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Sottto le paludi di Nassiriya
by slovnius Thursday, Feb. 26, 2004 at 11:43 PM mail:

Apparentemente intornoa Nassiriya c'è un'area paludosa importante solo per i Madam, gli arabi delle paludi che laabitano da millenni. In realtà sotto ci sono il 50%delle risreve accertate di petrolio iracheno.

Nei pressi della confluenza del Tigri e dell’
Eufrate, c’è un luogo che tutte le popolazioni
antiche del Mediterraneo hanno sempre identificato come il Paradiso terrestre. I due fiumi, poco prima di raggiungere il mare, si fermano, si
allargano e formano una palude, inondando d’acqua la pianura, formando quella che un tempo era
la zona umida più grande di tutto il continente euroasiatico, estesa oltre 8
mila mila kmq, 20 mila nella stagione delle piogge (circa quanto la regione
Lazio). Quell’area corrisponde esattamente alla regione dove si trova Nassiriya.
In un area climatica dove la steppa e il
deserto sono la normalità, l’acqua è sempre stato il bene più importante. E infatti si
trova proprio qui la culla della civiltà più antica dell’area mediorientale,
il centro della mezzaluna fertile, abitata da 5 mila anni a questa
parte dai Madan, gli arabi delle paludi, discendenti degli antichi Sumeri,
agricoltori e allevatori del bufalo d’acqua.
Il paradiso però è diventato un
inferno: solo il 10 per cento dell¹ambiente paludoso è rimasto intatto. Il
resto è stato trasformato in una crosta deserta e salata. L’Eden infatti, si
trova all’interno dei confini dell’Iraq. Il bacino idrico della mezzaluna fertile è condiviso tra
Turchia, Siria, Iran, Iraq. Il corso dell¹Eufrate, lungo oltre 3 mila
chilometri, è suddiviso in questo modo: 28% in Turchia, 17% in Siria, 40% in
Iraq, 15% in Arabia Saudita. La maggior parte del flusso (89%) arriva dai
corsi d’acqua turchi. La Turchia dunque rivendica la possibilità di
utilizzare gran parte della risorsa. Non va meglio per quanto riguarda il
corso del Tigri (1.850 km), così distribuito: 12% in Turchia, 0,2% in Siria,
54% in Iraq, 34% in Iran. L’Iraq è stato il primo Paese a sviluppare
progetti per lo sfruttamento industriale delle acqua. Le prime dighe, che
dovevano servire per controllare le piene e per favorire l’irrigazione,
risalgono al 1914, all¹epoca in cui il Paese era dominato dalla Gran
Bretagna. Dighe in Turchia e in Siria invece, comparvero negli anni
Sessanta. Ed è del 1992 la diga di Ataturk, una delle più grandi nel mondo
(la barriera è alta 184 m e lunga 1.800 m), che, secondo l’Iraq, ha
drasticamente ridotto il flusso del fiume Eufrate, assetando le terre più a
valle. La portata del fiume, che un tempo nella stagione delle piogge
superava in alcuni punti i 200 mc/s, si è ridotta di oltre la metà. Secondo
gli esperti che hanno collaborato a uno studio per l’agenzia internazionale
dello sviluppo (Usaid), la modificazione è permanente. Nel caso si
riuscisse a riportare l’acqua nelle aree umide, solo il 15 o il 20 per cento
delle paludi potrebbe essere ripristinato. Durante la guerra tra Iran e Iraq
(1980-1988), tra i canneti, di Al Hawizeh, lungo il confine con l’Iran,
andavano a nascondersi i pasdaran iraniani. Per stanarli, Saddam Hussein
utilizzò gas e defolianti a lunga persistenza, e fece costruire una rete di
canali e di opere idrauliche che prosciugarono del tutto il suolo. Durante
la prima guerra del Golfo (1990-1991) i nuovi terreni vennero utilizzati
come area strategica nei combattimenti contro il Kuwait, con il risultato
che ancora oggi si trovano ovunque mine e ordigni inesplosi. La Turchia
ridusse ulteriormente la disponibilità d’acqua per costringere l’Iraq a
fermarsi. Alcuni Madam che si erano rifugiati più a sud, tentarono di
rientrare nelle loro proprietà. La risposta del regime fu brutale, emolti
dei villaggi rimasti vennero distrutti. Gli arabi delle paludi infatti sono
sciiti, e hanno sempre mantenuto buoni rapporti con i dissidenti iracheni e
con gruppi sciiti iraniani. Ora solo 85 mila persone vivono
ancora nelle terre degli antenati. Oltre 200 mila sono invece scappate in
Iran, durante il regime di Saddam. Proprio dagli esiliati, e in particolare da un gruppo che risiede negli Usa, la Iraq Foundation, è arrivata la
proposta di ripristinare le paludi e riportare gli esiliati a casa. Il progetto si chiama
Eden again (Il paradiso di nuovo). L’associazione ha messo all’opera un grupppo di esperti (ingegneri, ecologi, idrologi chimici e geologi), capeggiati da una geologa per studiare il
ripristino di alcune delle aree meno compromesse.
Nel progetto però, non ci sono solo gli iracheni americani: il recupero delle paludi prevede una collaborazione dell’Italia, attraverso il Ministero dell’Ambiente. Si tratta di uno dei
primi casi in cui il nostro Paese contribuisce economicamente e non, come
avvenuto finora, offrendo solo pareri e consulenze di tecnici. Per la prima
fase sono stati stanziati 1,2 milioni di euro, che però sicuramente aumenteranno. Si tratta infatti di un progetto pilota, che fa parte di un piano di intervento più generale ideato “per affrontare
le emergenze ambientali”. E’ impossibile però non twenere presente che sotto a queste terre apparentemente povere e insulse, si nasconde il 50% delle riserve accertate di petrolio
dell’Iraq, un Paese che, nella graduatoria dei produttori potenziali, è
secondo solo all¹Arabia Saudita
Secondo le stime dell’¹ufficio dell’Onu per gli aiuti umanitari in
Iraq, circa 50 mila Madam rifugiati in Iran stanno aspettando di tornare
nelle loro case. L’arrivo di chi è stato lontano tanto tempo, dice il rapporto, potrebbe però
sollevare parecchi problemi, soprattutto per quanto riguarda la
rivendicazione della proprietà delle terre. Apparentemente il recupero delle
paludi viene incentivato perché potrebbe favorire la ripresa della produttività agricola e ittica,
dando un grande contributo all’economia irachena: si stima che i raccolti di
pesce, riso, orzo e datteri valgano oltre 600 milioni di dollari all’anno.Ma è inevitabile pensare che in realtà dei canneti, delle anatre e degli abitanti che vivono nellepaludi , non importa a nessuno, mentre ben altre sonole ricchezze da spartire.

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