CAMP DARBY, STORIA DI UNA INGERENZA LUNGA 55 ANNI
Parlare di camp Darby significa raccontare la storia di un territorio a sovranità limitata, costantemente condizionato nella sua vita sociale, politica, culturale ed economica. Una folgorante immagine dell’Italia del dopo guerra si può avere guardando “La pelle”, magistrale traduzione filmica dell’omonimo romanzo di Curzio Malaparte, per la regia di Liliana Cavani. Così l’occupazione U.S.A. della pineta di Tombolo (dove poi si stabilirà Camp Darby), è descritta da un altro film, meno bello ma molto realistico, dal titolo “Il paradiso nero” . Da queste opere emerge il quadro di un esercito brutale, che “libera” l’Italia imponendo con la violenza, la corruzione e l’arbitrio una occupazione ancora in vigore. Vicende omesse dalla storiografia ufficiale del nostro paese. Così nel 1947 l'esercito USA si insedia in terra toscana, dentro una bellissima pineta mediterranea, inglobata successivamente nel parco nazionale di S. Rossore. L’immensa area di oltre 1.000 ettari viene formalmente concessa agli statunitensi nel 1951 dall’allora governo De Gasperi, in base ad un trattato bilaterale sottoscritto dal ministro dell’Interni Randolfo Pacciardi. I termini di quel trattato, a 55 anni di distanza, sono ancora segreti.
La posizione geografica è congeniale per l’uso che gli U.S.A. vogliono fare di questa base: collegata al mare ed al porto di Livorno attraverso il canale dei Navicelli ( le richieste di raddoppio del canale sono reiterate nel tempo), l’aeroporto civile e militare di Pisa ad un tiro di schioppo, la rete ferroviaria che entra fin dentro la base, un sistema viario ottimale con la superstrada e l’autostrada a poche centinaia di metri. Questa posizione strategica crea le condizioni per lo sviluppo di quella che è oggi una delle sei più grandi basi logistiche dell’esercito statunitense nel mondo. Oggi camp Darby è il principale deposito logistico del SETAF (Southern European Task Force), in grado di garantire una mobilitazione operativa immediata e simultanea di intere brigate meccanizzate: truppe, armi, munizioni ed equipaggiamento pronte per essere inviate celermente in qualunque zona di “EUCOM, comando di combattimento regionale, con la responsabilità dell’intera Europa, nell’area mediterranea, nordafricana e mediorientale, per circa 55 milioni di km2. Secondo il rapporto Base Structure Report 2005, essa comprende 136 edifici con una superficie di 60 mila metri quadri”. Secondo lo stesso rapporto, altre strutture per il rifornimento e l’addestramento, comprendenti 327 edifici in proprietà e 58 in affitto, si trovano in tre località in provincia di Livorno e in due in provincia di Pisa. I compiti di questa base sono nel tempo molteplici. Oltre a servire per le aggressioni militari all’estero, camp Darby è stato nodo strategico di un’altra guerra, elaborata e diretta originariamente da personaggi come Edward Luttwak, negli anni ‘70 esponente di spicco dei servizi segreti del Pentagono: Il conflitto interno, conosciuto poi come “guerra di bassa intensità” . Vincenzo Vinciguerra, terrorista neofascista, responsabile materiale della strage di Peteano del31.5.1972, inizia nel 1984 a far emergere una verità scottante, quella di Gladio e Stay behind. Il magistrato Felice Casson raccoglie le sue testimonianze ed apre un’inchiesta che lo porta davanti ai cancelli della base di camp Darby, dove Vinciguerra dichiara che negli anni ’70 sono addestrati neofascisti italiani e installati i “NASCO”, depositi d’armi per le strutture parallele della NATO, dei servizi segreti e dei fascisti in funzione anticomunista. Ovviamente quei cancelli rimarranno chiusi per l’inchiesta, così come in seguito per Guido Salvini, l’altro magistrato che parallelamente apre una nuova indagine che lo porta alle stesse conclusioni. Le inchieste sono ancora aperte, ma come sappiamo i mandanti e gli esecutori di quella strategia sono liberi e continuano ad agire con gli stessi metodi, aggiornati alla contingenza: Le basi USA divengono retroterra strategico della nuova “guerra infinita”, nella funzione diretta di sostegno alle aggressioni militari ma anche rete per i trasferimenti, la custodia e la tortura di prigionieri clandestini, rapiti ai quattro angoli della terra, come emerso in questi ultimi anni da varie inchieste. Esemplificativo il caso dell’imam di Milano Abu Omar, catturato nel centro di Milano nell’aprile 2003 da 23 agenti della CIA (oggi sottoposti ad una probabilmente inutile inchiesta della magistratura milanese), trasportato nella base USA di Aviano, poi in quella USA di Ramstein (Germania), infine “desaparecido” nelle carceri egiziane…. I “voli segreti” cojme denunciato da A: International, sono passati anche per l’aeroporto pisano G. Galilei, molto vicino in linea d’aria dalla base. Si parla da anni di tunnel sotterranei che collegano aeroporto e base: chi può garantire che i prigionieri non siano passati dalla base per subire i ben noti “interrogatori pesanti” ordinati da Donald Rumsfeld ? Questo era ed è la base di camp Darby. Le caratteristiche che ha acquisito nel tempo non fanno prevedere ravvicinate ipotesi di smantellamento unilaterale, così come ipotizzato per La Maddalena. Anzi. Nell’agosto del 2005 si è parlato di un suo raddoppio, smentito poi da dichiarazioni a dir poco ambigue da parte dell’ambasciatore statunitense in Italia. Le attuali e future strategie d’aggressione militare statunitensi troveranno in questa base uno snodo così importante che crediamo utile una particolare attenzione su di essa da parte del movimento contro la guerra continentale. Ora, nel quadro della ridislocazione delle forze e basi statunitensi dall’Europa settentrionale e centrale a quella meridionale e orientale, il Pentagono ha necessità di aumentare l’efficienza della base. Da qui «l’ammodernamento degli impianti», di cui ha parlato l’ambasciatore degli Stati uniti Ronald Spagli durante la visita a Pisa il 26 gennaio 2006. Anche se la base non verrà ampliata, essa avrà certamente bisogno di maggiori infrastrutture di supporto
UN COMITATO PERMANENTE CONTRO LA BASE Sin dagli anni ’50 grandi manifestazioni pacifiste hanno circondato camp Darby, riuscendo talvolta ad entrarvi dentro e sostituire le stelle e strisce con la bandiera rossa dei lavoratori. Una “tradizione” che è proseguita sino ai giorni nostri, con le mobilitazioni contro i treni della morte, la campagna “trainstopping” contro l’aggressione all’Iraq del 2003 . Si tratta oggi di capire cosa e quanto di queste grandi mobilitazioni è rimasto nella coscienza delle popolazioni che vivono intorno alla base, che atteggiamento assumono le amministrazioni locali, le forze politiche, sindacali, le realtà produttive, le maestranze italiane che vi lavorano. Comprendere per attrezzarci adeguatamente, dando risposte non testimoniali al rilancio della battaglia per la sua chiusura
L’esperienza maturata in tanti anni di battaglie contro le basi USA/ NATO evidenzia alcuni nodi centrali intorno ai quali si sono concentrati gli sforzi dei comitati. Sinteticamente, alcuni tra i principali:
1)Mettere in discussione la fitta rete d’accordi militari tra lo Stato italiano, l’Alleanza atlantica (la NATO) e gli USA, imponendo nell’agenda politica nazionale la dirimente questione di una diversa collocazione internazionale dell’Italia. 2)Scardinare i consolidati legami, sviluppatisi in più di 50 anni di presenza, tra le basi militari straniere e la rete produttiva, di servizi ed istituzionale presente nei territori limitrofi alle basi stesse 3)Contrastare l’immagine d’impatto territoriale poco “intrusivo” della maggior parte delle basi, costruita nel tempo dalle gerarchie militari e dalle compiacenze locali, con l’evidente obiettivo di renderle “compatibili” agli occhi delle popolazioni limitrofe. 4)Combattere contro un potentissimo sistema di difesa ideologico, politico e repressivo che trova adepti tra partiti ed intellettuali di destra, centro e “sinistra”, pronto a scagliarsi contro la nostra battaglia con tutti i mezzi di comunicazione di massa e di contrasto a loro disposizione. 5)Lavorare sin da subito a concrete proposte alternative alle basi, coinvolgendo nell’elaborazione dei progetti le popolazioni, le maestranze impiegate all’interno delle basi, le realtà sindacali e politiche, le amministrazioni locali e le varie realtà produttive presenti sui territori.
Il Comitato unitario per lo smantellamento e la riconversione a scopi esclusivamente civili della base USA di camp Darby si costituisce per iniziare a rispondere “sul campo” a questi nodi, con l’obiettivo di radicare la pratica antibase ed antimilitarista nei territori. Il contesto nel quale si concretizza l’idea di costituire un comitato permanente contro camp Darby è il convegno “Mediterraneo para bellum”, organizzato nel dicembre 2004 a Pisa dal Comitato nazionale per il ritiro delle truppe dall’Iraq, durante il quale si incontrarono tutte le realtà che in Italia si battono contro la presenza statunitense e NATO.
Dopo pochi mesi, il 2 marzo 2005, un ampio fronte di realtà associative, culturali e politiche presenti a Pisa e Livorno costituisce il comitato, lanciando una sfida: colmare le fasi di riflusso del movimento contro la base, intervenendo a prescindere dalle “emergenze belliche”, con un lavoro d’indagine tra le popolazioni, di confronto serrato con istituzioni locali, le forze politiche e sindacali, attraverso una costante campagna d’informazione e mobilitazione sui territori.
Il documento costitutivo è molto chiaro negli intendimenti generali: smantellamento e riconversione esclusivamente civile, per un’alternativa consona alle vocazioni storiche dell’area, senza alcuno sconto per le ambigue proposte di sviluppo di “peace keeping”, sbandierate anche recentemente dalla Regione Toscana e dal suo presidente “New Global” Claudio Martini. Un’ipotesi del genere significherebbe cadere dalla padella della guerra “di liberazione” ed unilateralista stile Rumsfeld/Bush alla brace di quella “umanitaria” e multilateralista di stampo europeo, sperimentata dai popoli jugoslavi negli anni '90 ed ora di nuovo alla prova in Libano. Altro riferimento esplicito è quello alla NATO, alleanza militare che sottomette le basi militari USA in un’unica centralizzata catena di comando. L’uscita dell’Italia da questa alleanza ed il suo scioglimento è quindi tra i punti centrali della nostra prospettiva.
Molte sono state le iniziative pubbliche di fronte alla base, a partire dal 25 aprile 2005 con la parola d’ordine “60 anni a sovranità limitata – Liberiamoci della guerra, liberiamoci delle basi”. Una seconda mobilitazione ci ha portato di fronte ai cancelli di camp Darby l’11 settembre 2005, per protestare contro l’ipotesi, attualmente rientrata, di raddoppio dell’insediamento militare USA sul territorio di Guasticce, nel comune di Collesalvetti, in provincia di Livorno. Oltre alle mobilitazioni di piazza abbiamo proposto alcuni momenti di riflessione e confronto pubblici. Attraverso alcuni incontri di studio nell’autunno 2005 abbiamo elaborato una concreta proposta di “riconversione preventiva” sulla quale abbiamo chiamato il 29.11.05 le istituzioni locali al confronto, nella sala della provincia di Livorno. All’appuntamento si sono presentati gli amministratori dei Comuni e delle Province di Livorno, Pisa e Collesalvetti, ma non i sindaci. Altra grave assenza quella della regione Toscana, entità istituzionale con maggiori possibilità di condizionamento sull’operatività della base USA. Nell’incontro abbiamo avanzato quattro proposte, elementi battaglia politica e vertenzialità sul territorio :
1) Informazioni alla cittadinanza e formulazione di piani d’evacuazione
Sappiamo della volontaria reticenza delle autorità militari statunitensi nel comunicare quantità di armi contenuti nelle base e spostamenti esterni/interni, quindi l’impossibile valutazione formale dei pericoli che questa presenza rappresenta per i territori circostanti .
Non di meno l’incidente dell’agosto 2000 (di cui parliamo diffusamente nel dossier che ho portato), venuto alla luce solo grazie ad un sito miltare statunitense, evidenzia il grado di rischio per tutto il territorio circostante, in un’area all’interno del quale sono da inserire le intere province di Pisa e Livorno, se non oltre.
Chiediamo la costituzione un gruppo di lavoro composto da ARPAT, Protezione Civile, Vigili del Fuoco ed altri corpi addetti alla prevenzione di catastrofi naturali, in grado di preparare uno specifico piano di prevenzione ed evacuazione delle popolazioni in caso di incidente grave nella base di Camp Darby.
2) Livorno porto nucleare: far rispettare il decreto legislativo 230 del 1995
Il porto di Livorno come sappiamo è inserito nella lista degli 11 porti italiani che possono ricevere natanti a propulsione nucleare o trasportanti armi nucleari .
In base al succitato decreto i cittadini devono sapere se vivono in un'area a rischio nucleare. Nel decreto si stabilisce che le Prefetture hanno il dovere di informare le popolazioni sulla pericolosità della presenza di natanti a propulsione nucleare, predisponendo nel contempo un piano d’evacuazione in caso d’incidente nucleare all’interno del porto da diffondere capillarmente. Anche in questo caso le Prefetture interessate, compresa quella di Livorno, sono inadempienti.
3) blocco d’ogni decisione all’intero del Comitato Misto Paritetico toscano
Nella riunione del 2 luglio 2003 il CoMiPar toscano ha approvato all’unanimità, quindi con il voto favorevole dei 7 rappresentanti della Regione Toscana, il dossier di richiesta del governo statunitense recante le sigle USA PN 58497 e PN 58493 che contiene il progetto di potenziamento della base per la costruzione di sette magazzini e varie infrastrutture per complessivi 450mila metri cubi e nove ettari di superfici coperte ed impermeabilizzate con un investimento di oltre 50 milioni di dollari annuali stimanti per lavori che si prolungheranno sino al 2010.
Chiediamo che la Regione Toscana assuma un atteggiamento d’ostruzionismo all’interno del CoMiPar della nostra regione per ogni tipo d’attività inerente la base USA di Camp Darby.
4) avvio del progetto di “Riconversione preventiva”
Proponiamo l’assunzione da parte delle amministrazioni locali dell’obiettivo della “Riconversione Preventiva” della base USA di camp Darby, cioè di un atteggiamento politico e operativo che pianifichi ed organizzi sin da subito, e cioè prima dell’effettiva partenza delle truppe americane, le condizioni per il ripristino dell’area ad uso esclusivamente civile.
In questo senso solleciteremo le amministrazioni locali ad accogliere una nostra proposta per la costituzione di un “Fondo Regionale per la Riconversione” dal quale attingere per avviare controlli ambientali indipendenti, promuovere studi per la riqualificazione del territorio da liberare, finanziare borse di studio per progetti di riuso dell’area, promuovere corsi di formazione per la riqualificazione degli addetti civili della ex base, organizzare pool di esperti (ingegneri, architetti, economisti, ambientalisti, pacifisti) in grado di maturare proposte concrete di riconversione attuabili sin da subito, e tutte le attività necessarie ad evidenziare la volontà concreta di allontanare questa base di morte dai nostri territori, determinando così un clima socio/culturale favorevole alla sua chiusura.
Questo primo “giro di consultazione” con le forze politico/ istituzionali si è concluso il 18 gennaio 2006, in prossimità non casuale con le elezioni politiche generali, con l’incontro sul tema “Il ruolo della base USA di C. Darby dopo la guerra fredda – Sovranità nazionale e politiche di pace di un governo alternativo al centro desta”. La biblioteca comunale di Pisa, gremita di convenuti, vide la totale assenza dei rappresentanti dell’Unione (se togliamo una risicata presenza dei partiti della cosiddetta “sinistra radicale”).
20 DOMANDE PER UNA INCHIESTA DI MASSA Un utile strumento di intervento che ci siamo dati è stato il questionario di 20 domande con il quale abbiamo iniziato una campagna di massa nelle città, attraverso banchetti nelle piazze, cene sociali, concerti, spazi nei negozi del mercato equo e solidale aderenti al comitato.
Questo semplice mezzo di consultazione popolare si è rivelato sin dal primo banchetto un’arma molto utile e coinvolgente. Centinaia di cittadini si fermano ai tavoli per rispondere alle domande. Il questionario ha destato un interesse intorno ai tanti interrogativi che circondano la base, difficilmente suscitabile con i tradizionali strumenti di propaganda ed agitazione. I risultati che trarremo dall’analisi dei questionari ci serviranno per un altro progetto in cantiere: la produzione di un “libro bianco” sulla base, da divulgare a livello di massa. Altro risultato tangibile di questa inchiesta di massa riteniamo sia stato la reazione delle nuove gerarchie militari statunitensi ed italiane succedutesi ultimamente al comando di camp Darby. Con una pratica che rompe il tradizionale riserbo di queste entità militari, i comandi della base hanno lanciato una vera e propria “offensiva mediatica”. Il 2 dicembre 2005 la base si è “aperta” a TV e stampa locale per un lungo e circostanziato “briefing” nel quale i nuovi vertici militari, i colonnelli Steve Sicinski e Raffaele Iubini, rispettivamente per l’esercito USA e italiano, “rispondono” a quasi tutte le domande del questionario dando ampie garanzie di sicurezza, trasparenza e disponibilità. L’offensiva mediatica USA è ripresa alla fine del mese di gennaio ’06, con l’invito all’interno della base dei sindaci e dei presidenti delle province di Pisa e Livorno. Nell’incontro i colonnelli hanno reiterato la volontà di aprire la base al territorio, manifestando addirittura l’intenzione di mettere a disposizione le strutture interne a camp Darby (campi sportivi, cinema…) al mondo associativo locale….!
Questa “strategia del sorriso” si scontrerà però ben presto (il primo marzo 2006) con la dura realtà di un licenziamento collettivo per 87 dipendenti italiani del reparto manutenzione mezzi da combattimento. Le poche rappresentanze sindacali “ammesse” – i lavoratori italiani della base non possono iscriversi alla CGIL né ad altri sindacati giudicati evidentemente incompatibili con la “democrazia a stelle e strisce” – si sono trincerate dietro un “no comment” che evidenzia una scarsa o inesistente possibilità contrattuale . Ad oltre 50 lavoratori precari non e’ stato rinnovato il contratto, per gli 87 in pianta stabile il licenziamento è stato spostato di pochi mesi. Nel prossimo novembre si deciderà sulla loro sorte. Scontati gli attacchi da parte dei sindacati “gialli” contro il movimento antibase, accusato di essere parte in causa di questo attacco occupazionale, perché fautore di un “clima di insicurezza ambientale” ventilato dalle gerarchie militari come elemento che spinge verso una smobilitazione e spostamento di settori di punta della base stessa per il prossimo futuro, nel quale evidentemente le strutture militari U.S.A. saranno interessate dalla moltiplicazione nell’impegno bellico.
Il nostro comitato si è mobilitato in quei giorni di forte tensione attraverso una serie di prese di posizione ed un convegno, svoltosi lo scorso 15 giugno 2006, dal titolo “Camp Darby – Il ricatto del lavoro, le prospettive della “guerra infinita. Idee e proposte per una riconversione che salvaguardi ed incrementi l’occupazione”, pubblicizzato di fronte ai cancelli della base con volantinaggi e conferenza stampa , al quale abbiamo invitato alcune realtà significative del movimento nazionale contro le basi, tra cui Gaetano Ventimiglia, lavoratore Base USA/NATO Sigonella e dirigente della CUB Trasporti all’interno della base.
Ultima iniziativa in ordine di tempo lanciata dal Comitato e raccolta a livello regionale la manifestazione di fronte alla base lo scorso 26 luglio per denunciare all'opinione pubblica il traffico di armi verso Israele, impegnato in quei giorni a massacrare le popolazioni e le infrastrutture del Libano . Sconcertanti le successive dichiarazioni della vicepresidente della Commissione Difesa della Camera dei Deputati Elettra Deiana, la quale dopo una sua ennesima visita alla base ( 21 agosto) comunica alla stampa locale la garanzia data dai vertici militari statunitensi sul fatto che “nessun transito di superbombe e nessun impegno sugli attuali teatri di guerra” interesserà la base stessa. Deiana, dopo aver visitato la struttura, dichiara alla stampa locale: “ la base in questo momento è in stand by. L’attività è legata alla logistica e non è previsto alcun impegno funzionale sui fronti di guerra, neppure in Iraq” (Il Tirreno e La Nazione del 22.8.06) . Evidentemente il ferreo ed ultra cinquantennale segreto militare che circonda camp Darby si è sciolto come neve al sole di fronte alla nuova compagine governativa…..Garantisce Deiana! Quest’ultima notazione ci introduce immediatamente nel nuovo contesto politico determinatosi in Italia con l’avvento del governo di centro sinistra. Le scelte generali di politica estera, contro le quali mentre sto parlando siamo impegnati con la manifestazione nazionale a Roma, si ripercuotono immediatamente anche nelle vertenze locali contro le basi, rideterminando un posizionamento delle varie rappresentanze istituzionali ancora da decifrare nei dettagli, ma i primi segnali sono preoccupanti, come del resto emerge dalla vicenda del carteggio tra il Comune di Vicenza e il capo di Gabinetto del Ministero della Difesa sul Dal Molin. Inutile nascondere le difficoltà congiunturali che questa situazione determina e determinerà nella nostra azione quotidiana sui territori, già condizionata storicamente da posizioni delle amministrazioni locali ambigue, dilatorie e dietro le quinte accondiscendenti verso le basi . Il caso toscano è paradigmatico, con un presidente della Regione distintosi per le lacrime versate a causa dei lacrimogeni del 22 luglio 2001 a Genova e per i convegni annuali “New Global” con il gotha del movimento altromondialista nella tenuta pisana di S.Rossore. Martini da sempre propone una alternativa “peacekeeping” a camp Darby, scelta perfettamente consona alle politiche “multilateraliste” dell’Europa di Maastricht, oggi schierata in Libano con le truppe dell’Unifil rafforzato. Non aiutano la nostra comune battaglia gli sconcertanti adeguamenti all’attuale politica estera interventista di una sinistra cosiddetta “radicale” entrata in parlamento con ben altre deleghe. Come giustamente ricordava Manlio Dinucci a chi nei mesi scorsi tendeva a distinguere le missioni una dall’altra, siamo di fronte ad una stessa strategia militare, dall’Afghanistan al Libano, passando per l’Iraq. Nella realizzazione di questa strategia le basi USA NATO in Italia giocano un ruolo centrale ed imprescindibile Come è possibile lottare contro queste basi senza mettere in discussione i conflitti per i quali sono determinanti? Domanda per niente retorica alla quale non tocca certo a noi rispondere. Al movimento contro le basi del nostro paese tocca invece sviluppare una battaglia coerente ed indipendente contro il sistema di guerra presente sul territorio, come quella indicata in questi mesi dalle realtà vicentine e venete contro l’ipotesi di occupazione del Dal Molin da parte dell’esercito statunitense, di cui il convegno di oggi è espressione. Una lotta maturata come naturale reazione ad un progetto il quale, oltre a proiettare ancora di più i territori nelle presenti e future guerre di aggressione, stravolgerebbe la vivibilità e l’ecosistema di una vasta area abitata. Dalle cose dette in questo appuntamento emergono, ancora una volta, gli elementi che legano inscindibilmente le realtà interessate dalla presenza delle basi: Uso dei territori a fini bellici, esproprio del diritto alla sovranità, attacco ai diritti sociali, alle libertà individuali e collettive, condizionamento profondo dei processi democratici e dell’economia locale, rischio ambientale e stravolgimento dell’ecosistema.
Se questi ed altri elementi accomunano le nostre realtà e guidano le nostre lotte locali è ora di pensare ad una nuova stagione che trasformi le comuni condizioni in un progetto nazionale di resistenza e controffensiva antimilitarista, per la chiusura delle basi ed il ritorno dei territori sotto la nostra sovranità, per una nuova collocazione internazionale dell’Italia fuori e contro la NATO.
Sulla scorta delle esperienze maturate in questi anni è possibile costruire una piattaforma rivendicativa comune capace di imporre di nuovo nell’agenda politica nazionale la questione delle basi.
Vorremmo con l’occasione riprendere e rilanciare una proposta emersa in vari momenti di confronto, assemblee, convegni e mobilitazioni tenutesi in questi anni in varie città italiane, quella della costruzione di un coordinamento nazionale che si verifichi in tempi brevi intorno ad alcune grandi scadenze, a partire da una “marcia nazionale delle comunità e dei comitati che si battono contro le basi”, sulla falsariga delle grandi battaglie sviluppatesi in questi anni a Scanzano ed in Val di Susa
Da Sigonella ad Aviano, da camp Darby alla Sardegna, da Solbiate Olona a Taranto e a Brindisi lavoriamo ad una grande manifestazione nazionale che chieda la chiusura delle basi militari USA NATO in Italia, l’uscita l’Italia dalla NATO e dal meccanismo infernale delle guerre imperialiste, perché non si ripetano più le vergogne della Moby Prince e del Cermis, dei rapimenti e dei trasferimenti di prigionieri “invisibili”, per il diritto alla sovranità sulla nostra terra, per la difesa delle nostre libertà individuali e collettive, per la salvaguardia del nostro ecosistema.
L’unico governo amico sarà quello che porrà al centro della sua azione politica questi obiettivi. Alla luce dei recenti avvenimenti e delle scelte in corso d’opera di questo esecutivo la parola d’ordine, naturale ma non scontata è la solita: organizziamoci e prepariamoci alla lotta!
Valter Lorenzi Del Comitato unitario per lo smantellamento e la riconversione a scopi esclusivamente civili della base USA di Camp Darby Esponente del Comitato Nazionale per il Ritiro delle truppe dall’Iraq.
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Intervista ad Andrea Licata, esperto di riconversione dei siti militari: «Gli Stati Uniti si installano dove non c’è controllo e si paga meno. Ecco perché raddoppiano Ederle» «Vicenza sarà la più offensiva delle basi Usa in Europa»
di Davide Varì (Liberazione)
«Gli Stati Uniti raddoppiano la base di Vicenza perchè evidentemente gli conviene. Di solito l’amministrazione americana è molto pragmatica: sceglie posti economici, accoglienti e dove è possibile inquinare senza troppi problemi». Insomma, secondo Andrea Licata (Presidente del centro studi e ricerche per la pace presso l’università di Trieste, esperto di riconversioni di basi militare ed autore del libro “Dal militare al civile, la conversione preventiva della base Usa di Aviano” - Editore Kappavu) i motivi che hanno spinto gli Usa a richiedere il raddoppio della base vicentina non sono motivi di sottile geopolitica. Per farsi un’idea basti pensare che il 37% delle spese sono a carico dei cittadin italiani.
«Questo vuol dire che più di un terzo delle truppe Usa le manteniamo noi, con le nostre tasse».
E se, a questo punto, comprendiamo le ragioni degli Stati Uniti, sfuggono quelle del comune di Vicenza che proprio ieri ha approvato il raddoppio della base militare americana che “ospita” nel proprio territorio. Lo chiediamo proprio ad Andrea Licata che forse qualche risposta è in grado di fornircela.
Insomma, cosa ha spinto la giunta del comune di Vicenza a concedere l’ampliamento della base Usa?
Innanzi tutto mi vengono in mente mere ragioni politiche. Siamo di fronte ad una contrapposizione nei confronti del governo di centrosinistra da parte di un’amministrazione di centrodestra. Poi mi vengono in mente alcuni interessi economici che evidentemente andavano sostenuti. Forse esistono alcune lobby che si avvantaggiano di questi lavori: imprenditori e costruttori su tutti. Insomma, se per i cittadini questa decisione rappresenta una grave perdita, per alcuni potrebbe rappresentare un bel guadagno. Del resto è la stessa giunta di centrodestra che ha bloccato il referendum proposto. Hanno paura che i cittadini di Vicenza, gli stessi che li hanno votati, si oppongano a questa scelta scellerata. Ma ripeto, forse qualcuno ci guadagnerà.
Che intende dire?
Intendo dire che centinaia di migliaia di Euro pubblici, finiranno nelle tasche di una manciata di privati.
Ma la giunta di Vicenza sostiene che aumenteranno i posti di lavoro.
Questa è una bella favola. Intanto voglio specificare che quei pochi lavoratori saranno inquadrati sotto il governo Usa con posizioni contrattuali e vincoli molto particolari. E poi basti pensare che ad Aviano ci sono 700 dipendenti, un numero ridicolo di lavoratori. Senza contare che le riconversioni delle basi militare compiute in tutto il mondo hanno dato numeri di impiegati molto molto superiori.
E forse, anche altri tipi di benefici?
Certo, le conversioni avvenute nel resto del mondo sono state dei grandi successi. Sia da un punto di vista ambientale che di opportunità di lavoro. Sia per la pace naturalmente. Penso ad ex basi che sono divenute centri di energia rinnovabili, distretti commerciali e aeroporti civili. Penso alla base di Werle in Germania e a quella di Achim, vicino Berna, che ora ospita una grande area verde e una grande area residenziale. Penso inoltre agli ex dipendenti della base militare di Brugen-Bracht che hanno fatto corsi di riqualificazione, di giardinaggio, di architettura edilizia disegno e tante altre attività costituendo una cooperativa. Insomma, decine di progetti alternativi che hanno creato circuiti virtuosi.
E in Italia qual’è la situazione rispetto alle conversioni delle basi militari?
In Italia c’è il deserto. Abbiamo una situazione di abbandono, non certo una progettualità di bonifica e riconversione dei siti militari. Non ci sono centri di studio né università che abbiano puntato le proprie attività sulla riconversione. Ci sono alcuni siti, come quello del Monte Nardello in Calabria, dove prima c’era una base Usa di radar, che è abbandonata da anni. C’è stata una piccola e inconsistente bonifica e poi più nulla. Addirittura ci sono le scuole della zona che spingono per creare un osservatorio ambientale, ma nessuno gli da retta, nessuno li ascolta.
Insomma in Italia si va in direzione opposta rispetto al resto dell’ Europa?
Mi sembra evidente. Sia chiaro, noi cittadini italiani paghiamo il 37% delle basi presenti in italia, insomma, siamo noi che paghiamo le truppe Usa. La basi militari sono un buco nero e i motivi che spingono l’amministrazione Usa a scegliere i luoghi nei quali installarsi non rispondono sempre a logiche di geopolitica. Anzi, le basi si muovono anche in base ai seguenti criteri: primo, dove pagano meno; secondo, dove hanno libertà di inquinare; terzo dove c’è una certa ospitalità.
Quindi i militari americani si trovano bene, per così dire, in Italia.
Evidentemente si. Per quel che mi risulta i controlli ambientali del nostro governo sono molto difficili, limitati e poco indipendenti. Poi c’è il discorso legato ai familiari dei militari. Ormai le agenzie di reclutamento usa sembrano agenzie di viaggio. “Vieni in Italia, a Venezia, in Toscana, Firenze. Buon cibo, buon vino, moda” e così via.
E per quanto riguarda le bonifiche, di chi sono le spese?
Tutte le basi inquinano e le spese di bonifica e di dismissione sono il vero grande problema per le amministrazione americane: cercano in tutti i modi di evitarle. La bonifica non solo è necessaria, ma è obbligatoria per legge. Per farsi un’idea della portata dell’inquinamento che provocano basta consultare i dati sulle falde acquifere. E ripeto, i controlli sono molto difficili. Di fatto le basi sono una sorta di appendice del territorio americano.
Ora la palla passa al governo, al ministro della difesa Arturo Parisi.
Sì, certo, sta a lui l’ultima parola. Sarà lui che dovrà controfirmare la decisione della giunta del comune di Vicenza. Io spero davvero che si fermi questo scempio. basta dare un’occhiata alla cartina della città per rendersi conto che siamo di fronte ad un vero e proprio assedio. Un assedio militare, Vicenza non ha più vie di fuga. Una situazione grottesca e inquietante che deve essere fermata. Peraltro, in questo modo Vicenza diverebbe una delle basi più grandi ed offensive d’Europa. Cosa hanno in mente non è dato sapere, ma di certo nulla di cui star sereni.
NO BASE U.S.A. VICENZA
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