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Le inchieste contro i 29 poliziotti
by ziaGenova Monday, Jul. 19, 2004 at 7:30 PM mail:

PUNTO SULLA SITUAZIONE INCHIESTE AI VERTICE DELLA POLIZIA PER I FATTI RIGUARDANTI LA DIAZ.

La verità storica, per l’essenziale, è già scritta.
L’irruzione alla scuola Diaz venne decisa dai massimi vertici della polizia presenti a Genova per il G8, in una riunione tenuta la sera del 21 luglio 2001, dopo due giorni di scontri con un morto, centinaia di feriti e pochi arresti, nella stanza del questore Colucci.
A presiederla c’era il prefetto Arnaldo La Barbera, capo della polizia di prevenzione arrivato quel pomeriggio da Roma, alla presenza di Gratteri (capo dello Sco), Calderozzi (suo vice), Murgolo (vicequestore di Bologna), Mortola (capo Digos Genova) e dalle 22,30 in poi anche Canterini (capo reparto mobile Roma), tutti funzionari che si ritroveranno nella scuola: il via libera lo diede Gianni De Gennaro, per telefono.

Più che una perquisizione, che infatti non si fece, venne decise una retata:
volevano fare il massimo numero di arresti a fronte di un bilancio disastroso per l’ordine pubblico. E’ noto che il vicecapo della polizia, prefetto Ansoino Andreassi, manifestò le sue perplessità e non partecipò alla riunione operativa. Del resto, inviando a Genova La Barbera, De Gennaro l’aveva praticamente “sfiduciato”.
Rimane da chiarire il perché del ricorso ai 70 uomini del nucleo speciale del reparto mobile (ex celere) di Roma e l’inaudita ferocia dell’irruzione, alla quale presero parte decine di altri poliziotti in divisa o in borghese ma comunque appartenenti ad altri reparti.

L’operazione, ufficialmente giustificata con la sassaiola che avrebbe colpito le auto di un pattuglione di polizia, si concluse con 61 feriti sui 93 manifestanti trovati nella scuola, che per lo più dormivano e che – secondo il decreto di archiviazione delle accuse a loro carico – oltre a chiudere cancello e portone (sfondati) non opposero una significativa resistenza. Tutti e 93 vennero arrestati per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio in base ai verbali di perquisizione e sequestro che attestavano del ritrovamento di armi improprie e di due molotov, ma i giudici genovesi non convalidarono gli arresti.

I CAPI D’ACCUSA:

L’udienza preliminare che si e' aperta sabato 26 giugno 2004 per il pestaggio e le prove false alla scuola Diaz, fa tremare il Viminale.
Tra i ventinove imputati ci sono uomini vicinissimi al capo della polizia, come Francesco Gratteri promosso alla testa dell’antiterrorismo giusto in tempo per essere presentato come il castigatore delle nuove Br; dirigenti di primo piano come il capo degli analisti della polizia di prevenzione, Gianni Luperi (coordinatore della task force europea che indaga sugli anarchici); investigatori come Gilberto Calderozzi (ex vice di Gratteri allo Sco), Filippo Ferri (dalla squadra mobile di La Spezia alle indagini sull’omicidio Biagi) e Fabio Ciccimarra (imputato anche a Napoli per le violenze sugli arrestati nella caserma Raniero). Si tratta di funzionari che hanno decine di agenti alle loro dipendenze e che, ad eccezione di Luperi, provengono tutti dal mondo delle squadre mobili e della lotta alla criminalità comune e organizzata, a cominciare da Gratteri e dallo stesso De Gennaro. Devono rispondere di falso e calunnia , essenzialmente per la vicenda delle due molotov fasulle, insieme agli altri firmatari dei verbali della Diaz, da Mortola al vicequestore Massimiliano Di Bernardini (nucleo antirapine, squadra mobile di Roma), al vicequestore Pietro Troiani e all’ex agente Alberto Burgio, che maneggiarono quelle due bottiglie prima che finissero nelle mani dei dirigenti, ripresi nel cortile da una provvidenziale telecamera.

Per il pestaggio all’interno della Diaz sono imputati di lesioni personali in concorso Vincenzo Canterini, Michelangelo Fournier (suo vice al reparto mobile di Roma) e gli otti capisquadra ((Fabrizio Basili, Ciro Tucci, Carlo Lucaroni, Emiliano Zaccaria, Angelo Cenni, Fabrizio Ledoti, Pietro Stranieri e Vincenzo Compagnone). Le immagini, le dichiarazioni di Gratteri davanti alla commissione parlamentare e le stesse relazioni di servizio dei capisquadra, intrecciate con le deposizioni dei pestati che in qualche caso hanno potuto riconoscere le divise, indicano che i settanta celerini romani, tutti dello speciale nucleo antisommossa creato prima del G8, sono entrati per primi, ma che al pestaggio hanno preso parte decine di poliziotti in divisa e in borghese, mai identificati. Per questo la procura ha chiesto l’archiviazione delle accuse contro gli agenti semplici di Canterini.

Uno di loro, Massimo Nucera, è accusato però di falso e calunnia per aver denunciato di aver ricevuto una coltellata, da un occupante della scuola mai identificato, durante l’operazione.

Un ultimo gruppo di funzionari e agenti è chiamato a rispondere di perquisizione arbitraria, danneggiamento, furto e lesioni personali per aver fatto irruzione nella scuola davanti alla Diaz, la Pascoli, che ospitava il Media center del Genoa social forum. Computer distrutti, hard disk portati via, materiale sequestrato.
Gli imputati sono Salvatore Gava, capo della mobile di Nuoro, il napoletano Alfredo Fabbroncini e il «mobiliere» romano Luigi Fazio, quest'ultimo accusato anche di percosse a un giovane tedesco.
Durante l’audizione davanti alla commissione parlamentare d’indagine sul G8, Gratteri si era assunto la responsabilità di quanto avvenuto alla Pascoli, perché era stato lui a dare ordine di perquisire anche lì.


L’INDAGINE:

L’inchiesta sulla perquisizione alla Diaz è cominciata quando i giudici genovesi, dopo aver ascoltato gli arrestati, hanno rifiutato di convalidare gli arresti e di trasmettere gli atti alla procura della repubblica.
Nel frattempo De Gennaro era stato costretto a nominare tre super-ispettori per altrettante rapidissime indagini amministrative interne: una sugli incidenti di piazza, una sulle sevizie nella caserma di Bolzaneto e una appunto sulla Diaz, affidata al questore (oggi prefetto) Giuseppe Micalizio. In pochi giorni Micalizio ha concluso che l’operazione era stata organizzata male e che le violenze ingiustificate c’erano state. Sulla scorta delle sue conclusioni scattano tre provvedimenti di peso. Vengono rimossi dai loro incarichi il vicecapo vicario della polizia Ansoino Andreassi, il numero uno dell'antiterrorismo Arnaldo Barbera e il questore Francesco Colucci (praticamente tutti quelli che quella notte si erano dichiarati contrari all'irruzione nella scuola), mentre per Canterini proponeva la destituzione (licenziamento) dalla polizia di stato. Subito dopo De Gennaro, La Barbera, Gratteri e lo stesso Canterini venivano ascoltati dai parlamentari del comitato d’indagine sul G8: poco o nulla rispetto a quello che tireranno fuori i magistrati, ma abbastanza per vedere il capo della polizia in difficoltà, Gratteri che invece difende a spada tratta le scelte operative (“le perquisizioni non si fanno con i guanti”) e La Barbera e Canterini che si scontrano pubblicamente, con il primo che afferma di aver sconsigliato il blitz senza essere ascoltato dal secondo. Gli dissi: “Passiamo la mano, che non è cosa…”.

Alla procura della repubblica però non è bastato per mettere sotto accusa tutti i funzionari presenti al blitz.
Sulle prime, nel luglio e nell’agosto 2001, nessuno viene iscritto nel registro degli indagati, al massimo i poliziotti possono essere ascoltati come testimoni. Comincia subito il braccio di ferro trra il procuratore capo Francesco Meloni, spalleggiato dall’aggiunto Francesco Lalla che prenderà il suo posto nel 2003, e i sostituti che si occupano direttamente del caso, Enrico Zucca e Francesco Pinto ai quali si aggiungono Francesco Cardona Albini, Monica Parentini, Stefania Petruziello e Vittorio Ranieri Miniati.
Comincia l’ostruzionismo della polizia: ancora oggi non esiste una lista completa dei 270 poliziotti che presero parte al blitz. E ci vogliono mesi per identificare i quattordici firmatari dei verbali: anzi tredici, perché la quattordicesima firma rimarrà per sempre illeggibile. Qualche mese dopo, però, Canterini e tutto il reparto vengono messi sotto inchiesta per concorso in lesioni personali.

Una vera e propria svolta arriva nel novembre 2001.
I pm rilevano che Pasquale Guaglione, vicequestore a Gravina di Puglia (Bari) e in servizio a Genova per il G8, aveva riferito di aver consegnato a reparti della polizia due bottiglie molotov rinvenute in Corso Italia durante i disordini, nel tardo pomeriggio del 21 luglio. Il bravo Guaglione l’aveva scritto nella relazione di servizio, mancava però il verbale di sequestro delle due bombe, considerate armi da guerra. E l' assenza di questo verbale ha insospettito i pm Pinto e Zucca, che hanno deciso di fare interrogare Guaglione per rogatoria dalla procura di Bari, utilizzando un piccolo trucchetto investigativo. Al funzionario sono state mostrate le bottiglie incendiarie sequestrate alla Diaz, senza dirgli che erano quelle della scuola, e chiedendogli invece se erano quelle che aveva trovato in corso Italia. Guaglione le ha riconosciute subito come quelle scoperte dalla sua pattuglia, perché ricordava le etichette di noti vini. Altro particolare, Guaglione ha riferito ai pm di non averle consegnate a un celerino qualsiasi ma al dirigente Valerio Donnini, che era a Genova come responsabile di tutti i reparti celere ed è il padre del nucleo antisommossa entrato alla Diaz: il questore, durante la riunione con La Barbera, chiama proprio Donnini per mobilitare quel nucleo per entrare nella scuola. E proprio sulla jeep Magnum di Donnini, guidata dall’ex agente Antonio Burgio con a bordo il veicequestore Pietro Troiani, le due bottiglie incendiarie sono finite alla Diaz. I pm l’hanno saputo dall’autista, che era lo stesso di Corso Italia, un giovanotto che si dice pentito di quello che gli hanno fatto fare e per questo si è dimesso dalla polizia, dove peraltro non si sarebbe mai liberato del marchio dell’infame.

Nel maggio del 2002 i pm ricevono la perizia del RIS (Reparto Investigazioni Scientifiche) dei carabinieri, relativa al giubbotto e al corpetto antiproiettile del Nucera, il quale aveva dichiarato di aver ricevuto una coltellata da un manifestante durante l'irruzione alla Diaz. Nella relazione del colonnello Garofano e a pagina 16 si legge che “le prove sperimentali di taglio effettuate hanno sempre dimostrato, al contrario di quanto osservato sui reperti, un pressoché perfetto allineamento tra le lacerazioni presenti sul giubbotto e quelle sottostanti prodotte sul paraspalle”. Al contrario, scrivono i carabinieri a pagina 19, “i tagli presenti sul giubbotto non risultano allineati a quelli sottostanti presenti sul paraspalle. Esiste pertanto una evidente incompatibilità tra i tagli presenti sugli indumenti in reperto e quelli ottenuti sperimentalmente secondo le dinamiche che è stato possibile evincere dalle affermazioni del Nucera”.

L’agente Nucera a quel punto non potrà far altro che cambiare versione: il 7 ottobre 2002, a quindici mesi dai fatti, dirà che la coltellata non era stata una sola (come aveva affermato in modo nettissimo per ben due volte, prima nell’annotazione di servizio e poi davanti ai pm che lo ascoltavano come persona offesa) ma in realtà erano state due. Successivamente, con la procedura dell’incidente probatorio, interverrà una seconda perizia, affidata dal giudice al dottor Carlo Torre, già responsabile di aver inquinato l’indagine sull’omicidio di Carlo Giuliani suggerendo la tesi del calcinaccio assassino che avrebbe deformato e deviato il proiettile del carabiniere Mario Placanica: a giudizio di Torre il secondo racconto di Nucera è compatibile con i tagli riportati su giubbotto e paraspalle. Per i periti delle persone offese gli indumenti riportano lacerazioni che fanno pensare ad almeno quattro distinti colpi.

Ma il centro dell’indagine è ormai la vicenda delle due bottiglie incendiarie. Nel giugno del 2002 i pm mettono a fuoco un filmato dell’emittente genovese Primocanale, che mostra un gruppo dei funzionari più alti in grado con il sacchetto azzurro contenente le due bottiglie molotov, nel cortile della scuola Diaz.
Un colpaccio.
Così si capisce in quali mani sono finite le due bottiglie, portate fin lì da Burgio su ordine di Troiani. Attorno al sacchetto azzurro il video mostra Luperi, Caldarozzi, Murgolo, Gratteri, Canterini, passa di lì anche La Barbera: nessuno di loro, fino a quel momento, aveva ammesso di aver visto le molotov nel cortile. Al massimo le hanno viste in un momento successivo. Comunque senza sacchetto.
Il 31 luglio i pm si fanno ripetere per benino queste dichiarazioni, poi spengono la luce e mostrano il filmino agli autorevoli indagati. Luperi, dopo aver visto quella scenetta, perde la parola: da quel momento si rifiuta di rispondere. Gratteri risponde ancora e se la prende con il reparto di Canterini, secondo la linea di difesa concordata con De Gennaro. Ma esce dal palazzo di giustizia nero di rabbia. Sa che non potrà evitare la richiesta di rinvio a giudizio. L’unico che si salva è Murgolo, l’ex vicequestore di Bologna che oggi fa il dirigente del servizio segreto militare, il Sismi: i pm chiedono l’archiviazione perché Murgolo era lì solo per rappresentare il prefetto Andreassi, rimanendo al di fuori delle due “catene di comando” individuate dall’indagine: quella degli uomini delle squadre mobili, facente capo ai dirigenti dello Sco Gratteri e Calderozzi, e quella degli uomini delle Digos facente capo ai dirigenti della polizia di prevenzione, La Barbera e Luperi. Tutti costoro, in ogni caso, evitano le accuse relative al pestaggio perché sono riusciti a dimostrare ai pm di essere arrivati dopo l’irruzione.

Gli interrogatori hanno chiarito che le molotov sono arrivate nel cortile perché ce le ha portate Burgio, su ordine di Troiani che ancora oggi non si sa bene cosa facesse lì. Ufficialmente non era tra i partecipanti alla perquisizione, ci è andato come se fosse una festa. Secondo Troiani, assistito dall’avvocato Alfredo Biondi ex ministro della giustizia, le due bottiglie sono finite in mano a Massimiliano Di Bernardini, suo parigrado, vicequestore aggiunto a capo del nucleo antirapine della squadra mobile di Roma. Di Bernardini ha invece negato di averle prese, ha ammesso solo di averle viste nel cortile in mano ad altri. I due hanno mantenuto versioni diverse anche se la polizia faceva di tutto perché si mettessero d’accordo: a Troiani, quando gli hanno notificato la convocazione dei pm genovesi, la questura di Roma (nella persona di …) ha consegnato anche il numero di telefonino di Di Bernardini. E’ comunque accertato che le bottiglie sono arrivate a Calderozzi, vice di Gratteri allo Sco e dunque superiore diretto di Di Bernardini (alla Diaz gli uomini delle squadre mobili dipendevano da Gratteri e da Caldarozzi). E Caldarozzi effettivamente compare nel filmato del cortile. Naturalmente tutti gli indagati si difendono, sostenendo di non aver preso parte a nessun disegno calunnioso. Fanno però una gran fatica a sostenere che nessuno di loro, pur essendo tutti investigatori esperti, si è informato sulla precisa provenienza di quelle “armi da guerra”. Dove erano state trovate? Da chi? Nei verbali, scritti da Ciccimarra e Ferri e firmati anche da Caldarozzi, si legge che le bottiglie sono state rinvenute all’interno della scuola, nella palestra al piano terra, in modo che risultassero “nella disponibilità dei 93 occupanti” arrestati. E questa informazione, al termine dell’indagine, è risulta falsa e calunniosa. Non è l’unica, peraltro: nei verbali le stecche degli zaini sono indicati come spranghe, armi improprie, e un ricco catalogo di altri oggetti atti a offendere è ricavato dagli attrezzi di un cantiere, che era rimasto chiuso finché non è arrivata la polizia.

Il processo, se la giudice Daniela Faraggi deciderà il rinvio a giudizio, si farà su questo. Davanti al tribunale Gratteri e gli altri dovranno spiegare che erano lì ma non si sono accorti dei falsi e delle calunnie: se invece se n’erano accorti, in qualità di pubblici ufficiali avevano l’obbligo giuridico di impedirli e, se non lo fanno, la legge li considera colpevoli allo stesso titolo dei responsabili materiali (articolo 40 secondo comma, codice penale). Sarà un processo indiziario, come tanti altri, ma costruito su materiale un po’ più solido di qualche telefonata, che magari può valere un’accusa di banda armata in una delle tante indagini firmate da questi signori.

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