Anche se è un borghese,Sergio Romano butta lì un paio di riflessioni interessanti sul movimento.
Centrosinistra, ribellismo e antimodernismo UNA BATTAGLIA DA NON EVITARE di SERGIO ROMANO Una delle notizie più interessanti e meno commentate delle scorse settimane è venuta dalla cittadina svizzera di Davos dove si tiene ogni anno il World Economic Forum, un tradizionale appuntamento di politici, imprenditori, banchieri, economisti. Come i G8 e altri eventi internazionali, il Foro economico mondiale ha tradizionalmente attratto una nutrita folla di contestatori appartenenti a tutti i movimenti antiglobalizzatori del pianeta. Dimostrare a Davos, per i no global, significava disporre di un palcoscenico illuminato dai riflettori delle telecamere e collegato a parecchie centinaia di milioni di televisori. Ho scritto «significava» perché i dimostranti, quest’anno, erano pressoché assenti. È probabile che la fiamma dell’antiglobalizzazione si stia spegnendo. Forse è accaduto ai suoi gruppuscoli ciò che accadde, fatte le debite differenze, perfino alle Brigate rosse. I no global credevano di essere l’avanguardia di un grande movimento, composto dalle società dei maggiori Paesi in via di sviluppo, e hanno scoperto, voltandosi indietro, che erano soli, che le loro proteste erano ormai pateticamente stonate, che la globalizzazione piace alla Cina, all’India, al Brasile e ai pochi Paesi africani dove le statistiche sono meno scoraggianti. Possiamo suonare le campane a morto per un movimento defunto? No, gli avvenimenti italiani degli scorsi mesi dimostrano che «no global» è soltanto l’ultima etichetta, in ordine di tempo, di un forma di ribellismo sociale comune a molte democrazie avanzate, soprattutto in Europa. I suoi militanti non hanno un programma, una strategia, un’agenda. Sono una carica di energia gauchiste , pronta a mobilitarsi per qualsiasi battaglia «antisistema». Se l’antiglobalizzazione smette di essere redditizia, sono pronti a scegliere altri obiettivi e altri nemici: i grandi magazzini (uno dei bersagli preferiti di Francesco Caruso), i depositi di scorie nucleari, la centrale di Civitavecchia, i rigassificatori, le linee ad alta tensione e naturalmente le grandi opere pubbliche della modernizzazione, dalla Tav in Val di Susa al ponte sullo Stretto di Messina. Divenuti ormai i professionisti dell’agitazione, i militanti si spostano rapidamente sul territorio nazionale o vanno a ingrossare le file dei loro compagni in altri Paesi europei. Fanno con altrettanta efficacia il contrario dei pompieri: là dove il legno è secco, forniscono la scintilla. Uno degli aspetti più interessanti di questo fenomeno è che i gauchiste in servizio permanente effettivo sono, come i mercenari del Rinascimento, le milizie di comunità locali, decise a difendere il piacevole tran-tran del loro villaggio o della loro valle. Quando scendono in guerra marciano alla testa di un’armata composta da sindaci, parroci, farmacisti, maestri, professori, medici, artigiani, coltivatori diretti. Le forze della rivoluzione congiunte a quelle conservatrici dell’antimodernità possono formare, per qualsiasi governo, una miscela micidiale. E saranno una spina nel fianco di Romano Prodi se dovrà governare con i partiti (soprattutto Rifondazione e i Verdi) che hanno assunto la rappresentanza di questa innaturale alleanza. Il lettore se ne accorgerà se darà un’occhiata alla pagina 138 del programma del centrosinistra e, in particolare, al passaggio sull’«integrazione con le reti europee». Si parla di coinvolgimento dei cittadini, di compatibilità ambientale, di priorità alle direttrici già quasi sature e di varie altre esigenze. Ma non si parla di Tav. Una battaglia perduta prima ancora di essere combattuta?
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