Cassata la proposta di collegare sostenibilità del debito con sviluppo umano. Le ong: é il ricco nord a dover pagare
Nnimo Bassey è il direttore dell'Environmental Rights Action, Amici della terra Nigeria, uno degli attivisti storici che hanno sostenuto la lotta del popolo Ogoni e di Ken Saro Wiwa nel delta del fiume Niger. Lo incontro in "Piazza BMW", la piazzetta fuori del Centro Congressi dove campeggia una tenda a forma di mondo con il marchio della casa automobilistica. Un eloquente simbolo di questo vertice. Nnimo taglia corto sull'allarme lanciato ieri dal presidente nigeriano Obasanjo riguardo alla difficoltà del paese nel pagare il servizio sul debito. Per lui quel debito di 34 miliardi non è legittimo e bisogna andare a verificare nei conti bancari chi ha pagato a chi. Semmai, è il ricco nord che deve pagare ai nigeriani il debito ecologico e sociale prodotto da anni di sfruttamento dei combustibili fossili con associata distruzione dell'ambiente e della vita delle comunità locali. Secondo Jubilee Research di Londra, la metà del debito nigeriano consiste in interessi accumulati in passato e mai pagati dalla giunta militare nigeriana. Spiega che il debito non va di moda a questo vertice perché rimane il vero problema del sud e come tutte le questioni cruciali per i poveri non viene volutamente affrontato. Nnimo è appena uscito dal Liberty Theatre dove si è svolta la cerimonia di presentazione della Dichiarazione dei gruppi indigeni e di base sulla giustizia ambientale e climatica. «Il dibattito sull'emergenza climatica è stato ridotto ad una mera questione di numeri e dati, senza raccontare le storie di chi i cambiamenti climatici li vive già sulla propria pelle. Quella del clima è una battaglia di giustizia e di equità, prima di tutto. Oggi si è alzata la voce delle comunità che sono stanche di soffrire i cambiamenti climatici», dice Nnimo, prima di passare all'annosa questione della guerra del petrolio. Per lui l'impeachment contro Obasanjo è soltanto un regolamento di conti tra i militari - il presidente d'altronde è un militare - che alla fine sono ben visti dalle compagnie per la stabilità che assicurano ai loro investimenti petroliferi e ai loro profitti. Visto che ad intervistarlo è un italiano, mi ricorda che l'Agip è peggiore della Shell per i danni ambientali e sociali di cui è responsabile in Nigeria. La compagnia italiana recentemente avrebbe commissionato ad una Ong locale uno studio per identificare mezzi alternativi alle forze militari per proteggere i propri campi petroliferi. Questo dopo l'uccisione in circostanze molto sospette di 12 giovani all'inizio del 2001 nei pressi della proprie strutture. Una partnership militare-petrolifera devastante quella della Nigeria, che viene taciuta da chi oggi propone le partnership pubblico-privato qui a Johannesburg. Mentre dentro al centro stampa arriva la notizia che la parte del testo negoziale in cui vi era la proposta di collegare la sostenibilità del debito con lo sviluppo umano è stata definitivamente cassata, a conferma delle parole di Nnimo.
Il pomeriggio si ravviva sulla questione energetica per una conferenza stampa a sorpresa guidata dal ministro dell'Ambiente brasiliano con l'appoggio dei colleghi di Messico, Filippine, Norvegia e soprattutto Argentina, il paese che nel negoziato presiede il gruppo di lavoro sull'energia. Con la presenza carismatica dell'autorevole Goldemberg del Brasile, l'insolito schieramento chiede con forza che entro il 2010 almeno il dieci per cento dell'energia primaria provenga da fonte rinnovabile, o meglio dalle «nuove rinnovabili», quelle depurate dalle grandi dighe e dalla legna da ardere. La proposta si contrappone a quella apparentemente più ambiziosa dell'Unione europea - 15 per cento - che però include le "vecchie" rinnovabili, a partire dalle grandi dighe tanto care ad Austria, Francia e Svezia. Goldemberg ricorda, infatti, che oggi i paesi del sud del mondo già utilizzano il 29 per cento di energia da fonte rinnovabile, ma questa include l'utilizzo di legname con gravi impatti sulle poche foreste che restano sul pianeta. Al contrario, i paesi industrializzati si attestano oggi con il 6 per cento di rinnovabili, di cui soltanto il 2,2 per cento sono nuove rinnovabili.
Anche questa sembra una questione di giustizia ambientale e climatica. La Norvegia ed il Messico, che parla a nome dell'America Latina, sottolineano che, nonostante siano insieme al Venezuela esportatori di petrolio, credono nella necessità di promuovere le nuove rinnovabili per ridurre l'uso di combustibili fossili, i principali responsabili dei riscaldamento globale del pianeta e quindi dei cambiamenti climatici. Per cambiare rotta serve un obiettivo internazionale per tutti, e non solo spunti nazionali volontari, che l'amministrazione Bush si ostina a promuovere sotto il ricatto di Exxon-Mobil e delle altre compagnie petrolifere che hanno portato il presidente alla Casa bianca. Il Sud Africa manca all'appello, perché troppo affezionato al suo carbone, e naturalmente si oppongono il fronte dei produttori di petrolio dell'Opec ed il nuclearista Giappone. Una spaccatura tra i paesi del sud che, si auspica, potrebbe produrre una rottura anche nel fronte europeo, rianimando così il negoziato.
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