articolo tratto da il manifesto del 16 maggio
Incredibile Argentina Il più votato al primo turno diserta il ballottaggio, una scelta mai vista che cancella Menem e lancia il grigio Kirchner alla guida di un paese nei guai. Nessuna festa, Plaza de Mayo è vuota, solo i «piqueteros» in piazza nel giorno del neo-presidente MAURIZIO MATTEUZZI INVIATO A BUENOS AIRES L'effetto Le Pen lo si era giá visto in Francia nelle elezioni che segnarono il trionfo plebiscitario di Chirac l'anno scorso. Ma la rinuncia al ballottaggio del candidato piú votato nel primo turno è qualcosa che non si era mai visto prima, probabilmente nel mondo. Un altro dei paradossi della «impossibile» Argentina di sempre. Come lo era del resto il primo posto di Carlos Menem - il responsabile principale della tragedia economica e sociale in cui si dibatte questo paese da almeno tre anni - nel primo turno elettorale di domenica 27 aprile. Menem che a 72 anni faceva dell'immagine di macho una delle sue carte vincenti per l'Operazione Ritorno - perfino l'annuncio della sorprendente gravidanza della moglie cilena a pochi giorni dal voto era apparsa fin troppo tempestiva - é scappato come un coniglio di fronte a una sconfitta certa, lui che si vantava di «non aver mai perso un'elezione». Doveva scegliere, come l'aveva provocato il suo mortale nemico Eduardo Duhalde (fratelli coltelli peronisti), fra «una sconfitta per ko o per abbandono». Ha scelto un livido e vendicativo abbandono dopo quelle che un giornale ha definito le «36 ore di un carnevale decadente», un altro «uno dei giorni piú insopportabili che si ricordino nella storia politica argentina» e il neo-presidente Nestor Kirchner «un'estorsione irresponsabile» ai danni del paese. Ha salvato i connotati - rifatti dal lifting - ma ha perso la faccia.
Dopo quel carnevale decadente e scippati del voto di domenica, gli argentini si sono risvegliati ieri mattina né ottimisti né scettici, né vincitori né sconfitti. E neanche troppo speranzosi perché la paura fa novanta e la storia di scontri, furbate e tradimenti di cui il peronismo ha fatto sfoggio nella storia politica argentina consiglia massicce dosi di prudenza. Anche se sono cadute bene alcune dichiarazioni a caldo del neo-presidente, come l'omaggio reso alle lotte popolari degli anni `70 e ai desaparecidos, o come la sottolineatura che la fuga di Menem era funzionale agli interessi di certi gruppi e settori ben identificati del potere economico e il suo impegno di non convertirsi in ostaggio delle grandi corporazioni.
Peró questo non basta a smuovere entusiasmi. La «gente», qui nella giá autunnale e piovosa Buenos Aires e nel resto del grande paese - con l'eccezione di Rio Gallegos, la capitale della provincia patagonica di Santa Cruz, feudo di Kirchner, tremila chilometri giù nel profondo sud argentino -, guarda, ascolta ma non si muove. La tradizionale Plaza de Mayo é vuota, le uniche manifestazioni non sono quelle che di solito accompagnano questi eventi ma quelle dei piqueteros che, Kirchner o non Kirchner, esigono pane e lavoro o, piú semplicemente di non essere condannati a morte.
L'ex governatore di Santa Cruz - al contrario di sua moglie, Christina Fernandez, bella e combattiva senatrice - non é un uomo da suscitare entusiasmi, con la sua vaga somiglianza a Mel Brooks e il suo fare dimesso, la sua aria da amministratore serio ma grigio che lui d'altra parte alimenta. Fino a poco tempo fa, quando il presidente Duhalde lo ha indicato come suo candidato (contro Menem) dopo la rinuncia dei piú brillanti Carlos Reuteman e José de la Sota, governatori di Santa Fe e di Cordoba, in pochi sapevano chi fosse Nestor Kirchner. Una volta uscito dai palcoscenici periferici su di lui si sono intrecciate opinioni diverse: chi l'attacca per avere maneggiato la sua provincia - grande piú di 200mila km quadrati e con non piú di 200mila abitanti ma ricca di risorse petrolifere - come un feudo personale, chi lo elogia per essere riuscito a combinare il rigore di bilancio con forti investimenti pubblici in case, educazione e sanitá.
La giocata sporca di Menem ha impedito a Kirchner di entrare alla Casa rosada il prossimo 25 maggio forte del voto del 60-70% dell'elettorato che tutti i sondaggi gli attribuivano: quasi la stessa percentuale dell'anti-menemismo militante. Quella che Kirchner ha chiamato «l'estorsione irresponsabile» dell'ex presidente peronista-liberista é durata quasi due giorni, prima dell'epilogo annunciato di mercoledí pomeriggio. Un susseguirsi di voci e smentite che hanno portato alle stelle l'inquietudine di un paese a cui non viene data tregua. Martedí mattina Menem - che aveva vinto il primo round con il 24% contro il 22% di Kirchner - ha scatenato uno show della disperazione che in realtá voleva essere uno choc nel tentativo di rovesciare il tavolo e mobilitare i seguaci in fuga per alimentare una delirante riedizione del movimento popolare che il 17 ottobre del `45 liberó dal carcere Juan Domingo Peron e lo catapultó alla Casa rosada.
Menem si mostrava al balcone dell'hotel Presidente, sede del suo comando di campagna, per salutare le masse, peraltro scarse, che lo acclamavano, intanto tutti i suoi spot televisivi tranne uno ("Vamos Menem, vamos!") scomparivano misteriosamente dalle reti tv. Poi mercoledí sera é ricomparso a La Rioja, la sua provincia e il suo feudo, per firmare l'atto di fuga accompagnato da pesantissime e minacciose parole d'accusa. «Nelle attuali circostanze, il paese si é trovato intrappolato in una falsa opzione in cui un'amplissima frangia della popolazione si sente esclusa», ha detto e ancora: «La principale minaccia contro la democrazia in Argentina non proviene piú dall'azione dei nemici del sistema bensí dal pericolo dell'ingovernabilitá». Come dire che Kirchner fará la stessa fine dei De la Rua e degli altri effimeri presidenti che l'hanno seguito. In questo modo Menem metteva la parola fine a una sarabanda grottesca cominciata molto prima dello scontro elettorale con Kirchner e che risale all'odio mortale, e tutto interno al giustizialismo, con Eduardo Duhalde.
Con la sua rinuncia Menem ha firmato il suo suicidio politico. Triste, solitario y final perché Menem era giá stato abbandonato dai suoi uomini e alleati che temevano di essere trascinati nel crollo. Tanto piú cocente per uno che, dopo l'effimera vittoria nel primo turno, aveva detto che il ballottaggio sarebbe stato «una pura formalitá» e di «sentirsi giá presidente». Qui in Argentina é chiaro a tutti che il vero obiettivo della rinuncia di Menem é quello di minare il futuro di Kirchner che da presidente dovrá guidare con il 22% dei voti ottenuti un paese atteso da tempi calamitosi per via dei problemi irrisolti che Duhalde ha solo nascosto sotto i tappeti della Casa rosada.
Dopo che il 27 aprile l'elettorato argentino, per quanto disgustato, ha diviso i suoi voti fra tre peronisti - Menem, Kirchner e Rodríguez Saá - e due candidati di partiti nuovi - Lopez Murphy di centro-destra e Elisa Carrió di centro-sinistra - e alla fine il male minore che doveva scacciare il fantasma del menemismo ha vinto. Ma nel modo peggiore e che sembra perpetuare un'altra antinomia storica da cui l'Argentina non sembra capace di liberarsi: quella del peronismo e dell'anti-peronismo. Ma questa volta c'é una differenza rispetto al passato, che Kirchner e tutti dovranno tenere in conto. Ricordando che pochissimo tempo fa, nel dicembre 2001, in mezzo alla peggiore crisi nella storia di questo paese, la gente é scesa per strada e al suono delle cacerolas della classe media e dei bombos dei piqueteros e dei disoccupati, ha marcato la sua presenza e fatto sentire la sua voce al grido di «que se vayan todos». Per il momento se ne é andato solo uno, che peró era il peggiore di tutti. Gli altri sono ancora lí e il futuro resta del tutto indefinito. Non sará facile per Kirchner togliere dalla testa degli argentini, ormai abituati al peggio che non ha mai fine, il sospetto che una volta di piú saranno ingannati e che «tutto continuerá come prima».
(ha collaborato Mabel Itzcovich)
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