Apparentemente intornoa Nassiriya c'è un'area paludosa importante solo per i Madam, gli arabi delle paludi che laabitano da millenni. In realtà sotto ci sono il 50%delle risreve accertate di petrolio iracheno.
Nei pressi della confluenza del Tigri e dell’ Eufrate, c’è un luogo che tutte le popolazioni antiche del Mediterraneo hanno sempre identificato come il Paradiso terrestre. I due fiumi, poco prima di raggiungere il mare, si fermano, si allargano e formano una palude, inondando d’acqua la pianura, formando quella che un tempo era la zona umida più grande di tutto il continente euroasiatico, estesa oltre 8 mila mila kmq, 20 mila nella stagione delle piogge (circa quanto la regione Lazio). Quell’area corrisponde esattamente alla regione dove si trova Nassiriya. In un area climatica dove la steppa e il deserto sono la normalità, l’acqua è sempre stato il bene più importante. E infatti si trova proprio qui la culla della civiltà più antica dell’area mediorientale, il centro della mezzaluna fertile, abitata da 5 mila anni a questa parte dai Madan, gli arabi delle paludi, discendenti degli antichi Sumeri, agricoltori e allevatori del bufalo d’acqua. Il paradiso però è diventato un inferno: solo il 10 per cento dell¹ambiente paludoso è rimasto intatto. Il resto è stato trasformato in una crosta deserta e salata. L’Eden infatti, si trova all’interno dei confini dell’Iraq. Il bacino idrico della mezzaluna fertile è condiviso tra Turchia, Siria, Iran, Iraq. Il corso dell¹Eufrate, lungo oltre 3 mila chilometri, è suddiviso in questo modo: 28% in Turchia, 17% in Siria, 40% in Iraq, 15% in Arabia Saudita. La maggior parte del flusso (89%) arriva dai corsi d’acqua turchi. La Turchia dunque rivendica la possibilità di utilizzare gran parte della risorsa. Non va meglio per quanto riguarda il corso del Tigri (1.850 km), così distribuito: 12% in Turchia, 0,2% in Siria, 54% in Iraq, 34% in Iran. L’Iraq è stato il primo Paese a sviluppare progetti per lo sfruttamento industriale delle acqua. Le prime dighe, che dovevano servire per controllare le piene e per favorire l’irrigazione, risalgono al 1914, all¹epoca in cui il Paese era dominato dalla Gran Bretagna. Dighe in Turchia e in Siria invece, comparvero negli anni Sessanta. Ed è del 1992 la diga di Ataturk, una delle più grandi nel mondo (la barriera è alta 184 m e lunga 1.800 m), che, secondo l’Iraq, ha drasticamente ridotto il flusso del fiume Eufrate, assetando le terre più a valle. La portata del fiume, che un tempo nella stagione delle piogge superava in alcuni punti i 200 mc/s, si è ridotta di oltre la metà. Secondo gli esperti che hanno collaborato a uno studio per l’agenzia internazionale dello sviluppo (Usaid), la modificazione è permanente. Nel caso si riuscisse a riportare l’acqua nelle aree umide, solo il 15 o il 20 per cento delle paludi potrebbe essere ripristinato. Durante la guerra tra Iran e Iraq (1980-1988), tra i canneti, di Al Hawizeh, lungo il confine con l’Iran, andavano a nascondersi i pasdaran iraniani. Per stanarli, Saddam Hussein utilizzò gas e defolianti a lunga persistenza, e fece costruire una rete di canali e di opere idrauliche che prosciugarono del tutto il suolo. Durante la prima guerra del Golfo (1990-1991) i nuovi terreni vennero utilizzati come area strategica nei combattimenti contro il Kuwait, con il risultato che ancora oggi si trovano ovunque mine e ordigni inesplosi. La Turchia ridusse ulteriormente la disponibilità d’acqua per costringere l’Iraq a fermarsi. Alcuni Madam che si erano rifugiati più a sud, tentarono di rientrare nelle loro proprietà. La risposta del regime fu brutale, emolti dei villaggi rimasti vennero distrutti. Gli arabi delle paludi infatti sono sciiti, e hanno sempre mantenuto buoni rapporti con i dissidenti iracheni e con gruppi sciiti iraniani. Ora solo 85 mila persone vivono ancora nelle terre degli antenati. Oltre 200 mila sono invece scappate in Iran, durante il regime di Saddam. Proprio dagli esiliati, e in particolare da un gruppo che risiede negli Usa, la Iraq Foundation, è arrivata la proposta di ripristinare le paludi e riportare gli esiliati a casa. Il progetto si chiama Eden again (Il paradiso di nuovo). L’associazione ha messo all’opera un grupppo di esperti (ingegneri, ecologi, idrologi chimici e geologi), capeggiati da una geologa per studiare il ripristino di alcune delle aree meno compromesse. Nel progetto però, non ci sono solo gli iracheni americani: il recupero delle paludi prevede una collaborazione dell’Italia, attraverso il Ministero dell’Ambiente. Si tratta di uno dei primi casi in cui il nostro Paese contribuisce economicamente e non, come avvenuto finora, offrendo solo pareri e consulenze di tecnici. Per la prima fase sono stati stanziati 1,2 milioni di euro, che però sicuramente aumenteranno. Si tratta infatti di un progetto pilota, che fa parte di un piano di intervento più generale ideato “per affrontare le emergenze ambientali”. E’ impossibile però non twenere presente che sotto a queste terre apparentemente povere e insulse, si nasconde il 50% delle riserve accertate di petrolio dell’Iraq, un Paese che, nella graduatoria dei produttori potenziali, è secondo solo all¹Arabia Saudita Secondo le stime dell’¹ufficio dell’Onu per gli aiuti umanitari in Iraq, circa 50 mila Madam rifugiati in Iran stanno aspettando di tornare nelle loro case. L’arrivo di chi è stato lontano tanto tempo, dice il rapporto, potrebbe però sollevare parecchi problemi, soprattutto per quanto riguarda la rivendicazione della proprietà delle terre. Apparentemente il recupero delle paludi viene incentivato perché potrebbe favorire la ripresa della produttività agricola e ittica, dando un grande contributo all’economia irachena: si stima che i raccolti di pesce, riso, orzo e datteri valgano oltre 600 milioni di dollari all’anno.Ma è inevitabile pensare che in realtà dei canneti, delle anatre e degli abitanti che vivono nellepaludi , non importa a nessuno, mentre ben altre sonole ricchezze da spartire.
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