, la regione più militarizzata d'Italia dopo la Sardegna, si contratta organicamente e puntigliosamente indennizzi, occupazione e servizi contro gravami militari. Nell'isola, invece, sono totalmente ignorati i pesanti problemi determinati da "l'unica industria che non conosce crisi", come titolava un ciclostilato del P.C.I per uso interno. Di conseguenza, la militarizzazione della Sardegna si sviluppa in un perverso intreccio di arroganza e prevaricazione, da parte delle Forze Armate e delle Amministrazioni statali, e pervicace volontà delle Amministrazioni locali di farsi prevaricare. Un esempio è il caso del deposito combustibili A.M.I.-Nato di Monte Urpinu, da sempre ad alto rischio per la città e da anni illegalmente operativo in violazione dei parametri di sicurezza . Si registrano lievi sussulti d'interesse da parte delle forze politiche e delle istituzioni solo nei momenti di forti lotte popolari.
Paraocchi ideologici d'incondizionata fede atlantica, a destra, ricerca estenuante di attestati di affidabilità per l'accesso e la permanenza nella stanza dei bottoni, a sinistra, desiderio di non scontentare quelli che contano e dai quali dipendono le personali carriere politiche, dovunque, contribuiscono a creare un vuoto informativo che impedisce di vedere come la felice posizione geografica della Sardegna si trasformi in una maledizione. Le scelte politiche e militari, compiute negli Anni Cinquanta e mai rimesse in discussione, ne potenziano l'isolamento: l'interdizione degli sterminati spazi aerei e marittimi pone pesanti ipoteche allo sviluppo dei trasporti e concorre a strangolare l'economia.
Il ruolo militare assegnato alla Sardegna, determinato a sua insaputa da altri, comporta un'articolazione anomala e squilibrata dei settori amministrativi dello Stato che contribuisce ad innescare un processo di sviluppo distorto dell'isola. A settori deboli e rattrappiti come, ad esempio, pubblica istruzione, sanità, trasporti (siamo sempre in coda in tutte le classifiche italiane), fa riscontro l'estensione abnorme del settore affidato al ministero della Difesa. Nelle graduatorie di questo ministero siamo normalmente al primo posto, spesso senza concorrenza.
Oggi, schieramenti politici che innalzano la bandiera neoliberista del ridimensionamento delle amministrazioni statali, conservano stretto silenzio sull'anomalo sviluppo del settore difesa che fa della Sardegna l'isola della monocoltura militare.
Si continua ad eludere un'analisi seria, centrata sulla realtà sarda, su utilità, costi e funzioni delle basi militari e del modello di "sicurezza" che le sostiene.


Favola numero 1


"Le basi creano lavoro e ricchezza"


Lo sporadico dibattito sulla militarizzazione dell'isola registra una forte arretratezza: è costretto ancora a fare i conti con logore leggende metropolitane.
Nella nebbia informativa e nel vuoto di analisi e progettualità politica ha gioco facile il battage pubblicitario ben orchestrato. L'acritico e instancabile ritornello "le basi militari danno lavoro" penetra nel sentire comune. Si sbandierano i posti di lavoro, raramente precisati e quantificati, creati direttamente dai poligoni e indirettamente dall'indotto. Si "dimentica" di prendere in considerazione e valutare i costi pagati da tutta la collettività: pochi traggono lievi vantaggi e molti sopportano pesanti danni. Nessun centro studi di sindacato, partito o ente locale si è mai preoccupato di quantificare le attività lavorative perdute o gravemente compromesse a causa della sottrazione della terra e del mare agli usi civili né, tanto meno, di stimare i danni subiti dalla collettività in termini di uso alternativo delle risorse e di mancato sviluppo (o sviluppo del sottosviluppo).

Un po' di memoria storica aiuta a valutare la sensatezza dello spot pubblicitario che spaccia la presenza militare come apportatrice di ricchezza. Nel 1980 Il Parlamento impegna il Governo a predisporre un "piano per alleggerire le installazioni militari e servitù nelle regioni del Friuli Venezia Giulia e della Sardegna". Per un certo periodo scorrono fiumi di parole a favore di un significativo riequilibrio dei gravami tra le varie regioni e fioccano solenni promesse di avvicinare la Sardegna a livelli italiani. Nulla cambia perché, oltre la cronica latitanza della classe politica sarda, "nessuna regione è stata disponibile ad addossarsi vincoli militari, specie quelli connessi ad esercitazioni a fuoco", come dichiara ripetutamente in Parlamento il Sottosegretario alla Difesa. Cioè non c'è stata una regione disposta ad accollarsi neanche una minima parte dei decantati effetti benefici prodotti dai poligoni.
Non è stata ancora digerita la normativa, in vigore dal lontano 1976, che riconosce il "danno economico e sociale" che "penalizza" le regioni e i paesi "oberati" dalla presenza militare e prevede l'indennizzo alla comunità per le servitù militari.
Per ben quattordici anni enti istituzionali e forze politiche hanno ignorato, o finto di ignorare, che pur essendo la Sardegna ai primi posti della graduatoria nazionale, il gravame delle servitù militari è marginale e la vessazione più dura è costituita dall'abnorme demanio militare e dal sequestro degli sterminati spazi aerei e marittimi. Solo nel 1990, con la l.104/90, i 24.000 ettari di demanio militare entrano nel computo del risarcimento danni facendo balzare la Sardegna al vertice della graduatoria degli indennizzi.
Pare incredibile ma, fino al 1999, le forze politiche ed istituzionali, dai comuni alla Presidenza della Repubblica, "non si accorgono" della militarizzazione del mare sardo. Solo la lunga e vincente lotta dei pescatori del Sulcis costringe a prendere in considerazione il mare proibito e i danni subiti a causa della sottrazione delle risorse naturali. Con determinazione impone il riconoscimento del diritto al risarcimento danni, diritto che si fonda nei principi codificati nel lontano '76 dalla l.898 e ribaditi dalla l.104/90.
Sulla spinta della lotta popolare il Consiglio Regionale denota sprazzi di attenzione al tema dei gravami militari che mortificano l'isola e vara un disegno legge da presentare in Parlamento. Non sappiamo in quale porto delle nebbie si sia incagliato.
Oggi, nel 2000, permane l'ostinazione a "non vedere" il cielo sardo "off limits" e a non prendere atto dei danni arrecati, non solo ai pescatori ma anche a tutta la popolazione, dalla militarizzazione degli enormi tratti di mare. Le zone interdette o pericolose per la navigazione aerea e marittima continuano a sfuggire alle forme di controllo democratico e non comportano l'obbligo dello Stato di indennizzare l'intera collettività per il danno subito in termini di restriz ioni e divieti alla navigazione da diporto, mancato sviluppo dei trasporti, orari assurdi dei traghetti Arbatax-Civitavecchia, voli radenti, inquinamento acustico, rischio etc. etc.
Siamo ben lontani dall'idea che i diritti della collettività possano essere messi in vendita, monetizzati e indennizzabili con una manciata più o meno consistente di lire, erogata con i tempi e i modi di un'elemosina assistenziale. Siamo ancora più lontani dall'idea che possano essere estorti e negati. Riteniamo che le FF.AA. devono sottostare al divieto, imposto alle Regioni, di "adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose"(Costituzione art.120).
Intendiamo sostenere che la favola basi militari = occupazione = benessere è una truffa.

Riprendiamo un interrogativo posto da Limes N.4/99: "E' possibile valutare in termini economici il valore delle basi italiane? Non sono disponibili dati in Italia, ma ci viene in aiuto il Rapporto sul contributo degli alleati alla difesa comune redatto ogni anno dal Dipartimento della Difesa Usa per il Congresso. Attraverso complessi meccanismi, in tale rapporto l'apporto dei paesi alleati degli Usa in tutto il mondo viene valutato in contributi indiretti (mancato guadagno del paese ospitante per il fitto delle installazioni o il pagamento delle tasse cui i militari sono esentati) e contributi diretti, cioè le spese pagate direttamente dal paese alleato. Secondo il rapporto del 1999 (dati riferiti al 1997) l'Italia ha contribuito per oltre un miliardo di dollari (all'interno di una forbice tra 1,093 e 1,148 miliardi dollari) (...) le cifre sono costituite per intero da contributi indiretti, cioè l'uso delle basi (...)".
Rilanciamo l'interrogativo: in quale misura la Sardegna contribuisce alla cosiddetta difesa comune? Ovviamente non esistono dati. Considerando le basi una sorta di tassa in natura, sulla falsariga del Dipartimento alla Difesa Usa, tentiamo un calcolo rozzo e approssimativo. La Sardegna, con i suoi 24.000 ettari di demanio militare rapportati ai 16.000 ettari di tutto il resto della penisola italiana, contribuisce nella misura del 66% circa. Se a questo sommiamo i 12.000 ettari di servitù e i 2.800.000 ettari di mare messi a disposizione della Nato, la percentuale, in rapporto alle altre regioni italiane, sale al xxxxxxxx%. Lasciamo fuori del calcolo gli enormi spazi aerei militarmente impegnati, sarebbe un'operazione troppo sofisticata.
L'Italia paga la sua quota Nato prevalentemente con pezzi di Sardegna.
Ma in Sardegna accade anche che una base militare, installazione improduttiva per antonomasia, produca reddito. Il Poligono Interforze Salto di Quirra, oltre che impegnato da Aeronautica, Marina ed Esercito in attività addestrative e sperimentali, funziona anche come grande città mercato. Organismi militari stranieri e ditte private effettuano esperimenti, prove e dimostrazioni promozionali di nuovi sistemi d'arma per i potenziali clienti prima dello shopping. Il noleggio del territorio e del mare, con annesso diritto di bombardamento, è pagato sia con il sistema della compensazione (sconti speciali sullo stock di ordigni venduti alla Difesa), sia in moneta sonante. Circa 60/80 milioni a giorno è la cifra, non ufficiale, approssimativa per difetto, fornita da ambienti dell'Aeronautica. Ci cimentiamo ancora in calcoli grossolani. Nei primi sei mesi del '98 risulta un utilizzo da parte dell'Alenia e della Fiat per 244 giornate (il poligono è spesso affittato contemporaneamente a ditte diverse nell'arco dei 181 giorni di un semestre). In questo periodo la base militare avrebbe prodotto un "reddito" di 16,5/19,5 miliardi. Questo fiume di denaro, che finisce nel bilancio del ministero della Difesa, lascia nei comuni interessati solo un misero rigagnolo. A Perdasdefogu, il comune più beneficato, viene elargita una cifra che non sfiora il due per cento. Nulla è dovuto ai comuni che subiscono il sequestro e il bombardamento dell'immenso tratto di mare che va da Siniscola a Castiadas.
Oggi, nel piano di ottimizzazione delle risorse, si prevede anche di affittare a pascolo alcune zone inutilizzate dell'enorme poligono e, nel periodo di pausa estiva, di noleggiare parti di spiaggia ad uso zone di ristoro. L'operazione è propagandata con lo slogan "servitù militari asservite alle esigenze civili".


Favola numero 2


"I poligoni tutelano l'ambiente"


La leggenda metropolitana che spaccia forze armate e poligoni come difensori dell'ambiente e della natura, ha conquistato l'appoggio persino di alcuni settori del mondo ecologista. Ha fatto scuola l'auspicio di Fulco Pratesi, presidente del WWF: "I poligoni hanno fatto da argine all'invasione del cemento; bisognerebbe aumentarne il numero". Dalla premessa scaturisce presto il dogma "le basi militari tutelano l'ambiente"
Poco importa se i vertici militari dichiarano ufficialmente che il promontorio di Capo Teulada e il mare che circonda la base non sono bonificabili e, quindi, permanentemente interdetti, a causa dell'accumulo di residuati inesplosi e dell'elevato ritmo di attività. Periodicamente, patinate riviste "ecologiche", diffuse anche gratuitamente in campagna elettorale, propongono Capo Teulada come esempio di "poligono verde".
Non è ufficialmente ammesso, non è visibile, ma è facilmente deducibile, lo scempio dell'ambiente marino al largo delle coste orientali e occidentali, da circa quaranta anni, quotidianamente cannoneggiato e bersagliato da bombe, razzi e missili i più vari, i più nuovi e spesso mal funzionanti.
Da sempre, a Cagliari, la sensibilità ambientale delle FF.AA. è davanti agli occhi di chiunque voglia vedere. Alcuni esempi tra i mille: la spiaggia del Poetto cementificata prevalentemente a beneficio delle forze armate; il versante militare est di Monte Urpinu, desertificato e preda di incendi ricorrenti; le zone off-limits di Calamosca e Su Siccu adibite a discarica a cielo aperto di rifiuti nocivi e pericolosi (quest'ultima area è stata da poco ripulita dopo la denuncia e le manifestazioni del Comitato Gettiamo le Basi, le proteste della circoscrizione e l'attenzione di stampa e T.V.)

Recentemente la capitale, che civettuola tenta il look di "città turistica", ha appreso dalla stampa di essere catalogata dalla Marina Militare tra gli 11 porti italiani a rischio nucleare . Ma leggende e dogmi non possono essere scalfiti dalla realtà e pertanto anche il nucleare, se ha le stellette o le stelle e strisce, diventa eco-compatibile.
Nel 1995 il deputato Edo Ronchi firmava interpellanze sostenendo: "La presenza della base Usa (di La Maddalena) contrasta, da una parte, con il progetto di Parco naturale, previsto dalla legge nazionale e dall'altra, con il programma comunitario Parco Marino internazionale. Appare evidente l'incompatibilità della presenza nucleare statunitense con tali progetti." Tuttavia, il ministro Edo Ronchi ingloba la base atomica Usa tra i gioielli ambientali del parco nazionale Arcipelago della Maddalena, unico parco "eco-nucleare" del pianeta Terra in cui si regola il traffico di bagnanti e gitanti e si lascia via libera all'intenso e incontrollato andirivieni di sommergibili a propulsione nucleare e armamento atomico. Sulla inquietante presenza dei mostri atomici cade un silenzio omertoso.
"I danni inferti alle terre e ai mari sardi dalla presenza dei militari sono profondi e, spesso irrimediabili", scriveva il deputato Edo Ronchi. Il ministro Edo Ronchi impone e progetta parchi, tutti, tranne quello dell'Asinara, inglobanti installazioni e attività militari o adiacenti a zone impegnate da intense esercitazioni e sperimentazioni, ufficialmente classificate pericolose dalle FF.AA. Sovrapponendo alle mappe militari la mappa dei parchi ministeriali, questi appaiono quasi come "fasce di rispetto" a protezione di zone militarmente impegnate. Non c'è traccia di dibattito e, ancora meno, di iniziative che denotino volontà politica di smantellare impianti e sospendere, o almeno limitare, le devastanti attività militari, perlomeno, nelle zone che si proclama di volere salvaguardare e nelle immediate adiacenze.
La tutela della popolazione è demandata ai Santi Patroni.


Favola numero 3


"le servitù militari asservite alle esigenze civili"

Nel periodo del post guerra-fredda si diffonde una nuova leggenda. Racconta che siamo entrati in una nuova era, l'invasione militare dell'isola sarà ridimensionata, "le servitù militari asservite alle esigenze civili", "i poligoni aperti alle greggi" e presto riavremo la Sella del Diavolo, le nostre spiagge e la nostra terra. La favola suadente invita: zitti e buoni, continuate a dormire, sognate, tutto va bene. Il tutto si propaga a ritmo sempre più veloce e incalzante all'unisono dei rapidi mutamenti del contesto internazionale, dell'Alleanza Atlantica e degli adeguamenti imposti all'Italia.
0L'allineamento ai nuovi standard Nato, propagandato come ridimensionamento, ha come imperativo: razionalizzazione e riarmo. Le ultime finanziarie prevedono che gli altissimi costi saranno coperti dal "contenimento del personale"(con buona pace di chi si ostina a sostenere che le basi creano occupazione) e dall'alienazione di alcuni immobili affidati alle FF.AA. Saranno immessi sul mercato dei beni per un valore di 2.500/3.000 miliardi. Si prevede d'incassarne 1.400 (Sic.)!
In Sardegna, l'iter programmato di reperimento fondi incontra un ostacolo. L'art.14 dello Statuto Sardo, impone alle amministrazioni dello Stato di restituire alla Sardegna i beni non utilizzati per gli scopi istituzionali. In altre parole, niente svendite a saldo.
Finora le FF.AA. e il ministero delle Finanze, ovviamente, non hanno mai denotato interesse a riconsegnare i beni loro affidati e li hanno trattenuti all'infinito anche se inutilizzati o palesemente non adeguati agli scopi istituzionali. Meno ovvio che Regione e Comuni si siano appagati di sporadiche promesse di restituzione, esibite come grandi successi. L'ultima risale al 14 marzo 2000: "Regalo alla Regione. Lo Stato rinuncia ai beni demaniali." Cioè lo Stato promette che adempirà (quando?) agli obblighi, assunti nel 1948 e sempre evasi, di riconsegnare quanto ha finora "trattenuto", irridendo una legge che ha forza costituzionale. A stento comprensibile, che i legittimi proprietari, serenamente, prendano in affitto i loro beni.(Cagliari spende 250 milioni all'anno in affitto di immobili "trattenuti").
Due esempi tra i mille, tratti dalle cronache cagliaritane, di abuso consolidato e di ostinazione a farsi prevaricare: ex caserma Griffa in viale Buoncammino, dismessa dall'Esercito e "trattenuta" dal ministero delle Finanze da oltre 50 anni; area della Marina Militare a Monte Urpinu, inutilizzata da oltre 25 anni ma gelosamente "trattenuta" dalla forza armata. Nel giugno '99 è stata usata come merce di scambio: promessa di dismissione in cambio del consenso alla cementificazione di S.Bartolomeo.
Oggi, la necessità impellente delle Forze Armate di coprire gli alti costi di adeguamento ai nuovi standard Nato e raggirare l'ostacolo dell'art.14, si trova a convergere con gli appetiti della lobby potente e finanziariamente agguerrita della speculazione edilizia, turistica e sportiva. C'è una certa frenesia nell'aria. I Generali elaborano piani e propongono "Permute", i cosiddetti "Progetti chiavi in mano". Prevedono il trasloco da installazioni inutilizza te o inadeguate (ad esempio l'ospedale militare di Cagliari, gioiello storico-architettonico, ma indegno come struttura sanitaria anche per un paese del quarto mondo), a condizione che le amministrazioni locali mettano a disposizione nuove aree, "adeguate e facilmente raggiungibili". In altre parole, propongono di barattare beni che devono restituire alla popolazione a costo zero. Poche le reazioni indignate, molte le orecchie attente. Anche aree, perfettamente funzionali ai fini della Difesa, diventano oggetto di interesse. Ingegneri e consiglieri comunali, progettano, nella cittadella militare Sella del Diavolo-Sant'Elia-San Bartolomeo-Calamosca, un diluvio di campi da golf, tennis, alberghi e quant'altro. I Generali professano piena disponibilità e sollevano il prezzo del baratto: chiedono anche impianti e strutture "adeguati", cioè più moderni, ampi e confortevoli. I costi, imprecisati ma di certo astronomici, sono a carico della popolazione, invitata ad accollarsi la spesa per l'adeguamento ai nuovi standard Nato e a dimenticare il diritto, costituzionalmente garantito dall' art.14, di rientrare in possesso dei pezzi del suo territorio.


Il processo in atto di razionalizzazione del settore Difesa coinvolge marginalmente la Sardegna. I beni inutilizzati o non più adeguati, spesso ad alto pregio paesaggistico, urbanistico e architettonico, sono irrisori dal punto di vista quantitativo, soprattutto se rapportati all'anomala vastità del demanio messo a disposizione della Nato.
Nell'isola la presenza militare, già dagli Anni Cinquanta, si è strutturata e sviluppata secondo i più avanzati parametri della massima concentrazione ed è nata moderna. In Friuli, ben 17 poligoni sono frazionati sui 4.240 ettari di demanio affidati all'Esercito; in Sardegna, il solo poligono Salto di Quirra occupa una superficie più che tripla, il poligono di Teulada impegna 7.200 ettari.
La tipologia e la dislocazione dei grossi impianti è stata pianificata in modo razionale e lungimirante, anche in funzione della posizione geografica di centralità mediterranea, anticipando il ruolo dell'isola di presidio dell'intera regione mediterranea. Questo nuovo ruolo che si va precisando, non cancella ma si sovrappone alla funzione, assegnata negli Anni Cinquanta, di area di servizi indispensabili per sostenere la guerra.
"La Sardegna non perde le stellette, almeno per ora non ci saranno ridimensionamenti e tagli di reparti". "Le aree attualmente occupate servono tutte per fini istituzionali". Il vento di dismissioni che soffia in varie regioni d'Italia non arriva da noi. Non è arrivato neanche quello attivato dalla l.898/'76 che ha comportato una riduzione di circa il sessanta per cento delle servitù militari, nella penisola, e il raddoppio, in Sardegna.
Vari segnali indicano che gli esosi gravami che opprimono l'isola in misura iniqua, permangono e tendono ad appesantirsi. Alcuni segnali sono tenui e subdoli. Un esempio è il contestato radar di Monte Filau che dovrebbe consentire di intercettare i missili nemici in arrivo: che senso ha sapere che sta per arrivare un missile se non si prevede anche di approntare un sistema di risposta? Tralasciamo strutture e piani di emergenza per la popolazione, sarebbe fantascienza.
Altri segnali giungono inequivocabili. Nel poligono di Teulada è previsto un investimento di 70 miliardi con l'obiettivo di realizzare il più grande centro europeo di addestramento ad alta tecnologia. "Cagliari avrà un'importanza strategica nel Mediterraneo", annunciano i vertici delle FF.AA. di Cagliari, "comune costiero militarmente importante", posto al centro della "zona costiera militarmente importante" che va da Capo Carbonara a Capo Spartivento, è la cerniera "naturale" degli immensi spazi aerei e marittimi annessi alle basi di Quirra, Teulada e Decimomannu-Capo Frasca. La NATO progetta il potenziamento del porto militare, un nuovo molo e un nuovo centro di servizi logistici (la contestata cementificazione di S.Bartolomeo con "villette vista a mare per ammiragli"). La Marina appronta un "Piano di emergenza per le navi militari a propulsione nucleare in sosta" e la prefettura predispone un piano "riservato" di emergenza per la popolazione in previsione d'incidenti nucleari.

La fase che si è aperta con la fine del bipolarismo non annuncia alla Sardegna "magnifiche sorti e progressive".
Dalla fine degli Anni Ottanta, di pari passo ai segni di cedimento dell'Urss, si profila una nuova strategia e la ricerca un nuovo nemico "credibile". Da subito è molto chiaro "dov'è" il nemico, ancora molto incerto è sapere "chi sia". Di volta in volta è stato identificato in Gheddaffi, Saddam, Milosevic.
Il Presidente dell'unica potenza globale rimasta, chiarisce l'apparente vaghezza strategica e fa intravedere il futuro riservato alla Sardegna.
"Il Mediterraneo costituisce una regione chiave per gli interessi strategici della Nato. L'evoluzione dello scenario della sicurezza Europea del dopo guerra-fredda, ha accentuato l'importanza del fianco Sud e la necessità di una presenza forte, flessibile e attiva della Nato in una regione instabile. (...) Per il prossimo futuro non scorgiamo molte probabilità di cambiamento. In stretta consultazione con il governo italiano, abbiamo preso alcune importanti decisioni riguardanti cospicui investimenti nel potenziamento delle installazioni che le forze statunitensi possono usare in Italia".

Il rapporto al Congresso, "National security strategy for a new century 1997", è ancora più esplicito. "La maggior parte delle riserve petrolifere si trova in Medio Oriente e col tempo la dipendenza Usa da queste fonti acquisterà importanza crescente man mano che le nostre riserve saranno consumate (...) Abbiamo interesse vitale ad assicurarci l'accesso a risorse critiche(...) Dobbiamo essere preparati e decisi a usare tutti gli strumenti della nostra potenza per influenzare gli altri stati e soggetti non statali(...) avere la volontà e capacità di continuare ad esercitare la leadership globale".
Lo strumento fondamentale, secondo vari analisti talmente importante da porsi come obiettivo strategico in sé, è la Nato: "insostituibile meccanismo per l'esercizio della leadership Usa (...) e per la proiezione della potenza e della influenza americana attraverso l'Atlantico e oltre" (Rapporto al Congresso del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, 1998).
Lo sbocco è il potenziamento dell'alleanza militare atlantica, portato avanti con l'allargamento ai paesi dell'Est europeo e il cambio degli scopi istituzionali. Con disinvoltura, senza grandi dibattiti parlamentari, nel corso della guerra del Kosovo, cessa di essere un alleanza a scopo unicamente difensivo e si trasforma in alleanza per intervenire militarmente "ovunque siano minacciati i nostri interessi", e i rapporti del Presidente Usa tolgono ogni dubbio su quale sia lo Stato titola re dei "nostri" interessi. L'ispirazione di fondo si riassume nella vecchia formula coniata da Roma imperiale: "se vuoi la pace prepara la guerra". La base materiale è l'esigenza della potente industria degli armamenti che, secondo vari analisti economici, è il motore trainante dell'intera economia Usa.
Le trasparenti dichiarazioni di Clinton sulla necessità di "mantenere forze militari superiori" e la deterrenza nucleare per controllare il Mediterraneo e garantire l'accesso al petrolio, sono colorate da una vasta letteratura che, lasciando in ombra il troppo prosaico combustibile, focalizza lo sguardo sulla "storica" contrapposizione tra le due rive del Mediterraneo e vede insanabili scontri di culture, di religioni, di popoli e, nella versione estrema, arriva a parlare di invasione e contagio afro-islamico.
Nello scenario tracciato dalla Presidenza e dal Dipartimento per la Difesa Usa, l'asserita instabilità del Mediterraneo "giustifica", nonostante il ritiro dell'Urss, il perpetuarsi, rafforzandosi, della macchina di guerra e dà nuovo impulso al riarmo . Di conseguenza, il Mediterraneo, individuato come settore operativo per tenere a bada i popoli della sponda sud, è destinato a continuare ad essere il mare a più alto tasso d'inquinamento militare e nucleare. Il lento ricambio delle acque, l'alta densità demografica, la vicinanza delle coste, dovrebbero indurre a considerare modelli di sicurezza meno irrazionali e più consoni alle esigenze dei popoli che nel Mediterraneo vivono. Nella nuova linea strategico-militare, la Sardegna acquista maggiore rilevanza come postazione-chiave di controllo dell'intera area mediterranea, sia per la sua posizione geograficamente centrale, sia per la vastità di spazi aerei e marittimi, da tempo, stabilmente, a servizio della Nato, "alleanza (...) essenziale alla proiezione della potenza e della influenza americana all'interno di aree dove gli interessi Usa sono in gioco" (Dipartimento della Difesa Usa '98). La Sardegna resta inchiodata ancora più saldamente al ruolo, stabilito nel tempo della guerra fredda dalle potenze egemoni, di caserma, scuola di guerra, sempre più isolata dal resto del mondo dalle interdizioni militari del suo cielo e del suo mare. Base insostituibile di controllo e di espansione, è destinata non solo a sorreggere le grandi operazioni di salvaguardia dell'area di "accesso alle risorse critiche", ma anche ad espletare la nuova mansione di sentinella del Mediterraneo a tu tela di interessi e politiche di proiezione di potenza che non le appartengono.
Con il suo silenzio-assenso entra da protagonista passiva nello scenario del nuovo secolo.
A questo progetto eterodiretto, funzionale a interessi di potenze atlantiche, si può, e si deve, contrapporre un progetto di futuro fondato sia sui nostri interessi di popolo, che vive nel Mediterraneo, che sulle nostre risorse e, tra queste, la centralità mediterranea.
Non è rinviabile un'analisi seria che parta dai nostri interessi e dalla realtà sarda, su funzioni, utilità e costi dell'alleanza atlantica e sulla validità e razionalità del modello di sicurezza che impone.
Non è rinviabile un dibattito che dia voce alla rassegnata insofferenza popolare che, da cinquanta anni si tenta di soffocare e anestetizzare con le favole.
Anche chi opta per l'attuale modello di sicurezza e per il futuro assegnato alla Sardegna nelle alte sfere internazionali, non può continuare ad eludere il problema dell'iniquità degli esorbitanti gravami militari che penalizzano l'isola e innescano e potenziano meccanismi di sviluppo distorto.

Comitato sardo Gettiamo le basi

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