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LaSpezia>Oto Melara>Somalia ovvero: monnezza connection
by Fantom Saturday, Nov. 30, 2002 at 10:09 PM mail:

un po' di info

http://pinoscaccia.homestead.com/files/NUCLEARE_monnezza_connection.htm

L'hanno sempre chiamato il golfo dei poeti. Cantato da Shelley e amato da Wagner. Da quando la collina che domina il porto e' stata deturpata, sfregiata alla Spezia, con molta amarezza, lo chiamano ormai il golfo dei veleni.

I veleni sono sepolti nella discarica di Pitelli, al centro di un'inchiesta che porta molto lontano, al grande malaffare dei rifiuti tossici. Monnezza connection, migliaia di miliardi, veleni e misteri. Come una piccola nube gialla di cui non si e' riusciti ancora a stabilire le origini. Un giorno ha colpito quattro tecnici che sono finiti in ospedale, intossicati. Altri che lavoravano qui sono morti negli anni passati. Sicuramente un operaio e un camionista, colpiti accidentalmente dai gas. Ma si parla anche di un altro morto, forse addirittura sepolto nella stessa discarica.

Quanta paura e quanti misteri. Fra i dubbi piu' allarmanti e' che anche i veleni maledetti di Seveso siano sepolti qui e anche quelli dell'Acna di Cengio, citata spesso nelle intercettazioni fra tecnici impegnati a Pitelli com'e' dimostrato a pag. 54 dei verbali giudiziari. Qualche pagina prima si parla anche dei prodotti rumeni, una conferma dalle confidenze che abbiamo raccolto fra gli investigatori. Tra i fusti ritrovati ci sarebbero infatti documenti scritti in "varie lingue europee", anche in cirillico. Dunque l'incubo del nucleare. Quello che nasconde la collina della vergogna lo stabilita' il collegio di periti nominato dal tribunale ligure. Certamente a Pitelli, la discarica della vergogna, sono gia' stati rinvenuti piu' di cento fusti tossici. C'e' di tutto, anche una vernice utilizzata esclusivamente per uso militare, per oscurare i radar. Ma c'e' soprattutto (lo ha gia' stabilito un laboratorio di Zurigo) la diossina come confermano il magistrato di Asti che ha aperto l'inchiesta, Luciano Tarditi, e il capo degli investigatori della Forestale che svolgono le indagini, Francesco Dellana del corpo forestale di Brescia.

Associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale. Ecco la richiesta di rinvio a giudizio che ha portato a tredici arresti e quaranta indagati. Ci sono dirigenti Usl, geologi della Regione, funzionari civili del ministero della Difesa e due ammiragli.

Un'inchiesta amministrativa parallela, condotta dal pm spezzino Massimo Scirocco, ricostruisce contemporaneamente in 113 pagine la storia di concessioni illegittime, firme false, progetti scomparsi e abusi non perseguiti relativi a Pitelli. Sotto accusa Regione e Comune, da studiare le posizioni di quasi tutti i sindaci che si sono succeduti alla Spezia dal 1979 ad oggi. Gli atti sono poi passato sul tavolo di Silvio Franz il magistrato spezzino che ha avuto in eredita' l'inchiesta da Asti.

Secondo i verbali delle intercettazioni, i magistrati ipotizzano la presenza di una sorta di comitato d'affari che avrebbe gestito tutti i traffici illeciti. Dentro ci sarebbero faccendieri, esponenti della camorra e della mafia, attraverso legami e sofisticate intersecazioni societarie, come denuncia l’avvocato Roberto Lemma di Legambiente.

Nell'agenda di uno degli indagati figurano anche il nome e i numeri di telefono di un personaggio certamente inquietante perche' al centro di mille affari, "Chicchi" Pacini Battaglia. Sono stati trovati nello studio di Romano Tronci, gia' sentito dal pool da Mani Pulite nell'ambito dei finanziamenti illeciti ai partiti e stretto collaboratore di Orazio Duvia, l'imprenditore spezzino ritenuto il re delle discariche, salito alla ribalta delle cronache nazionali perche' un giorno prelevo', attraverso sua figlia, dalla banca davanti all'ufficio tre miliardi e ottocento milioni in contanti, segno di grande liquidita'. Un patrimonio che il gip Diana Brusaca' ha sequestrato perche' sospetto frutto di attivita' illecite, decisione confermata dal Tribunale del riesame. Orazio Duvia, ora in liberta' dopo un mese di carcere, ha gestito per anni la discarica di Pitelli.

A Pitelli, in attesa dei risultati delle analisi, gli scavi per ora sono bloccati. La discarica non aprira' piu', perche' il consiglio regionale ne ha deciso per la fine di marzo la chiusura. Ma intanto nel paese la gente ha paura e se la prende con tutti. Una paura che s’infila nei carobi, i vicoli di Pitelli, duemila abitanti, una volta un posto sereno, senza problemi.

E se c'e' un paese che chiede la chiusura di una discarica, ce n'e' un altro che chiede con forza di non aprirla. Da un anno gli abitanti di Aulla, in Toscana ma solo a trenta chilometri dalla Spezia, lottano con un presidio e con una mitragliata di denunce contro l'apertura di Ca' Gaggino, a ridosso del deposito della marina militare e di un deposito della Nato. Hanno gia' inviato esposti a quattro procure, fra cui quella militare. Un'altra storia, di cui ci occupiamo poiche' c'e' un aspetto che la lega potenzialmente a Pitelli. Fra le decine di societa' che direttamente o indirettamente portano al gruppo Duvia ce ne sono alcune lontane, nel sud, ma altre vicine. Tre proprio ad Aulla dove hanno l'appalto per la raccolta dei rifiuti. Non solo. Nel '95, secondo il comitato, un'azienda di cui era socio uno degli indagati per la discarica di Pitelli avrebbe acquistato i terreni destinati alla discarica del Tuffolo, preferita a quei tempi a Ca' Gaggino. Evitiamo le complicatissime diatribe tecniche. Superando le polemiche l'assessore all'ambiente della provincia di Massa e Carrara ci presenta il progetto, sicuramente all'avanguardia, di Ca' Gaggino, e tranquillizza ufficialmente la popolazione sull'uso della discarica, secondo le decisioni prese all'unanimita' dal consiglio provinciale e accettate dalla conferenza dei sindaci della Lunigiana.

Torniamo da dove siamo partiti. Dal golfo dei poeti e dalla grande paura. Sono almeno dieci le procure italiane, coordinate dalla procura nazionale antimafia, che stanno indagando su questa zona, la costa a meta' fra Liguria e Toscana, considerata un vero e proprio crocevia di rifiuti tossici verso i paesi della cooperazione. In un appunto ritrovato dai genitori sul taccuino di Ilaria Alpi c'era scritto "sei navi". Le navi dei veleni. La giornata del Tg3, prima di essere uccisa, intervisto' il sultano del Bosasa che gestisce quel tratto di costa somala individuato come uno dei dodici siti preferenziali per lo scarico dei rifiuti tossici dalla ditta Comerio. Grandi misteri che s'intrecciano con il traffico di armi che segue spesso le stesse vie. Nei verbali del rinvio a giudizio di Duvia c'e' l'intercettazione di una telefonata fra due tecnici di Pitelli, Roberto Cozzani e Luca Galli, che a proposito di triangolazioni citano la Oto Melara. Ma soprattutto agli atti ci sono le prove di un traffico illegale e sistematico di rifiuti secondo le dichiarazioni di tre testi definiti per sicurezza solo A. B e C. Traffico sistematico.

Nel gennaio del 1990 un comandante della marina mercantile inglese segnalo' a Greenpeace che il molo 7 di La Spezia era ormai conosciuto in tutto il mondo come "the toxic berth" il molo dei veleni, punto di carico di rifiuti tossici diretti verso l'Africa. In un dossier presentato da Legambiente in un'assemblea pubblica sono ricostruite le rotte delle ventitre' navi dei veleni scomparse nel Mediterraneo. Molte sono passate o addirittura partite dalla Spezia.

La storia sciagurata dei veleni comincia esattamente dieci anni fa, nel giugno del 1987 quando alla Spezia sono imbarcate 200 mila tonnellate di rifiuti tossici, destinazione Guinea Equatoriale.

Nello stesso periodo la Rigel partita dalla vicinissima Marina di Carrara per l'ultimo viaggio, affonda il 21 settembre davanti alla costa campana. Venti persone sono processate per naufragio doloso.

E poi la Radhost, la Latvia, e la "Jolly Nero", tutte partite tra gennaio e ottobre del 1988 per l'Africa.

Il 18 gennaio del 1989 direttamente da Beirut attracca la "Jolly Rosso" con un carico di 4000 bidoni. Per quattro anni e mezzo il materiale tossico e' stoccato alla Spezia poi il 9 luglio del 1993 riparte.

Il capitano di corvetta Natale De Grazia, 39 anni, consulente tecnico del pm reggino Francesco Neri, parte il 12 dicembre dell'anno scorso con l'incarico di interrogare proprio l'equipaggio della Jolly Rosso ma alla Spezia non arrivera' mai. L'ufficiale ha un malore durante il viaggio. L'autopsia, eseguita una settimana dopo il decesso e dietro presioni dei magistrat, non conferma l'ipotesi dell'infarto.

Il 5 marzo del 1994 arriva alla Spezia dal Libano la "Jolly Rubino" con materiale ferroso proveniente dall'ex unione sovietica, con destinazione Sudafrica. In otto containers e' misurata una radioattivita' di 600 bequerel. Sessanta di quei fusti tossici andranno poi in Austria dopo il transito in Sudafrica.

Il 21 ottobre del 1995 fa breve scalo alla Spezia la Koraline prima di Algeri e Marsiglia. Riparte il 5 novembre con 285 containers. E' l'ultimo viaggio. La mattina del 7 novembre affonda fra Ustica e Trapani per un falla. Nei containers anche uranio 238.

Il 9 dicembre del 1995 la nave russa "Vjacheslav Shishkov" attracca proveniente dalla Tunisia. Riparte il 12 dopo aver sbarcato containers dove sono trovate tracce di Cesio 137, materiale altamente radioattivo.

La storia non e' finita. Soltanto un mese fa i doganieri spezzini scoprono al porto un vasto traffuco con i paesi del terzo mondo di "Algofrene 12", un gas nesso al nando dall'Onu perche' considerato uno dei principali killer dell'ozono.

L'interrogativo principale che deve sciogliere l'inchiesta e': la discarica di Pitelli era un punto di arrivo o semplicemente un passaggio o addirittura la partenza dei containers con i rifiuti tossici? Certamente da questo stupendo golfo o dai porti della vicina costa toscana sono partite quasi tutte le cosidette navi dei veleni. (pino scaccia)



Fanno rotta verso l’Africa, cariche di rifiuti altamente tossici. Le navi dei veleni continuano a trasportare i loro immondi carichi. Lo ha reso noto il magistrato Luciano Tarditi, intervenendo a Roma a un convegno organizzato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso collegate. Oggi come ieri, la Somalia è una delle mete. Anche se non l’unica, pare. Intrighi internazionali, collegamenti con traffici d’armi, dubbie operazioni finanziarie: per far piena luce su queste vicende stanno lavorando diverse Procure italiane, tra cui quelle di Reggio Calabria, Torre Annunziata e Asti. Altri scandali si aggiungono a quelli che nel recente passato hanno caratterizzato gli interventi della Cooperazione italiana, che proprio nel Corno d’Africa ha sperperato miliardi in progetti finti o inutili. Il problema dell’inadeguatezza delle norme: "Perseguire i trafficanti di rifiuti", dice Tarditi, "è oggi molto difficile. Non possiamo autorizzare intercettazioni telefoniche né arrestare nessuno, neppure se colto sul fatto".
Solcano ancora le acque del Mediterraneo. Fanno rotta verso l’Africa, le stive ingombre di carichi immondi. Le "navi dei veleni" continuano ad essere una triste realtà. Lo ha reso noto Luciano Tarditi, uno dei magistrati che stanno indagando su questi traffici. "Ci sono imprenditori italiani che hanno risolto così il problema dello smaltimento dei loro rifiuti", ha affermato il 10 marzo, intervenendo in un convegno a Roma organizzato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse. "Si tratta di rifiuti tossico-nocivi e anche, all’occorrenza, di rifiuti radioattivi", ha precisato Tarditi, sostituto procuratore ad Asti.

Oggi, in Italia solo il 15 per cento circa dei rifiuti viene smaltito a norma di legge. Il resto finisce in discariche abusive, è interrato o gettato di nascosto in fiumi e laghi. In Italia. O all’estero. Stando a valutazioni attendibili, questo business "nero" frutta tra i 2 e i 6 mila miliardi di lire. Una delle mete era e potrebbe tuttora essere la Somalia. Nell’agosto 1992, Mustafà Tolba, segretario dell’Unep, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’ambiente, lancia l’allarme più clamoroso: "Ditte italiane scaricano rifiuti tossici in Somalia. Non posso fare nomi perché abbiamo a che fare con la mafia, metterei a repentaglio la vita di molte persone". Una dichiarazione rilasciata a freddo. Dopo settimane di silenzio, Mustafà Tolba aggiunge: "Un contratto tra due industrie europee e la Somalia per il trasporto annuale di circa mezzo milione di tonnellate di rifiuti tossici in questo Paese è fallito. L’Unep è soddisfatta perché ha evitato una tragedia ambientale".

Cos’è successo? La denuncia di Tolba spezza una fitta rete di operazioni finanziarie e di contatti che si andava costruendo da tempo. Nel maggio 1991, il ministro della Sanità somalo, Nur Elmi Osman, e il governatore della Banca centrale, Alì Abdì Amalò, entrambi della fazione di Ali Mahdi, in quel momento a Roma, si fanno stampare delle cambiali da scontare in cambio di medicinali da inviare in Somalia. Vengono contattate alcune imprese italiane con la richiesta di agevolare il pagamento degli effetti firmati da Nur Elmi Osman e avallate dalla firma del governatore della Banca centrale somala. L’ammontare complessivo dei finanziamenti richiesti sfiora i 13 miliardi di lire. Le cambiali vengono intestate e dichiarate pagabili alla società Finchart. L’operazione alla fine fallisce per ostacoli burocratici, ma lascia aperti inquietanti interrogativi. Com’è possibile spedire medicinali in una nazione dilaniata dalla guerra civile, con il porto di Mogadiscio inutilizzabile? Come avrebbero pagato i somali, se i fondi del Governo sono congelati nelle banche italiane a causa della guerra? Come può la Sace (l’organismo del ministero del Commercio con l’estero italiano che assicura le operazioni delle imprese italiane all’estero) farsi garante dell’operazione? Si può pagare in altro modo, magari "in natura", offrendo per lo smaltimento di rifiuti tossici l’uso del territorio controllato da Ali Mahdi, che in quel momento ha bisogno di risorse economiche e materiale bellico per rovesciare finalmente le sorti della guerra.

Infatti qualche mese dopo, Jagiswar Singh, indiano di nascita e svizzero di adozione, viene incaricato di reperire una banca o un istituto finanziario disposto a effettuare l’operazione di sconto delle cambiali della Finchart. Singh trova la svizzera Achair & Partners che si dice disposta a provvedere al finanziamento, ma chiede in cambio una concessione per smaltire rifiuti in territorio somalo. Si firma un contratto. Il 5 dicembre 1991 la Achair & Partners è autorizzata a costruire un Centro polifunzionale per il trattamento, incenerimento e smaltimento di rifiuti ospedalieri e industriali di tipo speciale e tossico. In attesa della costruzione del Centro, recita il contratto, i rifiuti saranno immagazzinati nell’area prescelta per un volume annuale di 500 mila tonnellate. Il gioco è fatto. I somali mettono il territorio e possono ottenere le armi per combattere, in cambio devono accettare i rifiuti. La società svizzera indica in un altro italiano, Marcello Giannoni, il cervello dell’operazione. Giannoni è procuratore della Progresso srl, costituita a Livorno il 9 gennaio 1992, che all’epoca ha come presidente Awais Nur Osman, ministro del Commercio estero somalo, lo stesso che, nel novembre 1991, ha dato mandato proprio a Giannoni di trovare sui mercati internazionali finanziamenti a medio e lungo periodo finalizzati alla realizzazione di progetti industriali da insediarsi sul territorio somalo. Nell’agosto e nel settembre 1992, Mustafà Tolba parla. Il business sfuma.

Le denunce contro i malaffari che hanno per epicentro la Somalia invece si moltiplicano. Il 25 novembre 1992 Piero Ugolini, funzionario della Cooperazione italiana, in Somalia nella seconda metà degli anni Ottanta, presenta un dettagliato esposto-denuncia. Nell’ottobre 1993 Franco Oliva (nella foto), anch’egli esperto della Cooperazione italiana, torna a Mogadiscio dopo esserci stato nello stesso periodo di Ugolini. Vi rimane una ventina di giorni appena, giusto il tempo di rilevare alcune irregolarità e di venire gravemente ferito in un misterioso agguato. Diverse Procure italiane indagano sulle scandalose attività della Cooperazione. Viene costituita anche una Commissione bicamerale di inchiesta che lavora tra il 1994 e il 1996 puntando l’attenzione, per quel che riguarda la Somalia, soprattutto sulla flotta di pescherecci della Shifco (sei navi, un dono dell’ordine di oltre 70 miliardi fatto dalla Cooperazione italiana alla Somalia; il sospetto è che le imbarcazioni siano servite a trasportare armi).

E oggi? Indicazioni che la Somalia è ancora al centro di un possibile traffico di rifiuti arrivano dall’Olanda, sede di Greenpeace International. Alcuni mesi fa, l’associazione è contattata da ufficiali del Governo dello Yemen, che segnalano lo spiaggiamento sulle loro coste, soprattutto nella zona orientale che si affaccia sul Golfo di Aden, in corrispondenza della costa somala, di decine di barili carichi di sostanze non meglio identificate. Già in passato, sempre in quella zona, erano stati denunciati episodi di scarico in mare di bidoni sigillati. L’11 novembre 1995, poi, un altro episodio viene segnalato alle competenti autorità dell’Onu e dell’Organizzazione mondiale della Sanità da un organismo non governativo a Bosaso. La Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti ha scritto di recente: "Si è accertata l’esistenza di attività di trivellazione e inabissamento in mare di container, al largo della costa nord-orientale della Somalia". Anche nel Sud, a Merca, nell’estate 1993 si arena una nave con a bordo i sette membri dell’equipaggio morti in circostanze oscure, vittime forse di esalazioni emanate dal carico trasportato. Nel gennaio 1996, d’altronde, Giancarlo Marocchino, un imprenditore italiano da tempo in Somalia, davanti alla Commissione parlamentare sulla cooperazione aveva affermato di avere notizie sullo scarico di rifiuti radioattivi nel Nord del Paese. Marocchino, però, è stato indicato da altri testimoni come l’intermediario per accordi finalizzati al trasporto in Somalia di rifiuti tossici provenienti dall’Europa. Sospetti, notizie, intrighi. Nel tentativo di fare piena luce stanno lavorando diverse Procure italiane, tra cui quelle di Reggio Calabria, Torre Annunziata, Asti. L’inchiesta di Reggio Calabria, in particolare, parte dall’affondamento, il 21 settembre 1987, della motonave Rigel al largo di Capo Spartivento. Una soffiata e alcune intercettazioni telefoniche mettono i magistrati sulle tracce di un possibile traffico di rifiuti tossici e radioattivi. L’inchiesta si allarga: nel dicembre del 1990 la nave Rosso, ex Jolly Rosso già coinvolta nel traffico dei rifiuti, si incaglia a Capo Suvero. Nel ’96 l’inchiesta passa alla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Alla Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti il pm Alberto Cisterna dichiara che alcuni personaggi legati alle cosche ioniche della provincia di Reggio Calabria, in parte residenti in territorio tedesco, sono cointeressati all’attività di società tedesche che già figurano nei libri contabili e nelle documentazioni acquisite nel corso delle indagini sull’affondamento delle navi. Un collaboratore straniero, inoltre, collega l’affondamento delle navi cariche di rifiuti a un traffico di armi sbarcate in Calabria e destinate alle cosche dell’Aspromonte. Tra lo Ionio e il basso Adriatico si sarebbero nel tempo inabissate 32 navi. Sono in corso operazioni di ricerca della Rigel, coordinate dall’Anpa, Agenzia nazionale protezione ambiente. Al vaglio degli inquirenti delle varie Procure si susseguono episodi e personaggi in parte noti e in parte no. Ad esempio, chi è davvero Guido Garelli, un pugliese di 54 anni dalle molteplici identità e mestieri, segnalato nell’Amministrazione territoriale del Sahara controllata dal Fronte Polisario, quindi in Somalia a proporre vendite d’armi, e ancora a Nairobi, in Kenya, per sottoscrivere (24 giugno 1992) un accordo di natura economica con altri due italiani, tra cui Marocchino.

"Combattiamo a mani nude contro i carri armati", conclude Tarditi. "Occorre introdurre nuove figure di reati e inasprire le pene. Perseguire i trafficanti di rifiuti è oggi molto difficile: non possiamo autorizzare intercettazioni telefoniche né arrestare nessuno, neppure se colto sul fatto. Il traffico di rifiuti è attualmente un reato che cade in prescrizione in quattro anni e mezzo".

Barbara Carazzolo, Alberto Chiara e Luciano Scalettari

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