Kristian è rumeno.Lavora per un caporale che lo picchia e non vuole metterlo in regola.E Kristian ha deciso di dire basta
E’ stato arrestato Antonino Di Vincenzo, l’imprenditore che aveva vinto l’appalto per la ristrutturazione di una palazzina residenziale a Torre Gaffe tra Licata e Palma di Montechiaro crollata il 20 settembre scorso per un cedimento strutturale. Nell’incidente venne gravemente ferito un operaio che lavorava nel cantiere al momento del disastro. Si chiamava Spridon Mircea. Era rumeno. Lavorava in nero. Rimase sotto le macerie per due giorni, gridando aiuto incastrato sottoterra, ma il responsabile dei lavori aveva dichiarato che nessun operaio era in cantiere quel giorno. Morì subito dopo essere stato riportato alla luce. Per estrarlo dalle macerie fu necessario amputargli gli arti inferiori, l’emorragia fu troppo forte. Spridon Mircea, aveva 32 anni. La moglie voleva denunciare la sua scomparsa, ma lo fece in ritardo perché Antonio Di Vincenzo pare che la minacciasse. Quando l’uomo morì e le forze dell’ ordine cominciarono ad interrogare Di Vincenzo, l’imprenditore rispose che quel rumeno lavorava lì come giardiniere.
Oggi Di Vincenzo è accusato di omicidio colposo, favoreggiamento all’immigrazione clandestina, crollo di costruzione per colpa (non avrebbe adottato le misure di sicurezza idonee), minacce nei confronti dei familiari dell’operaio. I carabinieri di Licata, così come richiesto dalla Procura della Repubblica e dal Gip del Tribunale di Agrigento, hanno arrestato l’imprenditore il 4 novembre scorso.
A ricordarci questa storia è stato un altro lavoratore clandestino, che ha deciso di ribellarsi al suo datore di lavoro per non fare una fine simile.
Kristian è rumeno. La sua pelle ha un colorito olivastro. Al primo sguardo, senza aver ancora sentito la sua voce, sarebbe davvero arduo collocarne la provenienza da una nazione dell’est europeo, tanto è vero che il connazionale che ce lo presenta, ironicamente, per qualche istante finge con noi che l’amico sia magrebino. Indossa degli abiti molto leggeri. La maglia lisa di una tuta lo ripara a stento dall’inverno che ha già bussato alle porte di Bologna.
Kristian ha lasciato cinque anni fa il suo piccolo paese a 350 chilometri da Bucarest alla volta dell’Italia. La sua storia purtroppo è simile a quella di molti altri immigrati che giungono nel Belpaese nel rispetto delle leggi, tramite un visto turistico, e che poi, ufficialmente, scompaiono, inghiottiti dalle sabbie mobili del lavoro nero, in quel circolo vizioso costellato da una logica semplice e al tempo stesso spietata: per ottenere un lavoro regolare occorre essere in possesso di un permesso di soggiorno, ma per ottenerlo bisogna prima essere assunti.
Kristian lavora in nero presso una ditta edile molto nota della provincia bolognese. Il titolare ha un cognome rispettato e forse, proprio questo lo mette al riparo da visite di ispettori fastidiosi. Vive a 3 chilometri dall’ex baraccopoli sul fiume Reno, in una tenda di plastica che si è costruito da solo nella campagna. Lo abbiamo incontrato in un parco a ridosso di una delle arterie stradali più trafficate della città e per farci capire meglio com’è rivestita la sua “casa”, indica il sacchetto nero dei rifiuti che si trova a pochi passi da noi. “Per ora si sta bene-dice- ma d’inverno è dura”. Ci racconta delle difficoltà quotidiane provate negli scorsi anni e legate al gelo. Semplici gesti come un bagno o il lavaggio dei panni divengono impossibili quando infatti il Reno si ricopre di ghiaccio. In proposito, con quell’umorismo che accompagna chi serba dentro di sè una grande dignità, ci racconta di un altro rumeno, un campione di nuoto, che l’anno prima aveva sfidato le rigide temperature: si era creato un varco nel ghiaccio colpendolo con la coppa conquistata in patria grazie alle proprie vittorie sportive.
Kristian ha 5 figli (il più piccolo ha un paio di mesi e il più grande ha 16 anni), la moglie è invece rimasta in Romania. La famiglia non può venire in Italia perchè lui non ha un lavoro fisso e neanche un posto dove farli dormire: “Per cosa dovrei farli venire qui? Per farli ammalare?” Ci lascia inoltre intuire che in realtà i propri cari siano all’oscuro del disagio che il marito, il padre, sta effettivamente affrontando in una città così lontana. Non ha i soldi per pagare un affitto e il comune, quando ha provveduto allo sgombero del campo nomadi il 4 agosto scorso, non gli ha concesso la roulotte perché rappresenta un aiuto riconosciuto solo a chi ha moglie e figli, mentre lui vive qui da solo e si arrangia come può insieme a qualche amico. Non è un uomo a cui piace lamentarsi Kristian, anche se alcuni sprazzi di malinconia trapelano inesorabili durante la nostra conversazione. Sfiduciato ci confessa infatti che forse sarebbe davvero preferibile mangiare una cipolla in Romania anzichè vivere in queste condizioni in Italia. Ma è solo un attimo di sconforto perché quest’uomo con i capelli arruffati ed un sacchetto del supermercato come valigia, non è uno a cui piace arrendersi facilmente.
In fondo Kristian è fortunato, lavora, o almeno lavorava fino a pochi giorni fa.
“Vuoi lavorare?”. Tutto è iniziato con questa domanda. Il suo capo mesi prima era venuto in questo parco un pò appartato in cui, in maniera molto più sbrigativa che all’interno di un agenzia di lavoro interinale, s’incontrano la domanda e l’offerta di lavoro. Un modello di mercato piuttosto snello in cui l’assenza di scrupoli di una delle due parti e la disperazione dell’altra facilitano e forzano gli accordi. Il capo infatti, dopo altri semplici interrogativi, l’ha “assunto”. Senza neppure il bisogno di dover saggiare la consistenza dei muscoli del “dipendente”, come a volte accade in pieno stile “tratta degli schiavi”. Qualche mese fa è quindi iniziato il lavoro in cantiere.
Ma da allora l’ “assunzione” avviene ogni mattina, dal lunedì al sabato, senza nessuna certezza che la stessa venga confermata. Alle 6 del mattino il pulmino nove posti del capo lo passa a prendere alla fermata dell’autobus per condurlo al lavoro nello stabilimento edile di sua proprietà, dove nessuno, ovviamente, è mai venuto a fare un’ ispezione. Kristian è forte, lui è un altro rumeno fanno il lavoro di 4-5 operai, scaricando e caricando cemento e calcestruzzo dal deposito ai furgoni stipati di materiale. Se qualche volta succede un intoppo il capo interviene. Prende una sbarra d’alluminio e lo picchia fino a quando ha imparato a non commettere errori. “Diventa pazzo, se la prende con tutti, non possiamo dire niente. Certe volte non capisce più niente.” La paga media è di circa 40 euro al giorno, il “turno” finisce alle 7 di sera. Al ritorno però non c’è il pulmino che li riaccompagna perché c’è troppo traffico, troppi passanti in giro dotati di occhi indiscreti.
Kristian vorrebbe denunciare il capo perché l’ha picchiato e non vuole metterlo in regola. E’ sempre la solita storia: senza un lavoro in regola non può avere il permesso di soggiorno. Il titolare della ditta, dopo l’ennesima pressante richiesta di regolarizzazione, da alcuni giorni ha deciso di fare a meno di quell’irritante “dipendente” che ha anche pesantemente minacciato. “Io per lui non esisto. Sono clandestino. Se vuole può mettermi dentro un sacco della spazzatura e buttarmi nel fiume o sotto un ponte. Me lo ha detto lui. Lo dice sempre”. Ma non ha paura per questo. “Se io oggi dico basta e me ne vado, domani lui prende un altro come me, che accetta di lavorare in nero. Però se io lo denuncio mi rimandano in Romania perché sono clandestino, anche se ho sempre lavorato. Chi mi può aiutare allora?”.
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