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Guantanamo: Ogni giorno prigionieri violentati e torturati per 20 ore consecutive
by INTERVISTA - 2a PARTE Tuesday, Jun. 07, 2005 at 11:36 AM mail:

Il cittadino britannico Moazzan Begg, rilasciato dopo tre anni nei lager Usa di Kandahar, Bagram e Guantanamo, ricorda le torture, gli stupri, le umiliazioni e le profanazioni del Corano

INTERVISTA

«Torturato così a Guantanamo e Bagram»
Il cittadino britannico Moazzan Begg, rilasciato dopo tre anni nei lager Usa di Kandahar, Bagram e Guantanamo, ricorda le torture, gli stupri, le umiliazioni e le profanazioni del Corano
PATRICIA LOMBROSO
NEW YORK

Ogni giorno, a Guantanamo, un detenuto viene sessualmente violentato, torturato ed interrogato anche per 20 ore consecutive. La tortura sia fisica, sia psicologica è sistematica e di routine. Gli scherni contro la religione, il disprezzo e gli insulti contro i detenuti arabi e musulmani è una costante sia a Guantanamo, sia a Bagram, in Afghanistan, Non mi piace affatto parlare del mio passato. Cerco soltanto di dimenticare. Ma penso a coloro che sono ancora in quei lager». Queste le prime parole di Moazzan Begg - da noi raggiunto telefonicamente a Birminghan - rilasciato da Guantanamo dopo oltre tre anni di «barbarie animalesca» nei centri di detenzione di Kandahar, Bargram, Guantanamo. Tre anni fa proprietario di una libreria a Birmingham, oggi un rottame umano.


Può raccontarci l'inizio della sua discesa verso gli inferi della detenzione nelle carceri americane?


Il 21 gennaio del 2002, a Islamabad, in piena notte, militari della polizia segreta pakistana ed agenti americani hanno fatto irruzione nella casa dove abitavo. Mi hanno puntato una pistola al capo, sono stato incappucciato, ammanettato, incatenato mani e piedi, caricato su un veicolo e portato via... Sul camion che mi portava via, gli americani mi hanno strappato di dosso gli indumenti.


Gli agenti americani le hanno spiegato le ragioni del sequestro?


Uno degli agenti segreti in borghese mi ha mostrato un paio di manette dicendo che ero un terrorista e che la vedova di una vittima dell'attacco dell'11 settembre aveva dato loro l'incarico di dare la caccia a coloro che avevano effettuato l'attacco terroristico. Quando chiesi di vedere un rappresentante del consolato britannico, mi risposero «Lei è stato sequestrato ed imprigionato illegalmente. Nessuno sa dove lei sia. Quindi non può chiedere alcunché né effettuare alcun ricorso per ottenere giustizia.


Dove venne portato dagli agenti americani?
Incatenato mani e piedi, con un pesante cappuccio che mi impediva di vedere e respirare venni tradotto a Kandahar dove rimasi per circa due mesi.


E poi?


Nell'inferno di Bagram, dall'aprile del 2002 sino al febbraio del 2003 e infine in quello di Guantanamo sino al gennaio del 2005..


Ci descrive le condizioni del lager di Kandahar?


Qui, gli americani ci strappavano tutti gli indumenti da dosso utilizzando un coltello. Durante gli interrogatori che duravano anche 20 ore consecutive, di giorno e di notte. Le forme di tortura erano molteplici e sistematiche. Ci picchiavano ed eravamo presi a pugni in ogni parte del corpo fra grida, ed insulti. Una volta denudati ci davano calci, ci facevano stare in posizione fetale con le mani legate alle gambe. Per giorni senza cibo e trattati come animali. Oltre alla privazione del sonno, anche per 36-72 ore, durante gli interrogatori i comandanti del carcere, uomini e donne, ricorrevano ad ogni tipo di violenza sessuale. Siamo stati sodomizzati con dei pezzi di legno. Ci soffocavano stringendo il cappuccio che avevamo in testa. Gli americani si divertivano a fotografarci. Ci riprendevano, nudi, incappucciati. Uno ammassato all'altro. A volte, durante gli interrogatori ci legavano mani e piedi con una corda e ci appendevano per le mani legate ad una barra al soffitto. Rimanevamo appesi in aria, per giorni sino al collasso.


Durante gli interrogatori venivate insultati perché islamici, il corano profanato?


L'insulto e la dissacrazione religiosa erano routine sia a Kandahar, Bagram (Afghanistan) sia a Guantanamo. Quando arrivava un nuovo detenuto, durante la fase del «processing», venivamo denudati, rasati. Una volta tagliata la barba, ad alta voce, urlavano: «Questo è l'insulto peggiore che possiamo fare a questi animali». Nelle toilette dappertutto c'erano scritte ai muri: «Fuck Islam». A Guantanamo, un soldato ha fatto a pezzi le pagine del Corano e poi le ha gettate in un secchio che serviva da toilette.


Lei ha mai chiesto, conoscendo bene l'inglese, perché venivate torturati?


Rispondevano che eravamo terroristi. Non avevamo alcun diritto. Nella prima fase del «processing» si viene isolati in gabbie con il divieto di comunicare l'un con l'altro, in un'area, chiamata «the bond». Un hangar di metallo che era suddiviso in due parti. In ciascuna c'erano sei celle circondate da triplice filo spinato. In questa gabbia sono stato due mesi in totale isolamento. E' una tecnica di tortura psicologica: avevo il senso di essere totalmente perduto.


Quando viene trasferito a Bagram?


Il 14 aprile 2002. Sono stato lì fino al 17 febbraio 2003. Le regole erano rigidissime. Non avevamo il permesso di avvicinarci agli altri né di parlare. Durante la notte veniva urlato il numero del detenuto che veniva trascinato dalla gabbia alla stanza di interrogatorio. La tortura era sistematica.
In una lettera a suo padre lei sosteneva di essere stato testimone della morte di due detenuti causata dalle torture a Bagram...
Sì, sono stato testimone della loro uccisione. Il primo era nella mia cella, l'altro l'ho visto trascinato dai soldati americani verso l'infermeria. Il primo fra giugno e luglio del 2002, il secondo nel dicembre di quello stesso anno.


Cosa vide dalla cella?


Il detenuto veniva picchiato, soprattutto alle gambe. Era di fronte alla mia cella. Nella zona chiamata «Air lock». Era lì con mani e piedi legati ed appeso sopra la porta della sua cella. E' rimasto così per tre giorni consecutivi. Urlava e gridava di aiutarlo. I soldati invece di slegarlo continuarono a picchiarlo all'altezza delle costole. Quando poi l'hanno trascinato ormai morto alla «isolation unit», era ormai morto. La conferma di ciò l'ho ottenuta un anno e mezzo dopo a Guantanamo.


Come?


Ricordavo il numero del detenuto 419. Aveva una lunga barba, era afghano, parlava pashtun. Due giorni dopo il mio arrivo a Guantanamo (febbraio 2003), gli stessi agenti di Bagram si presentarono di notte a Guantanamo. Chiesero al secondino di uscire e mi mostrarono le foto dei due detenuti morti per tortura e le foto dei soldati responsabili. Ma credo siano ancora al loro posto di lavoro impuniti.


Ci racconti le condizioni di detenzione a Guantanamo.


Ogni singolo giorno venivo torturato, fisicamente violentato. Durante gli interrogatori venivano usati gli stessi metodi impiegati a Bagram. Interrogato da agenti dell'Fbi, della Cia, del servizio segreto del Pentagono. Mi legavano mani e piedi e sistematicamente venivo picchiato e preso a calci in ogni parte del corpo. Poi mi minacciarono di spedirmi in Egitto per essere torturato con gli elettrodi ai genitali.


Ci descrive le sue condizioni in cella di isolamento?


La cella di isolamento è una piccolissima cella all'interno della quale è costruita una gabbia ancora più piccola delle dimensioni di 1,52 per un metro e ottanta. Un secondino è davanti alla cella per 24 ore. L'illuminazione artificiale: con una lampadina. Non sapevo mai se fosse notte o giorno. Non potevo comunicare con nessuno. Lì sono rimasto rinchiuso più di due anni. Mi venivano concessi, inizialmente 15 minuti d'aria. Uno spazio chiuso, senza luce, circondato da una gabbia. E' una condizione peggiore di un animale. In seguito il tempo di ricreazione venne esteso a 30 minuti due volte a settimana con la possibilità di una doccia. Passavo molto del tempo a pregare, memorizzavo il corano. Scrivevo poesie. Poi ho avuto dei seri problemi psicologici.


A Guantanamo c'era il generale il generale Jeffrey Miller?


Gli stessi agenti Cia di Bagram volevano farmi firmare una falsa confessione e il generale Jeffrey Miller era presente. Mi presentarono un testo da firmare in base al quale nel 1993 e nel 1998 avevo fornito soldi che sono serviti per l'addestramento degli autori dell'attacco dell'11 settembre. Se mi fossi rifiutato di firmare non sarei mai più uscito da quella cella di isolamento. E nessuno avrebbe mai saputo della mia morte. Erano agenti Cia, dell'Fbi e della Criminal Investigation Task Force istituita a Guantanamo. Firmai un falso. Tutti sapevano che i detenuti venivano obbligati a sottoscrivere dichiarazione false.


Il Manifesto

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L'impero fuorilegge
by ANGELA PASCUCCI Tuesday, Jun. 07, 2005 at 11:47 AM mail:

L'impero fuorilegge
ANGELA PASCUCCI

Non ci sono immagini a documentare le pene che Moazzam Begg ha sofferto nei tre anni trascorsi da prigioniero degli Stati uniti tra Bagram e Guantanamo. Solo le parole sofferenti che oggi consegna in un'intervista al manifesto. Ma ormai, dopo Abu Ghraib, niente è più lasciato all'immaginazione più crudele e quel film torna a scorrere nella nostra mente, dando alla denuncia la concretezza insopportabile di corpi spezzati e anime distrutte. Un'ossessione che non ci lascerà e continuerà a interrogare le nostre coscienze, perché Begg ci fa sapere che le torture continuano a essere inflitte ai «nemici combattenti». E sempre più lo saranno. Perché la guerra non finisce, ma si rinnova ogni giorno, alimentata com'è da un odio e da un disprezzo coltivati con ferocia, negli angoli più sordidi come alla luce del sole. E chi lo fa parlando di liberazione, porta un carico ancor più grande di responsabilità. Un anno è trascorso da quando i fotogrammi di torture, sevizie e umiliazioni che i carcerieri americani infliggevano ai detenuti «evasero» dal carcere di Baghdad per colpire in pieno, come una verità improvvisamente rivelata, il mondo. Il presidente Bush si disse allora «disgustato». Non che fossero mancati rapporti ufficiali su quel che accedeva, ma lui e la sua corte li avevano ignorati. Erano solo parole. Invece quelle immagini...Invece, oggi ne abbiamo ulteriore conferma, neppure quelle immagini produssero nulla. Ma poiché, come scrisse allora Susan Sontag in un saggio mirabile su Abu Ghraib, «le parole alterano, le parole aggiungono, le parole sottraggono», soprattutto quando si incarnano, Donald Rumsfeld respinse persino il termine «torture». «Abusi», magari «umiliazioni», in ogni caso qualcosa che per il segretario alla difesa non poteva «tecnicamente» essere definito «tortura». Leggete la testimonianza di Moazzam, per capire l'indecenza di quel «tecnicamente».
Ma il nominalismo ha sempre un senso. Respingere il termine «tortura» è servito all'amministrazione Usa per schivare giudizi più alti e assolvere i vertici militari. Nei processi tenuti finora, solo i «piccoli torturatori» hanno pagato, ultimo anello di un'unica catena di comando.
Mentre Moazzam racconta, il Pentagono è costretto a dare i dettagli delle profanazioni del Corano a Guantanamo. E se la denuncia del libro gettato nel bugliolo continua a non essere confermata, si ammettono dissacrazioni altrettanto gravi, mal dissimulate dalla proclamata «non intenzionalità» dei carcerieri, che «incidentalmente» inzuppano di urina i detenuti e il loro libro sacro.
Le barricate erette dal potere Usa contro la realtà, continuano a franare, rovine che si aggiungono a quelle di una guerra che ogni giorno sposta l'orizzonte verso l'infinito. C'è poco da rallegrarsi. Se non si riuscirà a fermare il delirio bellico e chiudere la vergogna umana che, per usare ancora le parole della Sontag, è «l'impero penale extralegale americano», edificato anche in nome della «nostra» sicurezza, ci scopriremo un giorno tutti prigionieri.

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