Il presidente della repubblica chiude il suo mandato pagando con il sangue l'alleanza con il Pri per estromettere Lopez Obrador in favore di Felipe Calderon Un esercito d'occupazione Il governo non riesce a nascondere le atrocità commesse in città dalla polizia federale Luis Hernandez Navarro Oaxaca In ginocchio, con il suo sangue come offerta, un cittadino si piazza di fronte ai veicoli della Polizia federale preventiva (Pfp) per cercare di bloccarne il passaggio. Non è l'unico. Non lontano da lì, decine di oxaquegni si buttano per terra, a formare un tappeto umano per evitare l'avanzata dei blindati che lanciano getti d'acqua ad alta pressione. Nelle strade do Oaxaca sono le donne, i bambini, i giovani e gli anziani quelli che affrontano in maniera non violenta i gendarmi federali. In piccoli cartelli scrivono: andatevene, non siete benvenuti. Sono migliaia di persone che usano il proprio corpo come unica arma per resistere all'aggressione della polizia. Hanno trasformato la paura in rabbia, l'umiliazione in dignità. Tra le barricate la tensione sale di tono. C'è chi getta bastoni e pietre. Alcuni cercano di gettare molotov, altri lanciano petardi. Gruppi di giovani e di poveri urbanizzati vogliono affrontare quelli in uniforme. Dalla Radio Universal, la voce del movimento contro il governatore Ulises Ruiz, gli annunciatori insistono a raccomandare una volta e un'altra ancora di affrontare in maniera pacifica l'incursione dei federali. Pazienza, calma e intelligenza, raccomandano. Non cadete nelle provocazioni, insistono. Il tentativo governativo di un'operazione di dissuasione pulita, senza contatto fisico, è sfumato sin dai primi istanti. Parole, solo parole. La polizia lancia lacrimogeni, usa le sue armi da fuoco, irrompe in case private, arresta cittadini, aggredisce giornalisti, confisca le loro fotografie. Il loro ordine è di avanzare a ogni costo, impadronirsi di edifici pubblici, cancellare ogni traccia del loro intervento violento, far sentire la loro forza. Come a Atenco (la località a Città del Messico dove lo sgombero di una protesta di ambulanti abusivi si è trasformata in un attacco brutale, ndt) il governo monta una grande campagna mediatica per cancellare le atrocità dei suoi gendarmi. Il ministro dell'interno Abascal dichiara che non ci sono stati morti, che il saldo è blanco, in bianco. Lo stesso fa il presidente Fox. Ma è la voce stessa dei morti che lo smentisce, i più di 50 arrestati che lo contraddicono, i feriti che lo negano. Un'altra volta ancora, come a Lazaro Cardenas, come a Atenco, l'agonizzante amministrazione di Vicente Fox si macchia le mani di sangue. E' la battaglia di Oaxaca. E' la rivolta popolare più importante da molti anni a questa parte e il tentativo è di soffocarla con la repressione. In questa battaglia si prefigura il cammino che possono prendere le proteste popolari in Messico. Nonostante il potere dica che cerca solo di garantire l'incolumità pubblica, ciò che per il governo è in gioco è la distruzione di una nuova socializzazione, intessuta dal basso, oltre che il sostegno al governatore Ulises Ruiz La battaglia di Oaxaca è un combattimento nel quale il governo federale gioca le sue carte come sempre, mentre il movimento popolare dispiega le sue con immaginazione e audacia. Mentre le forze federali si comportano come un esercito straniero d'occupazione, gli oxaquegni alzano centinaia di bandiere tricolori e cantano l'inno nazionale. Nella disputa per i simboli della patria il governo ha perso il primo assalto. Non appena la polizia federale aveva preso il centro della città e le posizioni più strategiche, i cittadini di Oaxaca alzavano nuove barricate alle loro spalle. La gente che dalle comunità di montagna aveva appoggiato il movimento scende verso la capitale dello stato. Non vanno solo a marciare. Gli accerchiati stanno circondando i loro aggressori. A Oaxaca, Vicente Fox sta pagando con il sangue l'alleanza politica stipulata per avallare l'incarico di Felipe Calderon come presidente della repubblica, il prossimo primo dicembre. «Non ho creato io questo problema», dice il defenestrato capo dello stato di Oaxaca. Il governo federale si è fatto carico del peso di un'amministrazione locale che i suoi cittadini ripudiano. Fox ha pagato la fattura lasciata da Ulises Ruiz, ma a un prezzo stratosferico. Il Partido de accion nacional (Pan) ha liquidato l'importo delle barbarie perpetrate dal Partido revolucionario institucional. Per il momento il governo federale ha già cominciato a pagare il prezzo di questa alleanza. In molte città europee si sono occupati consolati o si sono effettuate manifestazioni di fronte alle sedi diplomatiche. In Messico le azioni di protesta contro l'operazione della polizia si sono estese a altri stati, e altri gruppi di insegnanti preparano uno sciopero nazionale. E secondo quanto afferma il dirigente indigeno Adelfo Regino: adesso vediamo come fa Felipe Calderon a venire a Oaxaca. Non c'è ritorno alla normalità, con l'uso della violenza. Non c'è maniera di sanare la rottura del tessuto sociale attraverso un'occupazione di polizia. La governabilità richiede l'accettazione da parte dei governati della legittimità di chi li governa. Questa accettazione non esiste e non arriverà marciando con gli stivali. Al contrario, il fermento della ribellione si è sparso in ogni angolo dello stato, sempre più pesante. Se fino ad oggi alcuni settori della società si erano mantenuti neutrali, l'operazione federale li ha obbligati a schierarsi. Naufraga l'accordo con la dirigenza del sindacato degli insegnanti per tornare a scuola lunedì prossimo. Non ci sono le condizioni per farlo. Il sangue dei morti è ancora fresco, l'indignazione enorme. Gli insegnanti che avevano accettato di tornare in classe tornano invece a mobilitarsi. La presenza della polizia è un aggravio inammissibile a ciò che è già arrivato al fondo. La battaglia di Oaxaca ancora non è finita. Al contrario, la soluzione del conflitto nello stato oggi è molto più complessa di qualche giorno fa, e sembra più lontana. La frase è scontata, ma inevitabile: cercavano di spegnere il fuoco buttandoci sopra benzina. © La Jornada/il manifesto
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