fuga nell'europa della formazione e dei conflitti sui saperi, fuori dai "parametri"
delle accademie per il reddito e l'autoformazione
C’è una cosa che più di altre ci rincorre ossessiva da quando siamo ribelli nelle università italiche: equiparazione, allineamento, “stare al passo” con i modelli formativi europei. O meglio le nostre università sono indubbiamente in grado di fornire strumenti culturali validi ma improduttivi, i laureati sono pochi rispetto ai partner europei, velocità, funzionalità e flessibilità devono, al pari dell’Europa, diventare i criteri orientativi del sistema formativo italiano.
Dal libro bianco di Delors, per tutti gli anni novanta, una pedante illusione riformistica ha perseguito con convinzione un tentativo di connessione e di sincronia tra mondo del lavoro (new-economy e economia dei “beni relazionali”) e processi formativi. Va da se che si è trattato per la maggior parte di un asservimento ambiguo e mal riuscito. Il 3+2, in particolare il triennio, ventilate come le soluzioni vincenti per un’università seriamente al passo con un mercato del lavoro flessibile, centrato sull’innovazione e sulle competenze comunicative, già most r ano le prime falle: troppi corsi triennali poco frequentati, specializzazioni ancora incerte. Inutile dire poi che l’inseguimento forzato di “chi” procede sulle gambe della creatività, della mobilità, del cambiamento continuo dei paradigmi epistemici e tecnologici, dell’impreve dibilità delle relazioni , del problem solving cooperativo, o meglio il modo di produrre contemporaneo, non è per nulla destinato al successo. Si profila già da tempo un rischio tutt’altro che irrealistico: precarietà e obsolescenza delle competenze!
1. Sconvolta e trasformata da questa illusione riformistica è stata l’università europea e non solo quella italiana, con tempi e modalità indubbiamente diversi, mettendo in gioco modelli non del tutto coincidenti ma filosofie simili, spesso omogenee. L’Italia, come sappiamo è arrivata tardi e male equipaggiata, con una spesa pubblica ridotta all’osso (non sappiamo se sia facilmente traducibile il buono scuola pubblico che destiniamo a quelle famiglie desiderose di mandare i propri figli a scuole private, per la maggior parte cattoliche) e con un modello sociale e culturale che continua a fare degli studenti o dei piccoli parvenu in cerca di professione o dei quattrocchi oziosi, parassitari e ri belli, entrambi comunque a ricasco delle proprie famiglie, senza reddito autonomo, senza servizi.
Sono quindi assolutamente disomogenee le forme di vita, le trame di immaginario, le condizioni materialissime, degli studenti europei: da una parte le aree nord europee dove difficilmente si rimane fino a trent’anni a casa da “mammà” per concludere gli studi, dove si ha per la maggior parte un reddito, servizi dignitosi, sostegno alla ricerca, dall’altra l’Italia e la Spagna dove le cose assumono tinte assolutamente diverse.
In via di progressiva uniformazione i profili didattici, tempi di studio, modalità d’apprendimento, con i limiti già sopra accennati per l a “via italiana alla riforma”: licealizzazione dei percorsi universitari, dismissione di saperi critici e generali. Elemento indubbiamente centrale e tutt’altro che negativo delle modalità di insegnamento e conseguentemente di apprendimento e di ricerca in gran parte delle università nord europee, forse meglio non italiane, e il ruolo preminente assunto dalla comunicazione, dalla produzione (e non solo dalla trasmissione) cooperativa di sapere, dalla dinamicità relazionale tra studenti e docenti e tra gli studenti tra loro. Preminenza del seminario sulla lezione, della pratica laboratoriale, dell’elaborazione continua di materiali scritti, della rela tiva autogestione di per corsi di ricerca. Questo a volte assume i toni dequalificanti di un sapere privo di solidi strumenti teorici generali e di fondo ma costituisce indubbiamente un’etica avanzata non solo dell’apprendimento ma dell’agire di concerto e del produrre cooperativamente, elementi fino a adesso completa m ente assenti nell’ingessato panorama accademico italiano.
2. Se quest’idea ricorsiva della comparazione europea ci ha inseguito negli echi apologetici degli accademici riformatori o nelle fortunate esperienze Erasmus di alcuni di noi, è nostra intenzione, adesso, dare vita a un’anomala quanto inedita università europea, costituita dalle relazioni, dagli immaginari, dai saperi e dai conflitti dei gruppi che nelle università d’Europa sperimentano nuove forme di ricerca e di cooperazione. Di quei gruppi, cioè, che fanno delle lotte sul sapere e sul reddito nuovi modi di abitare non solo le università ma le capitali europee e i loro conflitti. Crediamo infatti che la possibilità di costruire un’Europa politica dei movimenti risieda nella capacità di fare in primo luogo dell’Europa uno spazio di libera circolazione dei saperi e della ricerca, un luogo dove ci sia reddito per chi vive nei flussi della formazione permanente.
Per in i ziare a fare esto vorremmo provare a costruire assieme a altri una Libera Università Europea che abbia come atto di inizio una tre giorni dove ricercatori e studenti provenienti da Madrid, Malaga, Berlino, Parigi, Lubiana, Copenhagen, Helsinki, Londra si incontrino all’università La Sapienza di Roma nella sua Facoltà di Fuga con i gruppi di studenti e ricercatori italiani che poco hanno a che fare con le euforie riformistiche e che vogliono un reddito per vivere e studiare. Questo incontro lo immaginiamo anche come un primo passo per dare vita a un nuovo modo di relazione tra gli studenti europei, a una sorta di Erasmus autonomo e permanente che sia costitutivo di una nuova prassi di ricerca e di autoformazione nello spazio europeo e produca i nessi per la costit uzione di conflitti comu ni intorno ai saperi.
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