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Storia del conflitto arabo israeliano palestinese
by Giovanni Codovini Monday, Jun. 16, 2003 at 11:12 AM mail:

Intervista all'Autore: Giovanni Codovini - Bruno Mondadori, 2002 Storia del conflitto arabo israeliano palestinese. Tra dialoghi di pace e monologhi di guerra

D. - Scrivere la storia di un conflitto come quello mediorientale, nel quale Lei giustamente identifica tre attori principali, la parte araba, la parte israeliana e quella palestinese, è certamente un impegno non facile. Sappiamo, infatti, quanto l'interpretazione storica delle vicende culturali, religiose e nazionali che si intrecciano in modo sorprendente nella questione mediorientale sia stata influenzata da correnti di pensiero spesso mutevoli. D'altro canto, non può trascurarsi la difficoltà di gestire il rapporto con l'attualità, pervasiva e incombente, la cui lettura subisce il condizionamento di profonde divisioni e pregiudizi. Vuole descriverci la sua esperienza come storico rispetto a tali questioni?

R. - La domanda solleva una questione centrale non soltanto per la ricostruzione della storia e della storiografia del novecento, ma anche per i rapporti tra lo storico e l'urgenza politica dei fatti e degli avvenimenti. Proprio per questa ragione nella seconda edizione del mio libro ho aggiunto un capitolo riguardante l'uso pubblico della storia. Ritengo, infatti, che ci sia l'esigenza fondamentale di rivedere storiograficamente le categorie di interpretazione, la vulgata per così dire, attraverso le quali, tanto da parte israeliana che da parte palestinese, è stato ricostruito il conflitto. Va innanzitutto detto che l'uso pubblico della storia ha rappresentato, sia per la storiografia palestinese che per quella israeliana, una vera e propria clava. In realtà, più che di un uso pubblico della storia si tratta di uso politico della storia. Porto soltanto due esempi per semplificare la questione ed evidenziare come la ricostruzione storiografica abbia inciso sulla politica di entrambe le parti. Esiste un testo della Joan Peters, studiosa americana, uscito negli anni ottanta, che analizza il problema della nazionalità del popolo palestinese e pone la domanda radicale se tale popolo esista o meno. Su questa domanda si sono basate anche le politiche pubbliche all'interno dello Stato d'Israele. In particolare, Golda Meir riprese il tema fondamentale circa l'esistenza o meno di un popolo palestinese. La rilettura della storia del novecento, a partire dal 1917, anno della dichiarazione di Balfour, è stata portata avanti dalla politica e dalla storiografia israeliana sulla base di questa categoria: l'esistenza o meno del popolo palestinese, come arma di legittimazione ovvero di delegittimazione. Sull'altro versante, è sufficiente riferirsi ai testi - ormai sono diventati sacri, quasi una vulgata per la storiografia palestinese - di Edward W.Said, che tra le altre cose è un fine intellettuale palestinese che vive in America, attualmente docente alla Columbia University, il quale pone la questione contrapposta, o meglio, per così dire, rovesciante rispetto a quella della Peters. Egli si domanda se in realtà Israele non sia nato con un vizio di origine fondamentale, cioè con il vizio della violenza imposta attraverso l'espulsione dei profughi, assumendo la questione dei profughi come elemento di divisione fondante tra lo Stato d'Israele e la Palestina. La storia è quindi un terreno di confronto e di grandissimo scontro. Per comprendere la questione dal punto di vista storiografico basti ripensare proprio alla vicenda dei profughi, tutta giocata sui numeri, sulla quale le due scuole di pensiero si dividono. Mentre la storiografia palestinese insiste sui sei-settecentomila profughi espulsi nel 1948, in Israele, al di là del revisionismo storico di cui è interprete Morris nel suo ultimo testo, Vittime, la questione è affrontata con ben altro impegno documentale, dal momento che, ad esempio, non esiste, e nel mio libro lo cito espressamente, un vero e proprio censimento della popolazione palestinese nel 1948. Per il primo censimento bisognerà aspettare il 1993/1994, rilevamento tra l'altro riferito specificamente a Gerusalemme e non a tutto il territorio dell'Autorità Nazionale Palestinese e svoltosi durante le prime ed ultime elezioni da questa organizzate e gestite. IL FATTO CHE MANCHINO I DOCUMENTI SUI PROFUGHI E I CENSIMENTI HA CREATO UNA NOTEVOLE QUERELLE ALL'INTERNO DELLA STORIOGRAFIA. Riporto nei miei studi un rapporto dei servizi segreti israeliani del 1947/48 su un documento importantissimo, che anche Morris cita insieme alla storiografia filopalestinese, riguardante il cosiddetto piano di espulsione di Weitz che parla, invece, di 391.000 profughi. Le quantità sono diverse, insomma, ma su queste si gioca la ricostruzione dell'immaginario collettivo palestinese e israeliano. Propongo un ultimo esempio, che riguarda il ritorno dei profughi palestinesi, per sottolineare come l'urgenza politica si incroci con la difficoltà della ricostruzione storica. Sulla questione del ritorno dei profughi esiste la risoluzione n. 194 dell'ONU. Mentre Israele la interpreta facendo una distinzione, a mio avviso, puntuale, sia dal punto di vista giuridico che storico, tra esiliati, profughi e deportati, i palestinesi, al contrario, accettano soltanto l'idea di un ritorno tout court dei profughi del 1948, sostenendo il ricongiungimento familiare e anche dei discendenti. QUESTO SIGNIFICHEREBBE CHE QUATTRO MILIONI DI PALESTINESI POTREBBERO RIENTRARE IN ISRAELE QUASI VIOLANDO IL PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE NAZIONALE ISRAELIANO. Tale ulteriore esempio evidenzia come anche sui numeri della ricostruzione storiografica si giochi gran parte della polemica politica.
Il compito dello storico in questi casi risulta particolarmente difficile perché ci si trova di fronte ad una mancanza di innocenza che si riflette sulla ricerca documentale. Ho potuto osservare durante la mia ricerca come la stessa sistemazione dei documenti sia avvenuta in base a diverse e presupposte categorie. Ho già riferito relativamente alla questione dei profughi. Ma un altro esempio è illuminante, il modo in cui l'Inghilterra ha gestito il suo mandato dal 1922 al 1947. Anche in questo caso è stato difficilissimo ricostruire - al di là dei vari Libri Bianchi che si sono succeduti nel tempo, a cominciare da quello pubblicato da Churchill - le categorie di interpretazione circa il mandato inglese. Mancando l'innocenza fondamentale nella ricostruzione documentale, ho cercato di incrociare le due vulgate, le due codificazioni.

D. - Il Suo lavoro è articolato in sei principali capitoli cui segue un notevole contributo di documentazione. Il punto di partenza è l'origine della questione arabo-israeliana. Lei scrive, proprio in apertura, che non è esatto riferirsi a quella del 1948 come unica spartizione della Palestina e affermare che Israele sorse su gran parte di essa. Data l'importanza che il tema dello spazio e del territorio riveste in questo conflitto, definito in altra parte del libro come il più geografico dei conflitti, caratterizzato da un'inflazione di frontiere, vorrebbe spiegare ai nostri lettori il peso della questione territoriale nello sviluppo della vicenda mediorientale?

R. - La mia affermazione ha come punto di partenza la prima e originaria spartizione del territorio della Palestina, di cui dirò, che è la dichiarazione di Balfour. Il dato di fatto è che, rispetto a quella dichiarazione, al territorio allora considerato e ai diversi progetti, che poi magari citeremo, allora elaborati, il territorio poi accordato allo Stato d'Israele nel 1948 è più ristretto. Ma arriviamo al nodo della domanda, perché "il più geografico e geopolitico dei conflitti?". è certamente vero che si è condotta per anni una guerra di mappe, come dice lo stesso Said, e come è anche emerso nei diversi colloqui di pace, da Oslo I in poi, proprio perché la questione mediorientale si gioca sulla mobilità delle frontiere. Questa è una terra stretta, è una terra promessa, anche troppo promessa, è un luogo geografico che i primi sionisti definivano come una terra senza un popolo abitata da un popolo senza terra. Allo stesso tempo è una terra mobile, perché è stata sottoposta a diverse ed artificiali spartizioni, ad iniziare appunto da quella del 1922.
Va ricordato che il 1917 è l'anno mirabilis per la questione arabo-israeliana-palestinese. Tra l'altro, vorrei fare un inciso sul mio metodo di approccio. Nel mio lavoro ho preso in considerazione il cd. "secolo lungo" (che per me non è il "secolo breve") del novecento perché questo elimina un problema fondamentale, quello di evitare di leggere il problema arabo-israeliano-palestinese in termini metastorici o sovrastorici. Il novecento ci permette di leggere tutto secondo lo schema delle relazioni internazionali, valutare cioè la misurabilità geopolitica e geostrategica senza riferimento a nodi teologici, anche se non sono così ingenuo da pensare che il nodo terra-religione non sia uno dei fondamenti della questione arabo-israeliano-palestinese. Leggerlo però secondo quest'ottica farebbe venir meno il termine e, per così dire, la lunga durata geopolitica dello scontro. Nel 1917 il Ministro degli Esteri inglese, Lord Balfour, scrive a Lord Rothschild, che era il Vice Presidente onorario dell'organizzazione sionistica mondiale, una lettera brevissima di cinque, sei righe, ma decisiva, epocale, perché in quella lettera si fa riferimento ad un focolare nazionale ebraico in terra di Palestina, posto però ad una condizione, ossia che fossero garantiti i diritti, in particolare religiosi, delle popolazioni esistenti in Palestina. Nel 1922, alla Conferenza di Sanremo, che segue la Conferenza di Parigi, momento culminante per la ristrutturazione geopolitica della cartina mondiale, si stabilisce una distinzione. Si affida mandato all'Inghilterra e alla Francia, su un territorio che viene denominato Palestina, stabilendo che il terzo più meridionale della Palestina sia affidato all'Inghilterra, mentre la cd. Siria e il futuro Libano vengano ristrutturati secondo il mandato francese. L'Inghilterra ricorrerà nella gestione del territorio ad essa affidato ad un criterio geografico, ossia dividerà la Palestina ad est e ad ovest del Giordano. Facendo riferimento all'articolo sesto del mandato - ma anche alla dichiarazione di Lord Balfour, che venne recepita dalla Conferenza di Sanremo e divenne in questo modo rilevante come documento internazionale - venne creato ad est del Giordano, artificialmente, un emirato transgiordano a capo del quale venne posto Abdullah, mentre il territorio ad ovest venne affidato al futuro stato ebraico. Anche in questo caso, le dimensioni sono diverse rispetto a quelle stabilite nel 1948. Nel frattempo l'Inghilterra faticava molto a gestire i primi flussi migratori ebraici che provenivano dall'Europa in Palestina. Sui flussi migratori bisogna dire qualcosa perché, anche su questo punto, adotto un punto di osservazione diverso, rovesciante rispetto alla codificazione utilizzata dalla pubblicistica italiana nella ricostruzione della questione palestinese. Si parte dal presupposto che in terra di Palestina esistono i palestinesi e gli arabi mentre gli ebrei vi sono entrati togliendo, limitando, circoscrivendo o imponendo limiti alle popolazioni indigene preesistenti. SI TRATTA, A MIO AVVISO,
DI UNA FALSITÀ STORICA IN QUANTO I FLUSSI MIGRATORI VENGONO ORGANIZZATI DETTAGLIATAMENTE E SPECIFICAMENTE ANCHE CON LA COLLABORAZIONE ARABA. Il problema deriva dalla circostanza che non è l'Inghilterra a gestire questi flussi attraverso i vari Libri Bianchi, a cominciare dal già citato di Churchill per arrivare a quello di Mac Donald. CHI GESTISCE IN REALTÀ I FLUSSI SONO I GRANDI PROPRIETARI TERRIERI, I LATIFONDISTI ARABO-PALESTINESI, I CD. "EFFENDI", CHE NON FANNO ALTRO CHE GUADAGNARE DALL'ALIENAZIONE DELLE TERRE CONCESSE AI FLUSSI MIGRATORI EBRAICI. ANCHE QUESTO È UN PUNTO DI OSSERVAZIONE DIVERSO CHE CI DICE MOLTO SULLA SOCIETÀ PALESTINESE, MOLTO CHIUSA, GERARCHIZZATA TRA EFFENDI E AYAN, CHE SONO I MAGGIORENTI DEI GRANDI CLAN TUTTORA ESISTENTI, DAGLI HUSSEIN AI KHALIDI, GRANDI FAMIGLIE CHE TROVIAMO AI PRIMI DEL NOVECENTO E ANCORA OGGI. Anche questo è un punto di vista rovesciante che ci aiuta a capire il problema della necessità e del ruolo degli inglesi e dei palestinesi nella spartizione del territorio, che viene affidato, nel 1924, agli insediamenti dei primi sionisti che, va detto, sono diversi per idee politiche ed estrazione sociale rispetto a quelli che troveremo nel 1933, quando Hitler salirà al potere.
è vero, quindi, che ci troviamo di fronte al più geografico dei conflitti e lo si comprende anche da queste continue divisioni del territorio attribuito all'insediamento ebraico originale. C'è un altro particolare da rilevare e che, a mio avviso, è decisivo per capire la fondatezza di questa affermazione. Nel 1939, nel documento in cui si regola la questione dei flussi migratori, si stabilisce addirittura un limite alla presenza ebraica, determinato in settanta-settantacinquemila ebrei in cinque anni. Si stabilisce, inoltre, che l'Inghilterra sovrintenda a questi flussi e alle alienazioni realizzate dagli effendi e dagli ayan. A ben vedere, quindi, nel 1939 si verifica un paradosso che pochi ricordano. ESISTONO IN QUEL MOMENTO SOLO DUE PAESI AL MONDO CHE NON RICEVONO GLI EBREI: LA GERMANIA E IL MANDATO INGLESE SULLA PALESTINA. Questo la dice lunga sul modo in cui l'Inghilterra ha gestito quel territorio. Arriviamo così all'inizio della seconda guerra mondiale. MENTRE L'INSEDIAMENTO EBRAICO SI SCHIERA APERTAMENTE E CONCRETAMENTE CON GLI ALLEATI, PARTECIPANDO CON UN CONTINGENTE ANCHE ALL'OTTAVA ARMATA, I PAESI ARABI, O MEGLIO, IL GRAN MUFTÌ DI GERUSALEMME HUSSEIN SI SCHIERA CON I NAZISTI, SCELTA MOLTO GRAVE DAL PUNTO DI VISTA STORICO PIÙ CHE GEOPOLITICO. L'ANTISEMITISMO, CHE POI È DIVENTATO ANTISIONISMO, NASCE PROPRIO DA QUESTA POSIZIONE. Tale elemento è, tra l'altro, ancora poco studiato anche perché noi storici ancora non possiamo accedere agli archivi dei paesi arabi. Abbiamo solo fonti "di seconda mano", come lo stesso Morris ha avuto modo di rilevare. CERTO È CHE I PALESTINESI E IL LORO PRINCIPALE RAPPRESENTANTE, IL GRAN MUFTÌ APPUNTO, SI SCHIERANO DALLA PARTE DEI NAZISTI E QUESTO È UN VULNUS FONDAMENTALE, ANCHE PER L'IMMAGINARIO COLLETTIVO DI NOI EUROPEI, E SOPRATTUTTO PER LE POTENZE EUROPEE NELLA RICOSTRUZIONE DEL 1945. Arriviamo così al problema del 1947, quando l'Inghilterra è impossibilitata a gestire i rapporti e si verifica un intervento internazionale fondamentale. Viene cioè costituita una commissione chiamata "UNSCOP" (United Nations Special Committee for Palestine) per dirimere la questione arabo-palestinese-israeliana ed elaborare un progetto di spartizione di quel territorio basato sui modelli precedenti al fine di addivenire ad una divisione del territorio della Palestina, già affidato al mandato inglese, in due Stati: quello israeliano e quello palestinese. LA COMMISSIONE DECIDE E NEL 1947 VIENE EMANATA DALL'ONU LA PRIMA, E FONDAMENTALE, FRA TUTTE LE RISOLUZIONI: LA NUMERO 181. CON QUESTA SI STABILISCE LA DIVISIONE DEL TERRITORIO DELLA PALESTINA CON LA LEGITTIMAZIONE INTERNAZIONALE DELL'ONU: STATO EBRAICO DA UNA PARTE E STATO PALESTINESE DALL'ALTRA. L'AGENZIA EBRAICA, CHE RAPPRESENTAVA GLI INSEDIAMENTI EBRAICI, ACCETTA TOUT COURT QUELLA SPARTIZIONE, CHE PREVEDE L'INSEDIAMENTO SU UN TERRITORIO PIÙ CIRCOSCRITTO RISPETTO A QUELLO STABILITO NEL 1917, MENTRE GLI STATI ARABI LA RIFIUTANO. IL PROBLEMA PALESTINESE NASCE PROPRIO IN QUESTO MOMENTO, È L'EFFETTO, DUNQUE, E NON LA CAUSA, DI QUESTO "GRAN RIFIUTO".

D. - Alla questione del territorio, si collega anche la vicenda dei coloni e più in generale alcune posizioni del movimento sionista.

R. - Certamente anche la questione dei coloni si ricollega al problema dei territori. Da un punto di vista strategico acquista la sua importanza a partire dal 1970, all'interno delle stesse frontiere del 1948. Facciamo cioè riferimento a quei coloni che si trovano in Cisgiordania, che non chiamo Giudea e Samaria secondo il linguaggio di un certo sionismo, che non è quello che ha fondato lo Stato d'Israele. Bisogna distinguere, all'interno del movimento sionista, tra il sionismo socialista, laburista, laico di Ben Gurion e degli stessi Rabin e Peres e il sionismo della destra revisionista di Jabotinski che si muove secondo categorie religiose e attribuisce molta importanza al nodo terra-religione ed è, in qualche modo, possiamo dire, più "fondamentalista". è laico nella visione politica ma rilancia i temi cari all'ebraismo religioso, cioè sostiene che la terra di Israele deve appartenere allo Stato di Israele, in particolare la Giudea e la Samaria, cioè la Cisgiordania, in cui vivono appunto la maggior parte dei coloni. Secondo questa visione, quindi, questi territori spettano allo Stato di Israele originariamente. Questa tesi è sostenuta dall'attuale destra del Likud e, in particolare, dal Gush Emunim che è il braccio politico e secolare dei coloni. Anche la caratterizzazione dei coloni è cambiata dagli anni settanta ad oggi rispetto ai primi grandi insediamenti realizzati, tra l'altro, dal laburismo socialista e non dalla destra israeliana. In realtà, in questa fase ha acquistato molta importanza il nodo terra-religione tant'è vero che i coloni rappresentano strategicamente il cd. "giubbotto antiproiettile" di Israele in quanto si trovano sulla linea del Giordano e in Golan, altro punto strategico fondamentale per Israele dal punto di vista dei rapporti con il Libano e con la Siria, anche per la gestione dell'acqua. è cambiata, quindi, la caratterizzazione di questi coloni e non è un caso che la difficoltà per Israele di procedere al ridispiegamento degli stessi dalla Cisgiordania nasce proprio dall'argomento fondamentale che quel territorio appartiene storicamente ad Israele, non solo perché gli è stato affidato nel 1948, ma anche perché è stato conquistato nel 1967, anno che, come vedremo, rappresenta uno spartiacque per il fondamentalismo sia arabo che israeliano.

D. - Nell'esaminare le quattro guerre arabo-israeliane, l'ultima quella del Kippur del 1973, Lei riferisce che la guerra dei Sei Giorni del 1967 mise in moto il fondamentalismo islamico. è interessante questa considerazione dal momento che molti osservatori ritengono che l'islamizzazione della questione palestinese, insieme alla crescita di movimenti radicali quali Hezbollah e Hamas, sia piuttosto la conseguenza di errori politici, dell'una e dell'altra parte, nell'ultimo decennio. Islamizzazione che rischia di portare allo scontro, senza soluzione di continuità, non solo due nazionalismi ma anche due fondamentalismi. Cosa emerge nel suo studio in relazione a questo processo?

R. - Anche in questo caso siamo in presenza di una strumentalizzazione della questione palestinese, di un uso pubblico della storia da parte dei terroristi e, per esempio, di Bin Laden. La questione palestinese non nasce con un rapporto stretto fra fondamentalismo islamico e rivendicazione nazionale, ma recupera alcune categorie religiose. Su questo però c'è una discussione in corso. Andiamo ad analizzare i documenti e, in particolare, l'atto istitutivo dell'OLP. QUESTA NASCE SOLO NEL 1964 E CIÒ RIPROPONE TRA L'ALTRO IL PROBLEMA DELLA MANCANZA, TRA IL 1917 E IL 1964, DI UN MOVIMENTO NAZIONALE PALESTINESE. LA NASCITA DELL'OLP ANDREBBE INQUADRATA NELL'AMBITO DELLA GUERRA FREDDA PIUTTOSTO CHE LEGGERLA COME VERO E PROPRIO MOVIMENTO AUTONOMO CREATO DA ARAFAT NEL GRANDE ARCIPELAGO PALESTINESE. Tornando all'atto costitutivo, il primo articolo pone il problema dell'esistenza o meno del collegamento tra rivendicazione nazionale palestinese e il punto di vista religioso, se non fondamentalista. Il documento sembra rispondere affermativamente, e non è un caso che uno degli accordi raggiunti nell'ambito di Oslo I e Oslo II riguardava proprio l'eliminazione dall'atto istitutivo dell'OLP dell'obiettivo della cancellazione dello Stato di Israele dalla carta del mondo. Il suddetto primo articolo stabiliva proprio che: "La Palestina è la patria del popolo arabo-palestinese. Essa è parte indivisibile della patria araba" - il riferimento è quindi alla umma araba, alla totalità del mondo arabo, alla fratellanza araba, concetto sovrastorico, teologico e religioso - e il popolo palestinese è parte integrante della nazione araba". Questa è una dichiarazione che riprende proprio il linguaggio religioso dell'islamismo. Si parla di "nazione araba" tout court, cioè di umma araba e il popolo palestinese costituisce un pezzo di quella nazione. Tuttavia bisogna considerare anche la storia concreta dell'OLP e poi Arafat è un uomo pieno di realpolitik, anche troppa, visto che ha anteposto sempre, e questo è un dato di fatto e non un giudizio di valore, l'indipendenza prima e la costituzione dello Stato palestinese poi, come fondamento della propria azione politica. Quindi ha dato la precedenza alla costituzione dello Stato palestinese e non alla costituzione della nazione araba. Non dimentichiamo infatti che dentro l'OLP è stata sempre maggioritaria la linea tendenzialmente marxista dei Fronti nazionali di liberazione dei vari Abu Abbas o Hawatmeh o di Khaddumi e Jibril che hanno sfruttato il filone terzomondista e quindi le rivendicazioni rivoluzionarie piuttosto che quelle statuali. Anche su questo c'è un'ambiguità di fondo di Arafat, tuttora esistente, perché ancora non ha sciolto il nodo fondamentale tra la via rivoluzionaria e quella negoziale statuale. Per rispondere quindi alla domanda e ritornando ai documenti, l'articolo primo di cui parlavo ci fa capire che la questione palestinese non è leggibile senza il contenitore più largo della questione nazionale araba.
Per quanto riguarda la Guerra dei Sei giorni, questa sicuramente ha rappresentato un motore per il fondamentalismo islamico. Con la precedente sconfitta nasseriana del 1956, infatti, e con la sconfitta terribile del 1967 - con la quale Israele ha riconquistato Gerusalemme est, che era della Giordania, e i territori della Cisgiordania, del Golan e del Sinai e della Striscia di Gaza - il nasserismo e la mediazione tra terzomondismo, socialismo, via rivoluzionaria e nazionalismo palestinese crollano e con queste crolla anche il progetto politico sia delle monarchie che delle repubbliche arabe. L'aspetto religioso, quindi, diventa ideologicamente l'unica alternativa. Il fallimento del progetto politico nasseriano e la guerra fredda ricompongono il mosaico dei progetti politici. Il fondamentalismo diventa l'unico elemento di omogeneizzazione, tanto per i palestinesi che per gli arabi, e costituisce l'unico elemento di identità forte rispetto ai diversi nazionalismi. Il 1967 è quindi l'anno in cui il fondamentalismo assume un ruolo importante e così sarà anche negli anni a seguire, a partire dall'assassinio di Sadat negli anni settanta. Ma anche la situazione internazionale inizia a modificarsi, in particolare, tra il 1953 e il 1956. FINO A QUESTA DATA L'UNIONE SOVIETICA AVEVA DATO IL PROPRIO SOSTEGNO AD ISRAELE. RICORDIAMO CHE L'UNIONE SOVIETICA, INSIEME AGLI STATI UNITI, FU UNO DEI PAESI CHE APPROVÒ LA FAMOSA RISOLUZIONE DELL'ONU N. 181. ANALOGO APPOGGIO PROVENNE DA TUTTA LA SINISTRA ITALIANA, IN PARTICOLARE DAL PARTITO COMUNISTA GUIDATO DALL'ALLORA SEGRETARIO PALMIRO TOGLIATTI, CHE SOSTENNE LA NASCITA DI ISRAELE, VISTO ANCHE COME IL PRIMO PAESE COOPERATIVISTICO, COMUNITARIO CHE SI STRUTTURAVA NEI KIBBUTZ. LO STESSO SI PUÒ DIRE PER LA CECOSLOVACCHIA CHE SOSTENNE CONCRETAMENTE, MILITARMENTE, STRATEGICAMENTE E LOGISTICAMENTE ISRAELE NELLA PRIMA GUERRA ARABO-ISRAELIANA. EBBENE, A PARTIRE DAL 1953 L'UNIONE SOVIETICA SI SCHIERA APERTAMENTE A FAVORE DI NASSER, DELL'EGITTO E DEL TERZOMONDISMO IN CONTRAPPOSIZIONE AGLI STATI UNITI.

D. - Se bene comprendiamo la sua interpretazione, con la guerra dei Sei Giorni si crea una base comune che in qualche modo sostituisce l'ideologia religiosa al fallimento dell'ideologia politica. è dunque ipotizzabile che la successiva maggiore presa del fondamentalismo si ricolleghi in modo diretto ad altri eventi, quali ad esempio la rivoluzione di Khomeini in Iran, che rafforza gruppi come Hezbollah e Hamas. Questa posizione più radicale, che nasce successivamente e si muove in relazione alle esigenze politiche dei diversi paesi arabi, sembra quindi l'unico terreno di coesione che sopravvive alla crisi politica.

R. - Esattamente così. Porto alcuni esempi per spiegare ancora meglio questa tesi. Il canone religioso costituisce l'unico elemento di identità ed omogeneità non solo per le grandi masse diseredate ma anche perché mette insieme opzioni politiche diverse, il bathismo di Saddam o quello siriano di Assad con la monarchia hascemita. Altro elemento importante: l'aspetto religioso rimane l'unico punto di coesione arabo-palestinese anche a causa dell'ambiguità di alcuni paesi arabi nei confronti della questione palestinese e in particolare dei profughi palestinesi. MI RIFERISCO, IN PARTICOLARE, AL PROBLEMA GIORDANO, AL QUALE SI RICOLLEGA SETTEMBRE NERO, la spedizione in Libano o meglio la cd. Pace in Galilea di cui Sharon sarà l'interprete principale, e così via. In Giordania troviamo un elemento di ambiguità di fondo. Bisogna, infatti, ricordare che soltanto nel 1986 la Giordania dichiara ufficialmente l'abbandono totale del progetto della costituzione di uno Stato giordano-palestinese. Già nella divisione del 1948 si era evidenziato lo scetticismo giordano nel partecipare alla prima guerra arabo-israeliana visto che i territori in possesso della Giordania erano quelli del futuro Stato palestinese. NON VA DIMENTICATO, PRIMA DEL 1986, IL VERIFICARSI DEGLI AVVENIMENTI DEL SETTEMBRE NERO, QUANDO RE HUSSEIN DI GIORDANIA, DETTE L'ORDINE DI UCCIDERE, SECONDO FONTI ONU, CIRCA SEIMILA PALESTINESI CHE COLÀ RISIEDEVANO, EVENTO DAL QUALE DERIVÒ L'ORGANIZZAZIONE TERRORISTICA DENOMINATA APPUNTO "SETTEMBRE NERO" CHE PORTÒ AL TRAGICO ATTENTATO ALLE OLIMPIADI DI MONACO E, TRA GLI ALTRI, ANCHE A QUELLO DI FIUMICINO NEL 1972. Questi sono dati importantissimi per ricordare e comprendere le ambiguità delle diverse posizioni in gioco. Infine vorrei fare una precisazione storica. Hezbollah e Hamas nascono dopo gli anni '70, ma precedentemente esistevano i Fratelli Musulmani che rappresentano la base e il riferimento ideologico di queste organizzazioni successive. Tanto è vero che saranno proprio i Fratelli Musulmani ad organizzare l'assassinio di Sadat, il quale fu il grandissimo leader e statista arabo che avviò le relazioni con Israele e per primo firmò la pace con lo Stato ebraico a Camp David riottenendo il Sinai. A questo proposito vorrei fare un'ultima annotazione. Si parla tanto della difficoltà della destra israeliana ad accettare lo Stato palestinese, ma ricordo che gli accordi di Camp David furono firmati da Begin, cioè dal Likud, e ricordo che Wye Plantation del 1998 fu firmata da Netanyahu, quindi sempre dalla destra.

D. - Nel Suo lavoro, fa risalire ai primi anni settanta l'orientarsi della politica dei gruppi palestinesi, anche interni all'OLP, verso il terrorismo. Quali convinzioni ha tratto, dall'analisi storica e documentale, della simbiosi questione palestinese e terrorismo? In particolare, come può influire l'undici settembre sulla situazione palestinese?

R. - Iniziamo analizzando storicamente il rapporto tra terrorismo palestinese e metodo terroristico. Sappiamo che negli anni settanta l'arcipelago palestinese è frammentato. Arafat già da allora ha difficoltà ad imporre una superiore unità politica alle diverse aspirazioni palestinesi. Ma esiste un altro dato di fatto storico: l'ispirazione rivoluzionaria marxista presente all'interno della cultura degli anni settanta - terzomondista, rivoluzionaria - che ricorre alla lotta armata. Non dimentichiamo poi tutti i rapporti internazionali, a cominciare da Cuba e dall'Unione Sovietica, e a tutte le alleanze che vengono concluse da Bandung in poi tra i paesi non allineati e il blocco sovietico. Questo è un elemento da considerare. Altro punto è la questione nazionale palestinese, abbandonata per lo più dai paesi arabi, e riproposta da Arafat in termini internazionali proprio attraverso il terrorismo, la lotta armata. E il nostro paese, come crocevia del terrorismo, ne sa qualcosa. Si consideri poi la mancata mediazione dell'Europa tra israeliani e palestinesi in un momento in cui il progetto di creazione di un Europa politica unita stava crescendo, e siamo tra gli anni settanta e ottanta. Anche l'Europa non viene fuori da quell'ambiguità di fondo cui facevamo riferimento precedentemente, perché sostiene la causa nazionale palestinese ma introduce alcuni elementi che peseranno sull'immaginario collettivo, riguardanti il rapporto tra terrorismo e nazionalità, quasi che quest'ultima possa essere considerata una giustificazione al terrorismo internazionale. CIÒ CONFERMA UN ATTEGGIAMENTO GENERALE DI PIÙ LUNGA DURATA: SI È VERIFICATO DA PARTE DELL'EUROPA E, SOPRATTUTTO, DELLA SINISTRA EUROPEA UNA SORTA DI SLITTAMENTO DALL'ORIGINARIO SOSTEGNO ALLA CAUSA ISRAELIANA A QUELLO DELLA CAUSA PALESTINESE. LA RAGIONE È CHE ISRAELE VIENE VISTO DALL'EUROPA COME L'ATTORE POLITICO CHE OCCUPA TERRE LEGITTIME DEL POPOLO PALESTINESE, TANTO È VERO CHE LA COMUNITÀ EUROPEA SI RIFÀ CONTINUAMENTE ALLE VARIE DICHIARAZIONI ONU, MA MAI ALLA PRIMA RISOLUZIONE ONU, LA N. 181, DI CUI ABBIAMO PARLATO ALL'INIZIO, CHE COSTITUISCE LA "MADRE" DI TUTTE LE RISOLUZIONI SOTTO IL PROFILO GEOPOLITICO E CHE RIVELA APPUNTO LA RESPONSABILITÀ DEI PAESI ARABI RISPETTO ALLA MANCATA COSTITUZIONE DELLA STATO PALESTINESE. In questo modo si sostiene l'idea fondamentale alla base del terrorismo palestinese e dei palestinesi moderati, quella che in realtà esista un blocco antipalestinese (costituito da ONU, USA, Israele, Paesi occidentali) che non vuole applicare le risoluzioni legittimamente votate dall'ONU, tra le quali anche la citata 181. Altro elemento storico per capire la frattura del 1967 è che in quell'anno l'URSS è impegnata nella primavera di Praga, come negli anni cinquanta era impegnata in Ungheria, e quindi non vede la questione palestinese come il nodo fondamentale del Medio Oriente. Questo elemento è un ulteriore fattore che ha favorito la nascita del terrorismo internazionale palestinese. Su questo ha avuto un buon gioco comunicativo proprio Arafat che è stato l'uomo capace di recarsi all'ONU con il ramoscello d'ulivo e il mitra. Arafat ha buon gioco nel dimostrare di essere vittima della situazione internazionale piuttosto che causa o concausa del terrorismo internazionale.
E veniamo al nesso con l'undici settembre. L'idea che abbiamo ricavato da questo tipo di terrorismo è molto diversa da quella che avevamo del terrorismo palestinese. Quest'ultimo è giocato totalmente sul fattore nazione quindi sulla via rivoluzionaria e statuale. Il terrorismo dell'undici settembre presenta gli elementi fondamentali degli anni settanta, quali, ad esempio, l'antimperialismo americano o l'opposizione alla mondializzazione, ma ha rotto le frontiere dei diversi terrorismi nazionali. Questo è l'elemento fondante su cui noi occidentali dobbiamo riflettere. Questo terrorismo è arrivato fin nel territorio americano, spezzando i diversi terrorismi legati a considerazioni locali o nazionali. Troviamo Bin Laden, che è un wahabita saudita, che si reca in Afganistan; sappiamo della sua presenza, dalla metà degli anni novanta, in Sudan, altro grande luogo di carneficine dimenticate. Sono presenti elementi della centrale islamica internazionale un po' dovunque: nelle Filippine con Mindanao o in Cecenia, in Indonesia o a Timor, idem in Birmania. L'undici settembre ha fatto prendere coscienza agli occidentali di questo fatto: il verificarsi dell'internazionalizzazione islamica. In quest'ambito, poi, si è ribaltato il rapporto tra islamismo e modernità, che è l'elemento culturale di fondo che si pone alla riflessione dell'Occidente. Credo che sia avvenuta una islamizzazione della modernità. E Bin Laden l'ha dimostrato, sia rispetto al metodo e alla logistica che usa, sia nel profondo rapporto che c'è tra islamismo e cultura moderna. Elemento che mancava totalmente al terrorismo degli anni settanta. Il terrorismo attuale ha una vasta penetrazione e va al di là del localismo e della territorializzazione perché pone il nodo di fondo dei rapporti tra modernità e Islam, a partire da categorie proprie e non importate dall'Occidente. Io non accetto però su questo la teorizzazione dello scontro di civiltà. A mio avviso, l'islamismo radicale ha cambiato metodo di approccio strategico e pone all'Occidente il problema di una sua nuova collocazione, di un rapporto diverso nei confronti del Terzo e del Quarto mondo. Ossia, l'islamismo fondamentalista, oggi più mobilitante e propagandistico, pone una domanda radicale che noi geopoliticamente dobbiamo risolvere.

D. - Potremmo quindi sostenere che dal punto di vista del radicalismo islamico globalizzato la questione palestinese può essere utilizzata, strumentalizzata come una delle testimonianze di questo scontro e dal punto di vista palestinese il rischio è che Hamas e le altre organizzazioni possano vedere in Bin Laden o Al Qaeda o organizzazioni di quel genere un riferimento. Possiamo dire che le possibili connessioni siano queste?

R. - Sicuramente è così. Queste sono le connessioni fattivamente e storicamente già operanti. Ad esempio, lo sceicco Yassin che si trova nella striscia di Gaza e rappresenta l'anima spirituale di Hamas o, comunque, dell'islamismo radicale, ha rapporti profondissimi con Al Qaeda e Bin Laden. Di nuovo la questione palestinese viene usata come una clava, strumentalmente.

D. - Abbiamo un intreccio di globale e locale.

R. - Esattamente. Vorrei fare, poi, una piccola considerazione sull'Europa e sul rapporto tra il suo ruolo e il terrorismo internazionale perché dice molto su quel rapporto. L'anno scorso a dicembre, l'Unione Europea, nell'ambito dei provvedimenti varati a seguito dell'undici settembre per contrastare il finanziamento del terrorismo internazionale, non ha inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali Hezbollah, anche per la grande pressione esercitata dalla Francia, e questo rappresenta un vulnus. Anche il problema, postosi di recente, dei tredici terroristi palestinesi asserragliati nella basilica della Natività non ha visto l'Europa assumere una posizione comune. Alla Conferenza di Durban, inoltre, c'è stata la riproposizione da parte di alcuni paesi arabi dell'identificazione tra sionismo e razzismo. Su questo l'Europa ha taciuto. Se passa di nuovo l'idea culturale, di psicologia collettiva prima, che sionismo è uguale a razzismo, vuol dire che stiamo tornando indietro agli anni settanta, e alla risoluzione ONU del 1975 che parificava il sionismo al razzismo. Gli sforzi straordinari di Solana e Moratinos sono stati efficaci ma mancano del necessario orizzonte geopolitico nel quale collocare le diverse misure da adottare e le diverse sequenze. L'Europa, sicuramente, ha dimostrato in questa fase di aver superato l'atteggiamento notarile che ha sempre avuto nei confronti della questione arabo-palestinese e si pone ora in termini di mediazione politica e questo va riconosciuto come un grande passo avanti. Ha un progetto di pace, discute e se pensiamo che nel 1991 alla conferenza di Madrid l'Europa era presente solo in veste di ascoltatore, qualcosa è cambiato. Ma l'Europa deve uscire da una certa titubanza culturale, deve sciogliere il nodo nei confronti di Israele e abbandonare l' ambiguità nei suoi confronti pur sostenendo prioritariamente le ragioni della parte palestinese, altrimenti è difficile ricostruire dopo l'undici settembre una vera unità culturale anche occidentale. Altra cosa vorrei dire a proposito dell'undici settembre. Negli anni settanta si parlava degli arabi e dei palestinesi come di vittime della situazione senza tenere conto del fatto che proprio i paesi arabi erano comunque detentori della fonte primaria della ricchezza: il petrolio. Ora si fa un'altra errata comparazione tra la tecnologizzazione dell'Occidente avanzato e un Islam o un mondo arabo islamico arretrato, e non è proprio così. Bin Laden, anzi, dimostra esattamente il contrario con l'uso che fa non solo dei mass media ma della scienza e della tecnica occidentale. E questo è un punto che differenzia molto il terrorismo di oggi da quello degli anni settanta.

D. - Un'ultima riflessione riguarda la città di Gerusalemme. Ogni tentativo di trattativa ha trovato nella sistemazione della città sacra per le tre religioni monoteiste un punto critico di difficile soluzione. Cosa emerge, nel Suo approfondimento, anche in relazione alle prospettive di una soluzione per Gerusalemme?

R. - Gerusalemme è una città tre volte santa e questo richiama subito il nodo tra geopolitica e aspetto territoriale e sacrale. Camp David si è bloccato sia rispetto alla questione dei profughi che di Gerusalemme. Arafat non ha accettato la proposta israeliana, in realtà americana secondo Arafat, il cd. "Piano Clinton", della divisione e della sovranità congiunta e tutela dei luoghi santi islamici-arabi da parte dei palestinesi. SULLA QUESTIONE DI GERUSALEMME A CAMP DAVID ARAFAT HA DIMOSTRATO TUTTA LA SUA SUBALTERNITÀ NEI CONFRONTI DEI PAESI ARABI, ANTEPONENDO L'INTERPRETAZIONE E LA CATEGORIA TEOLOGICA E SOVRASTORICA DI GERUSALEMME RISPETTO ALLA CATEGORIA DELLA REALPOLITIK STATUALE, NAZIONALE CHE ARAFAT AVEVA PORTATO AVANTI DAGLI ANNI SESSANTA IN POI. QUESTO, A MIO AVVISO, È STATO UN GRANDE ERRORE. ARAFAT HA CIOÈ POSTO AL MONDO UN PROBLEMA. NON SOLO LA SUA SUBALTERNITÀ RISPETTO AI PAESI ARABI, MA ANCHE IL FATTO CHE ALL'INTERNO DEL MONDO PALESTINESE (HAMAS E JIHAD INSEGNANO), LA QUESTIONE DI GERUSALEMME NON È SOLO UN PROBLEMA PALESTINESE MA È ANCHE IL PROBLEMA DELLA UMMA ARABA. INSOMMA, ARAFAT NON HA VOLUTO ESSERE IL PRIMO LEADER ARABO A CONTRATTARE LA CITTÀ DI GERUSALEMME CHE PER GLI ARABI RIMANE A TOTALE SOVRANITÀ ARABO-ISLAMICA. Questo è il nodo territoriale: ci sono delle "linee rosse" che arabi, israeliani e palestinesi hanno messo nella zona di Gerusalemme. In questo senso si va riprendendo da più parti il progetto che fu di Paolo VI ma che è anche di Giovanni Paolo II, il quale in una lettera apostolica del 1984 parlò di uno statuto internazionalmente garantito per Gerusalemme est, quindi per la città vecchia, quella entro le mura e che porta il peso millenaristico della città. In questo modo sottintendeva di tralasciare la questione di una sovranità palestinese o israeliana per Gerusalemme ovest, la parte fuori le mura. Sarebbe quindi possibile pensare, su questa base, ad una internazionalizzazione non dell'intera città ma solo di quella vecchia, che potrebbe essere divisa in linee rosse arabo-palestinesi da una parte e israeliane dall'altra. Questo sarebbe possibile, e lo ha dimostrato Barak a Camp David. Un po' meno possibile lo sarà per il governo di Sharon o di Netanyahu. Gerusalemme pone anche un altro grandissimo problema: quello degli insediamenti israeliani all'interno della città. I palestinesi accusano i governi israeliani che si sono succeduti dal 1993 in poi di aver riproposto l'antico progetto della Grande Gerusalemme di Shamir realizzando una serie di insediamenti all'interno della città. Prima di addivenire ad un accordo quadro sarà necessario risolvere il problema di questi insediamenti. Altra questione di difficile soluzione sta nel rapporto tra i paesi arabi e la Palestina. Nell'accordo poi fallito di Camp David si parlava di una sovranità limitata nei luoghi islamici da parte dei palestinesi insieme ad una Commissione islamica congiunta presieduta dal Marocco, come a dire che i palestinesi possono esercitare una sovranità, ma limitata non solo dagli israeliani bensì anche da parte dei paesi arabi. Ecco l'altro nodo legato alla fratellanza tra paesi arabi e comunità palestinese.
Per quanto riguarda il futuro, l'unica cosa certa su Gerusalemme, e sul problema palestinese-israeliano più in generale, è che una riconciliazione totale è difficile. Non è possibile, cioè, addivenire ad un accordo quadro che risolva tutti i problemi, a cominciare proprio da Gerusalemme. Vanno scorporate le varie questioni. Tra le altre cose, un progetto di peace building deve passare attraverso alcune sequenze che è necessario vengano interiorizzate dalle due parti contendenti. La questione di Gerusalemme, tanto per farmi capire meglio, è diversa dal problema delle risorse idriche e del Golan. Non sarebbe possibile riunire in una conferenza generale su Israele e la Palestina i due attori principali tralasciando, ad esempio, la Siria, perché il Golan non è né israeliano né palestinese, ma della Siria che attualmente non è più il paese di Assad ma del figlio, Bashir Assad. Scorporare i diversi problemi già sarebbe un grandissimo passo verso la pace: separare la questione di Gerusalemme da quella dell'acqua o del Golan o dei coloni in Cisgiordania è segno di realismo. Bisogna fare poi un ulteriore passo prima di una conferenza di pace. Bisogna cioè arrivare ad una riconciliazione storica. Le parti in gioco dovrebbero fare qualcosa di simile a quello che è accaduto in Sudafrica dove fu costituita una "Commissione di riconciliazione per la verità storica" che è stata poi il fondamento della ristrutturazione e della redistribuzione del territorio tra le varie comunità etniche.
E ritorniamo così alla domanda iniziale, all'uso pubblico della storia e alla necessità di procedere alla riconciliazione affermando il principio del reciproco riconoscimento. Bisogna affermare il principio del riconoscimento delle responsabilità prima ancora di misurarsi sulle questioni e questo significherebbe anche superare certe ingessature e rigidità delle risoluzioni ONU, come, ad esempio, la numero 194 sul diritto del ritorno per i profughi, ai quali Israele riconosce le sofferenze morali ma non storiche e quindi ne ammette il ricongiungimento familiare ma non il ricongiungimento tout court. Se prima di tutto non c'è il riconoscimento reciproco degli attori in antagonismo è difficile arrivare ad una mediazione concreta, diplomatica sulle diverse questioni.
Ciò ci conduce così al problema del Medio Oriente allargato. Sfuggono, a mio avviso, alle relazioni internazionali, e alla pubblicistica che ad esse guarda, alcuni elementi sviluppatisi negli ultimi anni novanta, proprio durante gli accordi di Oslo, e la novità fondante che Israele aveva introdotto rispetto alle relazioni internazionali. Israele nel corso degli accordi di pace di Oslo ricostruiva, proprio per la certezza che attribuiva alla pace di Oslo, nuovi rapporti allargati nel Medio Oriente, cercando di superare il proprio ruolo e il proprio "complesso di Masada", cioè dell'accerchiamento - complesso psicologico e collettivo di Israele dell'accerchiamento, non solo territoriale, ma anche demografico rispetto ai paesi arabi (e qui ritorna la tematica geopolitica pensando al proprio ruolo in funzione non solo dello stato palestinese, ma anche degli altri stati arabi). Israele, ricordo, ha concluso alcuni accordi di pace separata: uno con la Giordania, paese arabo moderato, sul problema specifico delle acque e dell'overpumping, e non è di poco conto; un altro accordo strategico, che riguarda il controspionaggio, l'intelligence e i rapporti geopolitici in generale con la Turchia. Non dimentichiamo che l'accordo turco-israeliano è stato fondamentale per il controllo delle acque in Medio Oriente; altro accordo importantissimo è stato quello con le repubbliche, ora islamiche, dell'Asia centrale, Azerbaigian in particolare, e Uzbekistan, altro grande rapporto legato all'intelligence e alla manutenzione e organizzazione dei pipeline.

D. - Lei sostiene, insomma, che Israele stava cercando di assumere il ruolo di una sorta di potenza locale?

R. - Esattamente. Una vera e propria potenza locale, concependo questo ruolo accanto allo stato palestinese. Quest'ultimo rappresentava l'equilibrio per realizzare queste aperture. Questa è stata la strategia dello stato israeliano negli anni 1994/1998. Ricordo poi l'accordo, bloccato da parte degli Stati Uniti, con la Cina sugli armamenti riguardanti l'aviazione. Questi sono rapporti propri di una potenza che pensa se stessa non più ripiegata dentro il territorio regionale ma che si fa asse di equilibrio geopolitico internazionale.

D. - E questo, a suo avviso, agevola o complica la risoluzione della questione palestinese? Questo ripensamento strategico di Israele favorisce la volontà di risolvere il conflitto o ne agevola il mantenimento?

R. - Io credo che la favorisca, ma questa non è la stessa percezione che ha l'Autorità nazionale palestinese. Infatti, nel mio libro riporto una citazione di un'affermazione di Faisal Hussein che accusava Israele di cercare paci separate, appunto con la Giordania, con l'Egitto, con il Libano (per la fascia di sicurezza). I palestinesi hanno quindi la percezione che Israele voglia isolarli e delocalizzare l'Autorità nazionale palestinese. Ma Israele sa bene che isolare e circoscrivere strategicamente l'Autorità nazionale palestinese significa aggiungere una variabile conflittuale ai rapporti con i paesi arabi, se non islamici. Questo, secondo me, è un punto dirimente la questione arabo-israeliana-palestinese. Avevamo ed abbiamo due piani: uno in cui Israele cominciava a configurarsi come potenza non solo regionale ma internazionale, pur con la difficoltà della creazione di uno stato palestinese; ma c'era anche la percezione da parte di Israele, e questo è il secondo piano, che il problema palestinese doveva entrare in un contesto più ampio, non solo regionale. Questo punto era ben chiaro ad Israele sia nel corso del primo che del secondo accordo di Oslo, tanto è vero che nello Stato ebraico era nato un grandissimo dibattito circa il fatto che Israele avesse o meno un ruolo nell'ambito dell'Unione Europea, anche se non necessariamente come membro effettivo. QUESTO VUOL DIRE RAGIONARE SU UN PIANO COMPLETAMENTE DIFFERENTE RISPETTO AGLI ANNI SETTANTA-OTTANTA, E ANCHE NOVANTA, PERCHÉ FAR ENTRARE ISRAELE IN EUROPA SIGNIFICA FARVI ENTRARE AUTOMATICAMENTE, COME EFFETTO A CASCATA, ANCHE L'AUTORITÀ NAZIONALE PALESTINESE E QUESTO CREEREBBE UNA SERIE DI CONSEGUENZE IMPORTANTI SULLE RELAZIONI INTERNAZIONALI.

D. - Un'ultima domanda: chi è che può avere interesse ad ostacolare questo progetto strategico di Israele e, quindi, a continuare nella strumentalizzazione della questione palestinese?

R. - Sicuramente i paesi arabi che ancora non riconoscono lo stato di Israele e che nutrono nei suoi confronti un antagonismo radicale, culturale e storico: la Siria prima di tutto, per il Golan, che, tra l'altro, ha di recente cambiato dirigenza e non sappiamo ancora bene come si comporterà; poi l'Iran e l'Iraq, e poi il Libano, dove non c'è stata contropartita al ridispiegamento israeliano della fascia di sicurezza e non è un caso che gli Hezbollah si trovino proprio in quei luoghi. Questi sono, a mio avviso, i paesi che non vogliono Israele come potenza regionale o anche transregionale, diversamente dalla Turchia, legata strategicamente all'alleanza occidentale, e in particolare agli Stati Uniti che, come contropartita, non la disturbano minimamente, sul problema dei curdi.



Note:

(*) Il testo presentato costituisce l'esito di una conversazione della Redazione, in data 20 maggio 2002, con il Prof. Giovanni Codovini.

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by bonus Monday, Jun. 16, 2003 at 11:13 AM mail:

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by bonus Monday, Jun. 16, 2003 at 2:08 PM mail:

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Gerusalemme
by Intifada vincerà Monday, Jun. 16, 2003 at 3:31 PM mail:

Sia la lode a Dio, creatore dei due Mondi, e sia la pace e la benedizione sul nostro Profeta, messaggero e sigillo della profezia Abu al-Qasim Muhammad ibn ‘Abdullah, su la sua famiglia di puri, su tutti i martiri e i combattenti sulla via di Dio da Adamo fino alla venuta del Giorno del Giudizio […].
Sia la pace e la benedizione su tutti voi. Per prima cosa voglio ringraziare e voglio dimostrare il mio rispetto ai fratelli e sorelle che, dalle prime ore del giorno, sono convenute qui nonostante il tempo freddo e piovoso. Questo mostra una cosa in particolare, mostra la vostra sincerità e attaccamento ai vostri capi e alla catena dei martiri, il vostro impegno a favore della questione fondamentale, della questione di Gerusalemme, per la quale è lecito qualsiasi sacrificio. Siete venuti affinché si celebrasse la giornata di Gerusalemme per il secondo anno, l’anno scorso nella zona meridionale dopo l’11 settembre perché sia chiaro il messaggio di fermezza, qui sotto la pioggia, un messaggio chiaro che afferma la volontà, la sincerità e l’attaccamento. Noi non siamo un popolo che teme il freddo dell’inverno, né il caldo dell’estate, né la lama delle spade, né il campo di battaglia, anzi, Dio volendo, siamo un popolo che resiste, una nazione che sa tener testa. E rimarremo un popolo che resiste e che tiene testa.
Fratelli e sorelle, c’incontriamo nella giornata di Gerusalemme alla presenza dello spirito del sempre vivo Imam Khomeyni che ha istituito questa giornata affinché rimanga in eterno, una giornata nella quale la nazione mostra i propri sentimenti, le proprie azioni e la propria lotta, e il proprio esser pronta al sacrificio. Ed è stata riaffermata questa giornata con la stessa forza e nello stesso modo, dal grande Imam Ayatollah Khamenei, che Dio l’abbia in gloria e lo protegga.
Veniamo quest’anno nella città dell’Imam al-Huseyn – su di lui la pace –, nella città dei martiri, nella regione dei martiri, nel paese del più vecchio dei martiri – lo shaykh Rageb Harb, sia la ricompensa di Dio su di lui –, il paese del più vecchio dei prigionieri – lo shaykh ‘Abdul-Karim ‘Abeyd –, sia Dio soddisfatto di lui e di tutti i prigionieri e catturati. Siamo venuti qui a Nabatiya, la città che si è trovata sul fronte per più di quindici anni, combattendo, aspettando, avendo pazienza, sacrificando la propria gente ed anche i bambini delle scuole. Questo ha costruito la sua vittoria, il sangue dei suoi martiri ha costruito la sua vittoria, con i suoi figli che sono prevalsi nei tragici luoghi per innalzare la bandiera della resistenza.
Quest'anno siamo venuti qui a Nabatiya, la Nabatiya che per prima ha affrontato l’occupazione sionista, già nel 1983. Siamo venuti a Nabatiya per esser più vicini al fronte, più vicini al campo di battaglia. Una resistenza che si rinnoverà anno dopo anno, da una città all'altra, da un luogo ad un altro del Libano, affinché ogni città libanese possa partecipare alla giornata di Gerusalemme e ogni città possa esprimere il proprio legame con Gerusalemme, con la gente di Gerusalemme, con gli imam di Gerusalemme anche perché questa questione non viene dimenticata da un giorno all’altro.
Fratelli e sorelle, nella giornata di Gerusalemme dobbiamo attrarre l’attenzione del mondo distratto ed ignaro sulle empietà del nemico sionista che accampa diritti sulla città di Gerusalemme e sulla sua terra che il nemico si accaparra giorno dopo giorno mentre le case degli abitanti originari vengono distrutte giorno dopo giorno grazie a scuse inconcrete. Dobbiamo attrarre l’attenzione sul terrorismo che il nemico mette in atto per cacciarne gli abitanti, sui coloni armati che circondano la città da ogni lato per dividerla dal resto della Cisgiordania e dal resto della Palestina. Ma la cosa più pericolosa… Il mondo, ed in particolare il mondo islamico devono prestare attenzione al pericolo che corrono i luoghi sacri. In Palestina non ci sono altri luoghi santi all’Islam e al Cristianesimo al di fuori dell’area che va dalla Chiesa della Natività al Santo Sepolcro. La Moschea dell’Aqsa ha una storia che è stata confermata da scettici e testardi. Noi qui non stiamo delineando un falso pericolo, stiamo parlando di un pericolo reale che si pone dinnanzi alla prima qibla [la direzione verso la quale si fa la preghiera, NdT] dei musulmani. E’ reale il pericolo del crollo che attendono con ansia gli studiosi del Talmud, in modo particolare in questo nostro tempo nel quale governa quello che è chiamato il sionismo cristiano nell’amministrazione centrale americana. C’è chi intravede un’idea del sionismo cristiano e c’è chi intravede un’idea del sionismo talmudico nel progetto della distruzione della Moschea dell’Aqsa per potervi ricostruire il tempio di Salomone. E voi sapete che giorno dopo giorno questo pericolo si fa sempre più vicino. Un pericolo di fronte al quale non è lecito voltare le spalle per nessun governate arabo, o per il popolo arabo ed islamico. L’ignorare, il sottovalutare e il non dare in importanza e ciò che aiuta i sionisti, dietro i quali c’è il sionismo cristiano americano che vuole distruggere la moschea. Pensano che questa sia una nazione indifferente, timorosa che ha paura… che i suoi governanti hanno come unica preoccupazione la propria sedia ed hanno paura di perderla e non si interessano della Moschea dell’Aqsa, della Chiesa della Natività o del Santo Sepolcro…



Fratelli e Sorelle, devono capire i sionisti, e quelli dietro di loro, che se si allunga la mano sulla Moschea dell’Aqsa tutta la regione esploderà. Se la moschea verrà abbattuta, allora crollerà tutta la regione. Se vogliono distruggere questa moschea, allora questa nazione distruggerà questa entità empia con il sangue dei valorosi martiri che sono appoggiati da ogni famiglia, da ogni paese, da ogni città, dal Libano, dalla Palestina, da ogni paese arabo ed islamico.
Fratelli e Sorelle, ci siamo riuniti nel giorno di Gerusalemme, è giunto il giorno di Gerusalemme dopo due anni e mezzo dalla liberazione di una grossa parte di terra libanese con la resistenza. Ed è giunto il giorno di Gerusalemme, dopo due anni e mezzo dallo scoppio dell’Intifada che questa volta ha preso una posizione chiara prendendo il nome di Intifada dell’Aqsa. Questo fatto punta l’attenzione sul fatto che la nostra scelta è chiara, che è la scelta unica che punta ai luoghi sacri, all’Aqsa. Le risoluzioni internazionali – fratelli e sorelle, per coloro che ancora fanno affidamento sulle risoluzioni internazionali –, le risoluzioni internazionali vengono implementate solo quando si intrecciano con gli interessi e i guadagni degli Stati Uniti d’America. Mentre, invece, le risoluzioni internazionali che s’interessano delle questioni dei nostri popoli, dei nostri paesi, delle nostre regioni o delle regioni dei più deboli sono ignorate. La prova è la risoluzione 425 che non è stata implementata per più di venti anni, mentre invece è stata la resistenza che ha costretto il nemico ad andarsene. Oggi, decine di risoluzioni da parte del Consiglio di Sicurezza, dal cuore dell’organizzazione delle Nazioni Unite, sono state prese a proposito di Gerusalemme, sulla necessità che rimanga unita, nel vietare la sua acquisizione, nel rifiutare la colonizzazione, nel rifiutare la distruzione dei luoghi sacri, però tutte queste risoluzioni internazionali sono dimostrazione di quanto detto. Chi difende Gerusalemme, chi difende la sua sacralità, chi difende la Palestina è ciò che ha scelto il popolo Palestinese, attraverso i suoi nobili martiri, che terrificano il mondo ogni giorno e notte. Uno due, tre e quattro martiri irrompono con il loro coraggio e con le loro armi, fanno tremare l’entità di questo nemico, la sicurezza dei coloni e degli abitanti di questa entità che noi sfidiamo fino alla vittoria, se Dio vuole. Questa Intifada così com’è stata la resistenza, questa Intifada non verrà indebolita dai discorsi politici, questa Intifada dal primo momento è nel nome di Dio, con il nome di Dio, benedetta dal sangue dei pii versato per la Moschea dell’Aqsa, condotta dai martiri che bramano Dio e sono amici di Dio, e non può quindi esser fermata per niente dal nemico. Ed è per questo che questa Intifada è una Intifada vincente, una Intifada di trionfo, una Intifada di liberazione, una Intifada che costituirà presto un esempio per affrontare tutto ciò che questo mondo sta vivendo.
Fratelli e sorelle, nel giorno di Gerusalemme dobbiamo annunciare con chiarezza che noi qui non abbiamo aggredito nessuno. La resistenza nel Libano era in difesa, ed ancora oggi è per difendere noi stessi, la terra, l’onore, il popolo, la patria, la dignità. Oggi la resistenza in Palestina è una difesa. I Palestinesi non hanno aggredito nessuno, non sono andati in Russia ad uccidere gli ebrei russi, né sono andati in Ucraina ad uccidere gli ebrei ucraini, né in Polonia ad uccidere gli ebrei polacchi, né in Etiopia ad uccidere i falascia (se questi sono ebrei). Sono quei sionisti, invece, che sono venuti da ogni parte del mondo per conquistare la terra d’altri, i luoghi sacri di altri, le loro città, i loro villaggi, il loro cibo. Ciò che hanno fatto i palestinesi… Tutto ciò che fa il popolo palestinese attraverso le operazioni che portano al martirio, con tutte le sue conseguenze, si tratta di azioni nobili e lecite dal punto di vista della legge islamica e della legge umana, dal punto di vista morale, perché vuole portar via l’oppressione, il male, l’occupazione, la corruzione, il tumore. Questa è la realtà. Perciò, noi qui, specialmente in questa occasione, denunciamo la condizione di oppressione in cui si trova il Libano, la Palestina e gli Arabi e i Musulmani, che si trovano a doversi difendere. Noi non abbiamo aggredito nessuno, non abbiamo voluto la guerra con nessuno, eppure chi è che ci ha aggredito, chi è che ha occupato le nostre terre e i nostri luoghi santi, chi vuole distruggere il nostro onore? Chi vuole portar via il nostro onore presto vedrà volare la nostra carne, vedrà scorrere il sangue dei benedetti che farà esplodere la terra sotto i suoi piedi, sia che si tratti di un combattente che di uno che occupa, sia che si tratti di un ebreo sionista, sia che si tratti di un americano sionista. Da ogni lato è venuto il nemico, e sono venuti i combattenti portando via l’onore che rimane tra quegli uomini e donne pronti al martirio e al sacrificio, e tra quegli uomini e donne che sono cresciuti e hanno vissuto tenendo alta la propria cultura contro l’oppressione e la perversione, e i loro valori rimarranno eterni, liberiamoci dell’occupazione, liberiamoci dell’occupazione!




Fratelli e sorelle, noi stiamo parlando del pericolo che sta affrontando la nostra regione, la nostra nazione in questo momento. Noi siamo innanzi al piano sionista americano per mettere le mani sulla regione riscrivendo la carta politica della regione. Per questo dobbiamo pensare a ciò che accade considerando gli orizzonti più lontani e gli obiettivi più impensabili e non dobbiamo farci ingannare dal depistaggio dell’amministrazione americana che vuole guidare il popolo Tizio o Caio. Perché l’America non ha fatto una rappresaglia contro il popolo Tizio o Caio dieci anni fa? Dobbiamo pensare agli obiettivi pericolosi e diabolici che hanno quelli. I capi nei nostri paesi invitano i popoli a ravvicinarsi maggiormente, questo è quello che vogliono, di risolvere i nostri problemi riavvicinando i popoli. Io dico a molti dei capi nel mondo arabo che il buttarsi sempre più nelle braccia degli Stati Uniti e dell’amministrazione americana non farà altro che aumentare la vostra debolezza, la vostra perversione e perdizione. Se volete per voi stessi la vita eterna, la forza e l’onore tornate alla vostra nazione, tornate alla vostra gloria, tornate ai vostri popoli, e voi siete capaci di fare ciò e non avete perso ogni possibilità. Questi sono popoli che perdonano e ignorano ciò che è passato quando vedono i loro capi, il loro stato e governo a difesa della nazione, del bene della nazione e all’orgoglio della nazione. Questi popoli sono pronti, anche se vedono la grande ingiustizia di molti dei governi, ma sono pronti a metter da parte le ferite e il dolore davanti alla battaglia in difesa dell’orgoglio e del futuro della nazione.
Fratelli e Sorelle, è d’obbligo anche – nella giornata di Gerusalemme – di dire che l’amministrazione americana e il governo sionista (e tutti coloro che spadroneggiano in questo mondo) ridurranno a pezzi la rimanente forza di questa nazione, e così assistiamo e assisteremo all’aumento dell’oppressione e dell’ingiustizia tra la nazione araba e musulmana grazie al nazionalismo. Stiamo di nuovo sentendo su alcuni canali televisivi di nuovo parlare d’Arabi, di Persiani e d’altre nazionalità, di Beluchi, di Pashtu… questa o quella nazionalità. Assisteremo presto a conflitti e inimicizia tra i paesi arabi, tra gli stati islamici. Assisteremo a lotte intestine tra il popolo di questo e quel paese e il popolo di questo e quel paese… Non c’è bisogno di dare i particolari. Ma ciò che è più pericoloso il contrasto tra le religioni e tra le scuole di diritto. Gli americani hanno parlato di una crociata per incitare i cristiani contro i musulmani, e i musulmani contro i cristiani in modo particolare in questa decadenza del mondo arabo e islamico. Lì c’è un incitamento, ma la cosa più pericolosa in assoluto è giocare con le differenze tra i gruppi di musulmani ed in particolare tra i sunniti e gli sciiti.
Ascoltate, fratelli e sorelle, nel momento nel quale c’è bisogno di tutti i musulmani, ed in particolare che i sunniti e gli sciiti si uniscano in tutte le questioni di credo, di pensiero e di diritto per poter soccorrere il popolo palestinese e per aiutare Gerusalemme. Devono lottare questi per difendere la loro religione e il loro Profeta che gli americani e sionisti definiscono come terrorista, Muhammad ibn Abdullah, che Dio lo abbia in gloria. Questa è un’era che ha bisogno che i sunniti e gli sciiti siano uniti affinché venga preservato l’onore della nazione quando si tenta di cambiare la geografia della regione, e affinché non aumentino le divisioni e le fazioni, e che non si crei uno stato sunnita qui o uno stato sciita lì, uno stato arabo qui e uno stato curdo lì. Nel momento in cui abbiamo bisogno d’unità hanno iniziato a creare televisioni satellitari che trasmettono da Londra e, con i soldi americani e sionisti, che chiamano una volta un dotto sunnita, una volta un dotto sciita che rivangano questioni del passato anche questioni di pensiero che incitano al rifiuto o a tacciar di miscredenza. Oggi l’amministrazione americana vuole dividere i musulmani dai cristiani, e i cristiani dai musulmani, gli Arabi dai non Arabi, vogliono dividere i Sunniti dagli Sciiti, e i Sunniti dagli Sciiti. E vogliono dividere ogni paese dall’altro, ogni popolo di un paese da quello di un altro, in fazioni. Questo perché solo grazie a queste divisioni potranno realizzare i sogni dell’America e quelli d’Israele. Io chiedo di boicottare queste emittenti sioniste e americane, ed anche quei sapienti ed intellettuali con le loro idee, perché sbagliano nel diffonder le loro idee, inconsapevolmente sono strumenti nelle loro mani per dividere i musulmani e creare differenze di pensiero tra i musulmani.
Fratelli e sorelle, specialmente in questa occasione noi abbiamo bisogno di ogni sforzo. La nazione ha posto la sua fiducia sull’Intifada in Palestina, e ha fatto bene. L’Intifada continua, l’Intifada vince con i martiri, l’Intifada vince con il sangue, il nemico sprofonda sempre di più nella sua crisi. E’ un fatto che l’Intifada ha posto la sua fiducia nella Ummah, e non bisogna tradire la sua fiducia, e bisogna fare in modo che questa fiducia non venga tradita e che la Ummah sappia quale sia la sua responsabilità continuamente.
Ora, a conclusione di questa manifestazione che riafferma il nostro impegno per la resistenza, noi che siamo cresciuti da piccolini nelle braccia dell’Imam scomparso Musa as-Sadr dobbiamo amare e marciare verso Gerusalemme, noi che abbiamo iniziato la catena di martiri per amore e devozione di Gerusalemme, il primo dei quali il leader della resistenza Abras al-Munsawi – Dio lo ricompensi. In questa giornata riaffermiamo dalla città di Nabatiya, città di grandi martiri, che siamo in prima linea e che siamo pronti a difendere la nostra patria, nazione e sacralità. Noi non abbiamo paura e non ci allontanerà nessuno, e noi lavoriamo, sì, per diventare i più forti e lavoriamo per aumentare la nostra forza in tutto ciò che possiamo, vogliamo la forza non per imporci su chi amiamo ma per difendere il nostro paese, la nostra sacralità, la Palestina e la nostra Umma.
Fratelli e sorelle, siamo stati accusati dai sionisti di sostenere l’Intifada, noi ne siamo fieri. Queste accuse, sia che siano vere o false, sono un grande privilegio su di noi e sapremo portare questa responsabilità e siamo pronti ad affrontare ogni responsabilità che ci verrà assegnata fin quando saremo qui, in questo luogo.
Fratelli e sorelle, siamo qui in questa terra di martiri e di lotta, convinti, con i piedi ben piantati, con i cuori saldi, confidenti in Dio e confidandoci in Lui vinceremo. Con voi uomini pii e donne pie, nobili e con ventri benedetti che hanno procreato tutta questa generazione di martiri e tutta questa generazione di combattenti e procreerà la futura generazione di martiri e di combattenti, con voi vinceremo. Oggi il vostro messaggio è grande per i vostri fratelli in Palestina, per i vostri amici e amati. Il vostro messaggio è forte contro Israele, l’America e tutti coloro che hanno attaccato questa nazione. Noi staremo qui, combatteremo qui, resisteremo qui, vinceremo qui, diventeremo martiri qui, vivremo qui e verremo sepolti qui! Questa è la nostra terra, non l’abbiamo abbandonata in passato e non l’abbandoneremo ora, né lo faremo in futuro.
Fratelli e sorelle, in un’era a noi molto vicina si sta realizzando il sogno dell’Imam Khomeyni, il sogno dell’Imam Musa as-Sadr e il sogno dei martiri, ovvero la presa di Gerusalemme, la preghiera a Gerusalemme. Quel giorno sta per arrivare, prima di quanto pensiate, prima di quanto vi aspettiate. La vittoria è presso Dio il Potente e Glorioso, e sia la pace e la benedizione su di voi.
(discorso tenuto da un ayatollah scita libanese)

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per l'illuso di sopra
by libera!!!! Monday, Jun. 16, 2003 at 3:52 PM mail:

Intifada vincerà....SIIIIIIIII....QUANDO??????????

SI VEDE INFATTI CON L'INTIFADA COME SE LA SPASSANO I PALESTINESI....QUANTO SIETE FURBI!!!!

CIAO Nì ;-)

Adonai tzeva'ot immanu,
misgav lanu Elohe Ja'akov.

AM ISRAEL CHAI!!!!!

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bonus
by bonus Monday, Jun. 16, 2003 at 6:05 PM mail:

bonus malus

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Nella Sacra Gerusalemme ..............
by libera!!!! Monday, Jun. 16, 2003 at 8:56 PM mail:

........., decine di vittime in un attentato è niente in confronto a cio che accadra ..........da un momento all'altro.


I fatti (infausti) premonitori:

Qualcuno fará un bel botto con la Moschea della Roccia ed allora: sara la fine per tutti?

Gia in passato estremisti ultra sionisti hanno provato a dinamitare Moschea della Roccia e questo 'evento' potrebbe mobilitare le masse islamiche nel mondo intero ...

Qualche estremista o palestinese od israeliano potrebbe dinamitare o bombardare La Cupola Della Roccia ed altre Moschee, costruite nell'antico luogo del Tempio di Gerusalemme,facendole scoppiare in briciole in aria:
allora si che saranno guai seri,
credetemi.

Ma tutto per Gerusalemme La Santa puó succedere.

Ci sono fanatici ebrei e ultimamente,data la criticitá della posizione palestinese grandemente svantaggiata e ghettizata fondamentalisti islamici,che potrebbero arrivare a distruggere il Terzo posto Sacro al Mondo per importanza per la fede Islamica per fare scoppiare inreversibilmente la piú grande guerra che il Mediterraneo abbia mai visto: La Cupola della Roccia.

Giá alcuni sionisti per poco non ci riescono:
se cosí fosse nessuno potrebbe mai impedire un conflitto tra tutti i mussulmani che nessun governante potrebbe mai fermare in nessun modo e gli israeliani.

Gerusalemme è sempre stata una cittá molto contesa: è infatti l´omphalus (ombelico) del mondo di ben 3 religioni ed una infinitá di sette...La spartizione dei territori sempre si è bloccata a Gerusalemme.

Sarebbe la fine.
¿Accadrá mai?


Il problema per i radicali Islamici come Hammas è che la popolazione Islamica dell'intero mondo è frammentata,e non possono i vari stati contrastare coi loro eserciti l'Impero a stelle & striscie ma un evento di questa portata farebbe cambiare le carte in tavola, sopratutto se a provocare la distruzione anche solamente "PARZIALE" della Cupola della Roccia siano gli effetti collaterali di un molto probabile
attacco anglo americano, israeliano od euroasiatico in Gerusalemme.

Od anche un NON improbabile attacco terroristico perpetrato da un singolo colono od estremista sionista ....

O ripeto da terroristi o guerriglieri che dir si voglia palestinesi, di Hammas, di Alquaeda (sempre ammesso che esista veramente!) o chi altri ....?

E che dire dell' intervento militare degli Stati Uniti in Iran ( adesso si stanno fabricando una scusa con la protesta di 100 studenti Iraniani come se si trattasse di una WoodSTOOK islamica !!!), Somalia, Cuba, e Corea del Nord, che sono fra i 20 obbiettivi MONDIALI che intendono attaccare?

Per non contare gli obbiettivi NON DICHIARATI UFFICIALMENTE ANCORA.......MA UFFICIOSAMENTE NOTI !!!!!!!!!!!!!!!!!!

Credo proprio di sí a questo punto....

Chai, chai, chai - Ken, ani od chai!
Ze hashir shesaba
Shar etmol l'aba -
V'hayom ani.
Ani od chai, chai, chai
Am Yisrael chai
Ze hashir shesaba
Shar etmol l'aba
V'hayom ani.

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x libera !!!!
by 6 nazisionista? Monday, Jun. 16, 2003 at 8:59 PM mail:

Non fare troppi ''suggerimenti'' ai tuoi amici estremisti nazi-sionisti !!!!!!!


...che ne hanno gia' abbastanza nelle loro teste minorate !

No, non sara' la solita festa patronale, ma i riflessi del fuoco che divampera', saranno visibili fin dall'Europa per
poi, forse, raggiungere anche quella.

Poi e' troppo sangue da ripulire.
Ne avete versato troppo.

Fate loro saltare la Moschea sulla Roccia e poi mettetevi alla finestra a vedere i fuochi artificiali.

Le vostre armi e il vostro denaro sporco da usurai:il kamikaze e' da invidiare,quel keffiah con quella pietra che sfida l'oro sioniosta.

Andatevene dalla palestina.
Loro vogliono una terra per vivere......voi non gli date neppure quella.
Non vi meritate niente ebrei.
Siete sempre stati uguali:razzisti.

P.S.: ma si pazza?
ma sei suicida?
sei una ebrea kamikaazen?


BONZAIIIIIIIIIII !!!!


hahaha

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Terrorism must be fought, too
by zen Monday, Jun. 16, 2003 at 11:34 PM mail:

Editorial: Terrorism must be fought, too

Jun. 15, 2003


America's war in Iraq began and ended with targeted attacks against Saddam
Hussein in principle the same tactic used by Israel to eliminate some of the
worst terrorist chieftains on its very doorstep. In practice, however, there
are crucial differences.

The firepower and scale of Israeli actions are nothing like the mighty US
"shock and awe" spectacles. Israeli Intelligence also tends to pinpoint
targets more reliably. Odds for success are often compromised by Israel's
deliberate resort to less powerful means. Its decision to pull the trigger
is made almost reluctantly, regardless of the target's genocidal schemes
like those of Abdel Aziz Rantisi, who declared that "every Israeli child,
wife, and husband" is on his hit list.

Rantisi escaped an Israeli attack because the IDF didn't employ heavier
charges in its missiles, in an effort to minimize the loss of innocent
lives. Despite Rantisi's bloody-mindedness, Israel never described its
attempt to remove him from the scene as a "decapitation strike," which is
what the US called its air missions against Saddam. Semantics indicate a
great deal in this case. Israel doesn't hunt down even its most monstrous
enemies with relish.

It seeks exceedingly precise intelligence in order to avoid civilian
casualties, even if they are the kin of murderers, who deliberately and
indiscriminately seek to slaughter Israeli civilians.

When Arab noncombatants are hurt, as in the case of Hamas terrorist kingpin
Yasser Taha's wife and daughter, it's because something went wrong in the
Israeli plan not because Israel sought this result. In fact, Taha and his
ilk are in the habit of hiding behind human shields, including their own
families, because they realize that Israel imposes humane limitations on its
power. The terrorists have no qualms about exploiting Israel's liberal
decency.

Israeli sensitivity to civilian casualties is without match, even in the
enlightened free world. Americans have fewer compunctions about using the
massive power at their disposal, as was well evinced by the tons of
explosives dropped on a Baghdad restaurant, were Saddam was thought to be
dining. US forces felt justified, considering the villainy of their target.

Israel's attitude may be too moral for its own good, considering the
viciousness of the arena in which it struggles to survive. Israel's fight is
against those who would annihilate it; its self-defense of the most pressing
nature. Iraq's threat to the US was hardly as existential, yet America's war
was hardly sterile. "Collateral damage" in Iraq wasn't negligible, to say
nothing of Afghanistan.

In contrast to less tangible threats to America, 25 Israelis were slain by
Palestinian terrorists in the week following the Aqaba "peace" summit.
Proportionate to Israel's population, this is the equivalent of 1,250
American fatalities. Washington wouldn't have suffered such losses without
response, merely in order to wait for its adversary to muster the will to
curb the killers. Yet, Israel's government is expected by some to do just
that, while Israeli blood is spilled in the streets.

No government can be asked to neglect its citizens and no citizenry should
acquiesce to such neglect. Personal security is part of the tacit natural
contract between any population and its leadership. It's so in America and
so in the no-less democratic Israel. Israelis have no less of a right to
life, liberty, and the pursuit of happiness than Americans. The fact that we
live in immediate proximity to the heartland of Islamic terrorism and that
we aren't a superpower shouldn't diminish our rights.

These rights are violated by the willful distortion of our self-defense.
Portrayals of Israel's preemptive strikes as vengeful retaliation, which
spawns a "cycle of violence" offer succor to terrorism, because they presume
a moral equivalence between indiscriminate mass-murder and attempts to foil
murderers. Moreover, the onus for breaking the cycle is generally placed on
Israel, owing to the axiomatic acceptance of the inevitability and justice
of Arab retribution even for the lives of terrorists killed while firing
rockets at Israeli towns.

This lopsided logic has come to be expected from Europe. But it was
disappointing to hear US President George W. Bush censuring Israel in a
similar vein. The irony was particularly bitter, as his admonition came
while 4,000 American troops set out on Operation Peninsula Strike to hunt
down remaining Saddam loyalists north of Baghdad. Seventy deaths resulted
from a single American air assault against a suspected terrorist training
facility.

It's not enough for Washington to demand anti-terrorist action from the
Palestinian Authority or to request that duplicitous Arab regimes starve
terrorists of cash. Bush himself has frequently reminded us that terrorism
must be fought. It won't be talked out of existence. Appealing to the better
nature of assorted tyrants will yield nothing.

If Bush indeed champions combat against today's barbarians, then he must
make sure that his cause isn't marred by double standards. It's
unconscionable to use one yardstick for America and another for little
Israel.


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MADONNA IN ISRAELE PER GIRARE UN VIDEO.
by crono Monday, Jun. 16, 2003 at 11:39 PM mail:

MADONNA IN ISRAELE PER GIRARE UN VIDEO.

Incurante della preoccupazione del suo entourage e dei rischi per la sua sicurezza personale, secondo Peoplenews, Madonna avrebbe deciso di girare in Israele il nuovo video di "Nothing Fails", tratto dal suo ultimo album
"American Life".Sono mesi ormai che si parla della fissazione della cantante per laKabbalah, una forma di misticismo legata alla tradizione ebraica che
alcuni critici sostengono essere presa all'acqua di rose da Madonna e da altre celebrità che in questi mesi l'hanno abbracciata con convinzione. E siccome la canzone in questione parla proprio del legame tra la diva di "Like a
Virgin" e la sua nuova fede, quale luogo migliore che non Israele per girare il video?

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