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1° maggio contro il lavoro
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diritto all'ozio Tuesday, May. 02, 2006 at 11:03 PM |
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... - “LAVORO”, - STRESS!!
Il termine, storicamente (anche in varie lingue moderne: labeur in francese, lavoura in portoghese, ecc.), designa la fatica, un’attività penosa e mortificante, perché allude, soprattutto, al lavoro manuale e dipendente, che risulta faticoso per la resistenza della materia (difficile da “modellare”) e per i rapporti umani, in quanto si tratta per lo più di relazioni subordinate assai spesso umilianti.
Il lavoro (nelle culture dell’antichità, n.d.r.) è visto piuttosto come un castigo che come un dono, più come una condanna che come una gratificazione, in ogni caso come una lotta contro un suolo su cui grava la maledizione. Questa visione è sostenuta anche dalla dura realtà quotidiana di fatto.
Basti pensare alla concezione romana nella quale la parte maggiormente significativa della vita era l’otium, mentre il lavoro anche direttivo, autonomo, come quello di un proprietario terriero o di un commerciante, il lavoro degli affari, che noi metteremmo al primo posto, era definito al negativo, appunto il nec-otium, il negozio. Era quasi un residuo, un male necessario, sottratto a ciò che contava veramente.
Ma la società romana era anche una società di schiavi. Dei 12 milioni di abitanti, che si calcola avesse l’Italia romana, più di due terzi erano schiavi. E la concezione che abbiamo esposto era quella della minoranza costituita da uomini liberi. La cultura dell’otium significa avere tempo per pensare. Non per nulla otium si dice in greco scholè (tempo libero), da cui il nostro “scuola”, in cui c’è il tempo per la formazione e la cultura.
[L'OZIO ALLEATO DELL'APPRENDIMENTO NELLA PAUSA IL CERVELLO SI RIGENERA > http://www.repubblica.it/2006/b/sezioni/scienza_e_tecnologia/cervell/cervell/cervell.html]
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UN POPOLO DI STAKANOVISTI In Italia la settimana corta sta diventando un privilegio. Lo scorso anno, sette milioni 790 mila occupati, quasi la metà del totale, lavorano abitualmente o saltuariamente la sera, la notte e nel fine settimana. E ben il 42,6% dei lavoratori subordinati lavora il sabato. L’incidenza del lavoro domenicale è pari al 16,9%, mentre quella del lavoro serale si attesta al 21%.
QUASI DUE MILIONI DI STAORDINARI Nel secondo trimestre del 2004 un milione 912 mila lavoratori dipendenti, pari all’11,8% del totale, hanno effettuato almeno un’ora di straordinario. E ben 365 mila lo hanno effettuato senza ricevere alcun compenso, mentre ad altri 58 mila sono state pagate solo una parte delle ore lavorate oltre il normale orario di lavoro.
AUTONOMI, MA NON TROPPO I lavoratori autonomi sono 6 milioni 297 mila. Il 57,9% svolge un lavoro in proprio, il 24,4% è imprenditore o libero professionista, il 7,7% è un lavoratore parasubordinato (co.co.co e a progetto), il 9,1% lavora nell’impresa familiare. Per quanto riguarda l’organizzazione dell’orario di lavoro, imprenditori e liberi professionisti godono di una completa autonomia. Autonomia che è un miraggio per i collaboratori: solo il 28,5% può svolgere il lavoro in piena libertà. Negli altri casi l’attività è condizionata dal committente e per il 48,4% di essi i vincoli riguardano sia l’organizzazione sia la gestione dei tempi di lavoro. Dall’indagine Istat emerge, inoltre, un forte elemento di debolezza del lavoro autonomo, costituito dalla monocommittenza. Una situazione che interessa il 12,5% dei lavoratori autonomi e che sale fino al 86,5% dei collaboratori. Ancora una volta, le statistiche ci mostrano come lavori che formalmente si presentano “autonomi e indipendenti” sono di fatto veri e propri rapporti subordinati, pur non avendo nessuna delle tutele previste dalla legge.
(da un’indagine Istat su economia.virgilio.it - 5 gen.’006)
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“LAVORARE STRESSA” (da un’inchiesta a cura di “Altroconsumo” - 28 lug.’005))
- Dalle testimonianze raccolte risulta che il posto di lavoro è la principale fonte di tensioni quotidiane -
SE IL LAVORO NON NOBILITA Oltre la metà dei nostri interpellati non ha dubbi: la prima fonte di stress è il lavoro. Noia da routine, cattivi rapporti con colleghi, superiori o subordinati, insicurezze per la mancanza del posto fisso, orari massacranti... le cause sono numerose e cambiano da persona a persona. Si conferma quindi l’allarme lanciato dall’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, che ha denunciato che circa un terzo dei lavoratori europei è afflitto da disturbi psicofisici derivanti da tensioni legate all’ambiente lavorativo. I nostri dati sono in linea anche con un’indagine Eurispes condotta sui lavoratori italiani: secondo questa inchiesta circa un quarto soffre di stress da superlavoro.
QUANDO L'ANSIA È DIETRO L'ANGOLO Nella società odierna i motivi per stressarsi non mancano di certo: stili di vita frenetici, aspettative da colmare, preoccupazioni per il futuro... Quanto si resiste a tutti i potenziali motivi di tensione quotidiana? Lo abbiamo chiesto prendendo in considerazione i 12 mesi precedenti l’inchiesta. Dalle risposte avute risulta piuttosto chiaro che lo stress è una componente della vita di tutti i giorni. Anche in questo caso ufficio, fabbrica, negozio od officina sono i luoghi dove si creano più problemi rispetto a casa e condominio. Per il 27% le tensioni e i disagi derivanti dall’ambiente di lavoro si ripetono spesso (non sono cioè fenomeni sporadici).
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Allora come se ne esce, per RECUPERARE TEMPO E QUALITÀ ALLA VITA? Only 1 Solution -> “Dacci in fretta quello che ci spetta!”: RENTA PARA TODOS!
0 LAB_ +Є -> LINK @ [NON LAVORO E REDDITO] REDDITO UNIVERSALE INCONDIZIONATO DI CITTADINANZA - http://www.controappunto.org/documentipolitici/lavoro%20e%20reddito/Messaggio%2000101%20di%20106.htm PER UNA SOGGETTIVITÀ MOLTEPLICE - http://www.controappunto.org/documentipolitici/lavoro%20e%20reddito/per_una_soggettivita.htm LAVORARE PER VIVERE LAVORARE PER NON MORIRE O NON LAVORARE PER VIVERE? - http://www.controappunto.org/documentipolitici/lavoro%20e%20reddito/LAVORARE%20PER%20VIVERE%20LAVORARE%20PER%20NON%20MORIRE.htm ELOGIO DELL'OTIUM - http://www.controappunto.org/documentipolitici/lavoro%20e%20reddito/ELOGIO%20DELL.htm
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sul rifiuto del lavoro
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autop Tuesday, May. 02, 2006 at 11:09 PM |
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Un vecchio editoriale del Manifesto e non di Potere Operaio Un po' di memoria storica non vi farebbe mala sembrate reduci del socialismo reale
«il manifesto», 1 maggio 1971 Il primo maggio non è la festa del lavoro, come dice e vuole la liturgia del movimento operaio riformista o clericale. È la festa contro il lavoro: contro il lavoro per ciò che esso è e sarà sempre in una società capitalistica, in una società divisa in classi, in una società mercantile. Questo i proletari non ci mettono molto a capirlo. E infatti, il solo modo che hanno di celebrare la loro giornata è quello di non lavorare. Il primo maggio è nato ed è vissuto per lunghi anni come uno sciopero, come uno scontro. Non è una distinzione formale, una sottigliezza ideologica. Il problema del lavoro e dell'atteggiamento verso di esso è sempre stato il nodo profondo del marxismo: la vera discriminazione tra marxismo rivoluzionario e revisionismo. Qual'è il problema per i revisionisti? Quello di dare al lavoro la giusta remunerazione e di fondare una nuova civiltà del lavoro: chi non lavora non mangia. Qual'è il problema per i rivoluzionari? Quello di abolire il lavoro salariato, cioè, oggi, il lavoro stesso, per costruire una civiltà fondata sulla libera e collettiva attività creatrice e su rapporti non mercificati fra gli uomini: a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità. Qui sta tutta la differenza tra socialismo come società capitalistica meno diseguale e più opulenta, e socialismo come rovesciamento del capitalismo dalle fondamenta. Non si tratta, per il marxismo, di una ingenuità anarchica, del mito del buon selvaggio. Nessuno più di Marx ha fatto del lavoro il centro motore della storia, l'uomo stesso è il prodotto del suo lavoro. Ma proprio col suo lavoro l'uomo ha dominato la natura, ne ha decifrato le leggi, ha trasformato se stesso fino al punto in cui può rovesciare la storia e liberarsi dal lavoro come prima e ultima schiavitù, come qualcosa di estraneo a lui, di accettato per la necessità della sopravvivenza. Il capitalismo è il momento storico in cui questa contraddizione e la possibilità di superarla maturano insieme. Da un lato il lavoro diventa, come lavoro salariato, fino in fondo e per tutti una realtà esterna, senza senso e contenuti, una alienazione insopportabile; dall'altro esso ha ormai prodotto un livello di forze produttive, prima fra tutte la capacità razionale dell'uomo, che consente il salto ad un ordine sociale in cui il lavoro, per ciò che è stato fin qui, sia soppresso. Soppresso non per lasciar posto ad un ozio stupido e al faticoso `tempo libero' — che è solo l'altra faccia del lavoro alienato — ma ad un complesso di libera attività collettiva e di riposo creativo di una nuova capacità. Di tale attività, la produzione materiale dei mezzi di sussistenza può diventare un sottoprodotto naturale, progressivamente affidato alle macchine, che non giustifica assolutamente più né lo sfruttamento economico né la dominazione politica. Questa è l'essenza della rivoluzione comunista, della soppressione della proprietà privata, delle classi e dello stato. Ribellione alla condanna biblica: tu lavorerai con fatica. Non è un caso che questo nucleo radicale del marxismo sia stato dimenticato o sia rimasto minoritario nel movimento operaio. Gli operai, come tutti gli uomini, possono porsi solo i problemi che sono effettivamente in grado di risolvere. Solo nella nostra epoca, della piena maturità del capitalismo e della sua degenerazione imperialistica, le grandi masse dell'occidente che hanno avuto dallo sviluppo capitalistico tutto ciò che potevano avere pagandolo con lo sfruttamento, e le grandi masse dell'oriente che dal capitalismo potrebbero avere solo fame e guerra, possono porsi realmente il problema del comunismo. Cioè il problema non solo di maggiore consumo e di lavoro sicuro, ma di un diverso significato del lavoro e del consumo. Qual è, se non questo, il senso profondo delle lotte di massa di operai, studenti, intellettuali degli ultimi anni? Qual'è, se non questo, il significato universale della rivoluzione culturale cinese? Certo, tutto ciò può anche alimentare spinte ingenuamente neoanarchiche, l'illusione che si possa abolire il capitalismo d'un colpo; ribellarsi alla logica della produzione e `rifiutare il lavoro' con un atto di ribellione soggettivistica e distruttiva; o usare delle macchine e degli uomini così come sono per una organizzazione comunista della società, senza una lunga e faticosa trasformazione delle une e degli altri, senza una società di transizione, e dunque senza organizzazione, violenza, sacrificio, invenzione, educazione. Ma ciò che oggi importa, come importava per Lenin, è cogliere in queste spinte `ingenue' il nucleo di verità che oggi è maggiore di ieri, e senza del quale non è più possibile sfuggire all'egemonia ideale del capitalismo. Questo vogliamo ricordare il primo maggio: per riscoprirne fino in fondo il significato di festa politica, di festa rivoluzionaria.
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un po' di attualità
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per finire Tuesday, May. 02, 2006 at 11:20 PM |
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Paolo Virno
Negli anni Settanta, il primo maggio fu una ricorrenza stantia e anche un po’ gaglioffa. Stantia, perché le lotte operaie – e la politica, e la vita in genere – se ne tenevano scrupolosamente alla larga. In quelle adunate prive di ogni allegria, c’era soltanto il sindacato in quanto istituzione nevralgica dello Stato keynesiano.
Le confederazioni rivendicavano a gran voce, talvolta con la stizza di chi parla da solo, il loro ruolo di rappresentanti legali della merce forza-lavoro, l’unica davvero strategica nelle moderne società industriali. Gli operai in lotta, che proprio quella merce volevano risolutamente abrogare (anzitutto inflazionandone il prezzo, fino a renderla antieconomica), se ne fottevano delle sfilate in nome del "nuovo modello di sviluppo". Come un adulto appena ragionevole non perde tempo dietro ai re Magi. Con i modelli vecchi e nuovi dello sviluppo capitalistico, i conti si regolavano in officina: sciopero a scacchiera, salto della scocca, corteo interno alla palazzina della direzione, salario come variabile indipendente. Anche un po’ gaglioffa, quella ricorrenza: infatti, era denominata senza alcun pudore "festa del lavoro". Come se il lavoro salariato non fosse una disgrazia, come se qualcuno potesse essere orgoglioso (di "orgoglio" cianciava il sindacato, appunto) di produrre plusvalore sulla linea di montaggio. L’odio e il disprezzo per il regime di fabbrica evocavano semmai la necessità di una festa contro il lavoro.
Dopo Seattle e dopo Genova, il primo maggio torna a essere, con un vertiginoso balzo all’indietro, ciò che fu a fine Ottocento: il momento privilegiato in cui emerge una "nuova specie" sociale e produttiva. L’antico appuntamento è reinventato, oggi, dalla intellettualità di massa, ossia da quella moltitudine di uomini e donne che, usando il pensiero e il linguaggio come utensile e materia prima, costituiscono l’autentico pilastro della ricchezza delle nazioni. Migranti, precari di ogni risma, frontalieri tra lavoro e non-lavoro, stagionali dei McDonald e conversatori a cottimo delle chat-lines, ricercatori e informatici: tutti costoro sono, a pieno titolo, l’"intelletto generale", il general intellect di cui parlava Marx. Quel general intellect (sapere, intraprendenza soggettiva, forza-invenzione) che è, insieme, la principale forza produttiva del capitalismo postfordista e la base materiale per farla finita con la società della merce e con lo Stato in quanto sinistro "monopolio della decisione politica". A fine Ottocento, i tipografi, i conciatori, i tessili ecc. – insomma i membri delle innumerevoli associazioni di mestiere - scoprirono ciò che li univa: essere, tutti, astratto dispendio di energia psicofisica, lavoro in generale. Il primo maggio sancì questa scoperta e, per più di una generazione, fece tutt’uno con la richiesta delle otto ore (meno lavoro, ecco il fulcro dell’etica moderna). Oggi, una moltitudine di "individui sociali" – tanto più fieri della propria singolarità irripetibile, quanto più correlati tra loro in una fitta trama di interazione cooperativa - si riconoscono come intelletto generale della società. Il primo maggio contemporaneo, in quanto festa grande del general intellect (pensiero che desidera e desiderio che pensa), ha il suo perno nella ragionevole pretesa di un "reddito di cittadinanza" e nel rifiuto di qualsivoglia copyright sui prodotti di quella risorsa comune che è la mente umana. Ma c’è dell’altro. Il primo maggio globalizzato e postfordista richiama il primo maggio ottocentesco anche per un motivo più spinoso: in entrambi i casi, la domanda cruciale suona così: come organizzare una pluralità (di mestieri allora, di "individui sociali" oggi) che, al momento, pare frammentata, costitutivamente esposta al ricatto, insomma inorganizzabile? E’ innegabile, infatti, che l’intellettualità di massa stenta a rovesciare la propria potenza produttiva in potenza politica. Non arriva ancora a incidere sul tasso del profitto, ancora non le riesce di gettare nel panico le direzioni aziendali. Per questo ha bisogno di convocare i propri "stati generali", di coordinarsi, di deliberare.
La prima questione all’ordine del giorno, sotto il sole primaverile del 2004, è quella delle forme di lotta. E’ stolto chi crede che individuare le modalità del conflitto (quale sciopero, quale sabotaggio ecc.) sia un problema tecnico, semplice corollario del programma politico. Tutt’al contrario: la discussione sulle forme di lotta è la più intricata, vero banco di prova di ogni teoria politica di qualche respiro (che non si riduca, cioè, a una cospirazione illuminista di giuristi democratici). Intraprendenza, conoscenze condivise, capacità di correlarsi e interagire: queste "doti professionali" della moltitudine postfordista devono diventare temibili strumenti di pressione. Le piattaforme rivendicative, in breve il "che cosa vogliamo", dipendono per intero dal "come possiamo agire" per modificare i rapporti di forza all’interno di questa organizzazione sociale del tempo e dello spazio. Tutto dipende, cioè, dall’invenzione spregiudicata di nuovi "picchetti" e nuovi "cortei interni", che siano all’altezza dell’imperante flessibilità e del modello di accumulazione basato sul general intellect. Di più: l’uscita dai modelli organizzativi del Novecento, malamente predicata da quanti hanno di recente elevato la non-violenza a feticcio, trova qui, nella questione delle forme di lotta, il suo effettivo momento della verità. Per intendersi: il superamento della forma-partito fa tutt’uno con la scoperta, da parte dei migranti, dei precari Tim, dei collaboratori a tempo determinato, del modo più incivo per ricattare i propri abituali ricattatori.
La grande difficoltà a scovare forme di lotta adeguate è anche una grande occasione. Tanto la difficoltà che l’occasione derivano da quante e quali cose sono incluse, oggi, nel processo produttivo. Si dice: il capitalismo postfordista mobilita, e mette a profitto, le facoltà basilari della nostra specie: pensiero, linguaggio, memoria, affetti, gusti estetici ecc. Ora, se questo è vero, il conflitto sul posto di lavoro non può che riguardare una intera forma di vita. Per vincere una vertenza rivendicativa, bisogna ricorrere a quella rete metropolitana di relazioni che fa di ciascuno di noi un individuo sociale, uno dei "molti" di cui è composta la moltitudine. E’ lì che si addensa una forza cooperativa autonoma: è lì che si scambiano informazioni, si attingono conoscenze, si stringono amicizie. Soltanto questa rete, che per comodità chiamo il "bacino dell’intellettualità di massa", può sorreggere i conflitti nel singolo comparto produttivo. Ma dar voce al bacino dell’intellettualità di massa significa creare nuovi organismi democratici. Ecco la grande difficoltà che, però, è anche grande occasione. La richiesta di più soldi implica, qui e ora, l’abbozzo di inedite forme di autogoverno, la costruzione sperimentale delle istituzioni politiche della moltitudine, l’esordio in grande stile di una sfera pubblica che metta finalmente da parte miti e riti della sovranità statale.
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