Per ricordare Prof. Bad Trip, il suo intervento nel libro 'Lumi di Punk' di Marco Philopat
Professor Bad Trip (La Spezia)
Il Professor Bad Trip suonava con gli Holocaust, una delle prime punk
band di La Spezia, ma la sua vera passione era la grafica che faceva
esplodere in una delle più riuscite punkzine del periodo, “Archaeopteryx”
che pubblicava insieme a Benzo. Da allora il Professore ha realizzato tavole
e fumetti per centinaia e centinaia di fanzine, poster, copertine di dischi
e di libri, ha collaborato con le più svariate pubblicazioni e dipinto
murales dovunque (ne ricordo uno bellissimo all’entrata del Kronstadt,
primo centro occupato a La Spezia). Dal 1989 ha iniziato a dipingere su
tela diventando in breve un quotato pittore a livello internazionale. Continua
ancora oggi a regalare tavole originali a tutta la teppa editoriale del
mondo e fa lo psycho-deejay appena gli capita. Insieme alla compagna,
la scultrice italo americana Jena Filaccio, collabora alla realizzazione di
opere d’arte mischiando le due espressioni artistiche. Da qualche tempo
hanno aperto un loro laboratorio di creazione ed esposizione nella campagna
spezzina, gli Insoliti Ignoti, dal quale esce periodicamente una ‘zine
gratuita, “L’isola del Professore”.
Bad Trip ha partecipato all’incontro in Cox 18 nel novembre del 2005. Nella
serata avrebbe dovuto parlare con Robertino peter punkk, il quale, impegnato
a prendersi mazzate dai vigili urbani in una manifestazione di Critical
Mass, non riuscì ad arrivare a Milano. Il Professore quella sera s’arrabbiò,
aveva appena terminato un murale vicino al palco di Cox 18 e poi avrebbe
dovuto esibirsi come deejay. Il suo intervento era costellato di imprecazioni
per la mancanza del compagno: “Era meglio Robertino, noto logorroico, io
dipingo e mando musica...”. Lo sbobinato era un disastro. Nell’agosto 2006
ci ha spedito una lettera con il seguente testo dattiloscritto.
1977
Nel ’77 avevo quattordici anni e con la testa non ero mai uscito dal
mio quartiere: parlavo il gergo del quartiere, appartenevo al quartiere
o, come la chiamano oggi, alla borgata marinara.
Figlio unico di padre marconista (cioè radio-telegrafista sulle navi
mercantili) e madre casalinga apprensiva e iperprotettiva ai confini
della paranoia. Io, muscolaio d’estate e studente il resto dell’anno,
ero già fissato coi fumetti, i dischi, le sale da ballo e, come quasi tutti
i maschi di quell’età, con il gioco del calcio in tutte le sue salse.
Ruba mazzo coltello pesce
Nel quartiere Canaletto se si voleva avere una vita sociale al di fuori
della propria famiglia, della scuola o dell’oratorio dei Salesiani si doveva
fare vita da bar, con le sue costanti tipiche, noia, violenza, culto
del più furbo, gioco d’azzardo accanito, tutto tenuto insieme da un
flebile senso di appartenenza alla tribù dei maschi del quartiere, che
vacillava a ogni nuovo episodio di “ruba mazzo coltello pesce”.
Il “coltello pesce” era un tiro del calcio balilla che permetteva di
superare i portieri più bravi con un colpo dalla propria difesa facendo
rimbalzare violentemente la pallina sulla sponda all’altezza della
metà campo; in senso metaforico descriveva un tipo di furto eseguito
con astuzia e allenamento.
Il “ruba mazzo” era un gioco di carte troppo basato sul culo, ci
giocavano solo le donne e i bambini, e, riferito ad altro ambito, significava
quando il ladro era stato contemporaneamente infame, vile e
fortunato.
I parenti dei nostri amici giocavano assieme a gruppi fissi il sistemone
del totocalcio al baretto sull’angolo; dopo anni di investimenti
collettivi azzeccavano finalmente un 13 buono. Allora quello che
aveva con sé la schedina vincente (di solito la tenevano a turno) non
solo scappava coi soldi senza dividere la vincita coi soci di giocata,
ma abbandonava pure la moglie e i figli, nostri amici, in balia dell’odio
e dell’infamia del quartiere tutto.
Ecco, qualcuno al bar una volta definì questo tipo di comportamento
abbastanza frequente come “ruba mazzo coltello pesce”.
La violenza
L’unico tipo di violenza assente era quella politica; se vi picchiavate
per motivi di soldi, figa, droghe o semplicemente per il gusto di farlo
eravate considerati dei ganzi; se lo facevate per motivi politici, attirando
l’interesse degli sbirri senza guadagnarci un cazzo, eravate
considerati dei poveri coglioni e venivate prontamente emarginati.
La banda delle panchine era specializzata nella spaccata delle discoteche
e per un po’ sono uscito con loro per andare a ballare; solo
che la mia scena preferita era quando Tony Manero/John Travolta
vince la gara di ballo e si spupazza la tipa alla fine del film La febbre
del sabato sera, invece la scena preferita dal “Frego” era quando i
drughi sfondano di botte, costringendolo alla sedia a rotelle, il riccone
sequestrato nella villa, canticchiando Singing in the rain, nel film
Arancia meccanica di Kubrick.
L’ignaro deejay di turno passava la versione disco Singing in the
rain di Sheila & B Devotion e dentro il posto si scatenava l’inferno.
A me tutta quella violenza gratuita, quel machismo demenziale,
quelle risse continue un po’ ripugnavano e annoiavano, ma cosa potevo
farci se erano loro i miei amici e colleghi di lavoro estivi?
Allora ho cambiato strategia, partecipavo alle riunioni preparatorie
sulle panchine dove individuavano la prossima discoteca da distruggere,
la banda di un altro quartiere da fare a pezzi, la via di fuga
con vespe e motorini finito il tutto, poi il sabato seguente partivo con
i mezzi pubblici per i fatti miei scegliendo una sala da ballo il più
possibile lontana da dove andavano loro, comunque già rassegnato
che per tutta la settimana successiva mi avrebbero martellato i coglioni
coi racconti dell’ultima rissa, che ero stato così un cazzone a
non andare con loro, che non si erano mai divertiti così tanto.
Le cozze
D’estate mia madre mi affidava a suo zio France’, detto “Pio” e a
mio nonno Carletto, detto “Veleno”, che facevano i muscolai, cioè i
coltivatori di cozze, prima da bambino a pescare e in seguito al centro
per l’insacchettatura, la pesa e la vendita dei muscoli all’Unione,
il capannone commerciale della cooperativa dei mitilicoltori spezzini,
alla marina del Canaletto.
Ho cominciato a fare il lavoratore stagionale buttando i biglietti
con la data di scadenza nei sacchetti di cozze, avevo bisogno dello
sgabello per arrivare con la mano al buco dell’apposita macchina,
ero così giovane che gli altri muscolai mi chiamavano “il Ninin”.
Per questo motivo, nonostante fossi già considerato strano dagli
altri ragazzi della mia età, venivo tollerato e rispettato un minimo,
anche perché protetto da quelli più grandi con i quali passavo tutta
la stagione lavorativa tra le cozze, dall’inizio di giugno alla metà di
settembre.
La scuola
Il lavoro da muscolaio fisso era roba da cani sciolti, sottoproletari semianalfabeti,
refrattari lupi solitari ubriaconi, inadatti alla disciplina
di qualunque tipo di fabbrica o ufficio, e mia madre mi diceva spesso
che lei avrebbe fatto qualsiasi cosa affinché io potessi studiare il più
possibile, per non farmi diventare un buzzurro imbruttito e ignorante
come il resto dei maschi della sua famiglia o gli amici del nonno.
Alle elementari e alle medie, pur studiando pochissimo, ero uno
dei più bravi, il primo della classe in italiano, educazione artistica,
disegno geometrico e matematica. Per questo motivo i miei decisero,
convinti dagli insegnanti delle medie, di iscrivermi al liceo scientifico
per farmi diventare dottore o ingegnere. Naturalmente io avrei voluto
fare il liceo artistico a Carrara ma la mia opinione non contava un
cazzo, e poi tutti dicevano che quella era una scuola di drogati e finocchi
in una città di balordi estremisti.
Il primo anno fui promosso dopo essere stato rimandato in due
materie, non senza problemi disciplinari.
Alcuni insegnanti particolarmente reazionari mi offendevano in
pubblico e mi umiliavano con ripetute battutine sulle mie origini
muscolaie e fu questo il motivo principale per cui decisi, all’inizio
del 1978, di diventare pure punk, giusto per renderne la mia presenza
in classe ancora più insopportabile... Tanto per loro puzzavo di
merda già così com’ero. Allo scientifico non c’era la feccia del Canaletto,
erano tutti figli di avvocati, dottori, commercianti, al massimo
insegnanti.
Con alcuni della mia classe abbiamo formato un gruppo punk, i
Putrefax, e suonavamo con due kazoo, due chitarre acustiche mezze
marce e la batteria fatta con le pentole vecchie e i fustini vuoti del
Dixan. Finì tutto al termine dell’anno scolastico. Agli altri due troglomusicisti
del punk non gliene fregava un cazzo.
Un punk
Facevo una fanzine fotocopiata, tutta da solo, intitolata “Anarchy”,
coi pezzi presi dai libri sulla Seconda guerra mondiale comprati a
metà prezzo nelle librerie remainder; ritagliavo belle foto in bianco e
nero di gerarchi nazisti e kamikaze e applicavo sopra le facce di Andreotti,
Agnelli, Fanfani e Berlinguer copiando le tecniche di collage
che avevo visto per la prima volta sulla rivista “Il Male”, di cui ero un
assiduo lettore. Nei testi ci mettevo le traduzioni delle canzoni dei
Ramones e dei Sex Pistols, poi poesie e volgarate varie.
Portavo le copie da Bloom & Roosmann, un’ex libreria di movimento
riconvertita a negozio di dischi dove c’era “Bobò”, un mio
amico mod, abile armonicista blues, che faceva lì il commesso e me
le metteva in bella mostra sullo scaffale delle riviste musicali. Poi,
tramite l’intercessione della sorella più grande di una mia compagna
di classe fricchettona femminista – che poi si è bruciata il cervello
con i trip ed è impazzita completamente – mi sono presentato e proposto
come deejay alla redazione di Radio Popolare Alternativa, la
radio libera degli autonomi rimasti, non senza diffidenze iniziali
giacché i primi punk erano unanimemente riconosciuti e indicati dai
media di qualunque tendenza politica come dei rozzi fascistoidi nichilisti.
Mi chiamavano Gianluca punk per distinguermi da Gianluca
l’autonomo, all’inizio facevo un programma in coppia con Dino
Twist, un altro mio compagno di liceo, figlio di farmacisti che sarebbe
in seguito diventato pure lui farmacista. Insieme trasmettevamo,
oltre ai rari dischi che si riuscivano a trovare nei negozi di Spezia, anche
tutto il merdone rock’n’roll, twist, pop trovato nelle soffitte e
cantine dei vari genitori, parenti e conoscenti. Così gli autonomi ci
presero subito in simpatia perché eravamo gli unici di tutta la radio a
passare anche musiche ascoltabili dalle masse.
Ero l’unico punk della radio, l’unico punk del quartiere, l’unico
punk del liceo.
Due punk
Un giorno del 1978 ho beccato Benzo all’uscita del liceo mentre
aspettava una sua fidanzata che frequentava una classe differente
dalla mia. Tentava di vendere agli studenti la sua fanzine punk ciclostilata,
che mi pare si chiamasse “Attack” o qualcosa di simile; ne ho
subito acquistato una copia e abbiamo fatto amicizia.
Saputo che ero del Canaletto mi ha invitato a un concerto alla
Fil.Tram. dove avrebbe suonato con il suo gruppo punk, che oltre a
pezzi loro faceva anche cover dei Ramones e degli Stiff Little Fingers.
Mi raccontò che stava raccogliendo televisioni nella spazzatura
perché aveva intenzione di frantumarle dal vivo alla fine del concerto...
Gli dissi che era pazzo se pensava di uscire vivo da quel locale,
in un quartiere di coatti che lo avrebbero fatto a pezzi. Io stesso in
quel quartiere avevo rischiato un linciaggio per molto meno. La settimana
prima ero andato in un bar da quelle parti con un numero di
“Cannibale” con una stupenda copertina di Scozzari (numero 10,
novembre 1978). Parlando con i locali gli avevo detto che quello era
un giornalino a fumetti interessante e non quella merda da subumani
che leggevano loro (“Lando”, “Il Montatore”, “Jacula” ecc.) e un
tipo che si chiamava lo Stags con il suo amico Folletto mi avevano inseguito
incazzati di corsa fino sotto casa per strapparmelo e picchiarmi.
Il concerto
La Fil.Tram. era il grosso bar dopolavoro dei tranvieri che abitavano
e bazzicavano numerosi al Canaletto per via dell’unico deposito cittadino
di autobus e filobus, vicino a casa mia.
Al primo piano c’era il bar con una grande sala per i tavoli da gioco
delle carte, un’altra sala per le partite a boccette senza stecca con
un paio di biliardi, un angolo all’entrata per i più giovani con un
juke-box mezzo putrido, due flipper e quattro o cinque tra i primi
videogame. Al secondo piano c’era una discreta sala da ballo o sala
per concerti, attiva negli anni Sessanta e usata saltuariamente alla sera,
in quel periodo, da alcuni musicisti del quartiere per corsi privati
di chitarra, rock’n’roll acrobatico e altre simili stronzate obsolete.
Il bar la sera diventava il luogo di ritrovo dei giocatori incalliti e
dei coatti più tremendi della zona.
Così quella sera, mi sembra fosse durante le vacanze di Natale del
1978 ma potrei sbagliare, nella sala mezza buia, pienissima all’inverosimile
e intasata dal fumo di duecento Ms e Marlboro accese contemporaneamente,
dopo un paio di pallosi gruppi blues deprimenti,
ecco finalmente i Fall Out di Benzo nella loro primissima formazione,
che nessuno si ricorda: un batterista jazz che non c’entrava un
cazzo, un bassista e un chitarrista new wave mezzi dark che di lì a poco
sarebbero diventati due tossici. Benzo alla voce faceva roteare il
microfono in faccia al pubblico, tipo Roger Daltrey degli Who, e al
termine della versione di Blitzkrieg Bop dei Ramones aveva spaccato
a mazzate le televisioni, alcune grosse degli anni Sessanta, con i pezzi
di vetro che schizzavano verso le prime file di teppisti esterrefatti, a
bocca aperta, completamente inerti e inebetiti. In quel momento
non me ne rendevo ancora conto, ma la piccola epopea delle bande
giovanili di quartiere, che andava avanti a La Spezia dagli anni Cinquanta,
stava per finire rapidamente, sostituita dal ciclo dell’eroina.
In seguito si sarebbero viste persone di quartiere e bande diverse,
pronte fino al giorno prima a spaccarsi la faccia per uno sguardo
storto, uscire insieme per comprare, trafficare e farsi la roba.
Sei punk
A quel primo concerto c’erano ben sei punk. Benzo (capello rasato,
giacca di pelle nera piena di spillette, anfibi marci), il bassista e il chitarrista
dei Fall Out (look soft dark sul tipo Killing Joke), Sunnyboy
(look “no wave” newyorkese), io (jeans stracciati, anfibi militari nuovi,
cravatta sottile e giacca da caccia inglese trovata nella spazzatura, tipo
copertina del primo disco dei PIL, spilletta degli stessi PIL e spillona
“Punk rule ok”) e infine la Marisa (che era appena tornata da Londra
e sembrava l’unica vera punk del lotto, come quelli che avevamo visto
nel programma tv di Arbore o nelle foto delle riviste musicali).
Holocaust
In seguito con il Benzo continuammo a fare molte cose insieme: i
programmi a Radio Popolare, l’organizzazione di svariati concertibenefit
per la radio stessa, tra cui quello con Fall Out, Nabat e Raf
Punk di Bologna, ma soprattutto la redazione di quattro o cinque
numeri della punkzine “Archaeopteryx” (i primi due eliografati all’Eliotecnica
del Canaletto, gli altri stampati alla tipografia degli
anarchici di Carrara).
Un giorno era arrivato Benzo e mi aveva detto che nel quartiere
di Pegazzano c’era un bel gruppo di altri veri punk e che forse aveva
trovato un bassista e un chitarrista nuovi per il suo gruppo musicale.
Così aveva cacciato i mezzi dark e lo stronzo jazzista odioso con la
puzza al naso tirando in mezzo Marco e il Bebbe, più un altro chitarrista
mezzo metallaro e un batterista tutti e due di Sarzana che sarebbero
durati un pugno di concerti. Benzo decise anche di cambiare il
nome della sua band semplicemente aggiungendo la A cerchiata sulla
seconda lettera di Fall Out.
In seguito arrivò Giampus da Roma a vivere a Portovenere e diventò
il batterista definitivo del gruppo, portando con sé, sempre da
Portovenere, altri due punk convinti, Flavietto “Siotto” e Daniele,
cosicché l’anno dopo con “Tack” di Pegazzano formammo un secondo
gruppo di gente motivata, gli Holocaust. Ragazzi motivati a
essere punk e girare per l’Italia e non certo a fare i musicisti. Nessuno
di noi sapeva suonare e l’unico che ha continuato nel tempo una
blanda attività nei gruppi underground della zona fino ai giorni nostri
è stato il batterista, Tack.
La fine
Questa storia collettiva dei primi punk spezzini andò avanti per un
po’ con i classici ingredienti: birra, poghi, concerti in giro per l’Italia,
occupazioni di centri sociali, denunce, arresti e botte dalle guardie
nere e, soprattutto, dalle guardie rosse.
Bocciato in seconda scientifico e ritiratomi i primi mesi dell’anno
successivo, convinsi infine la mia famiglia a lasciarmi preparare l’esame
da privatista per entrare direttamente al secondo anno del liceo
artistico di Carrara, che così avrei recuperato gli anni di scuola persi.
Cosi feci; in seguito mi iscrissi all’Accademia di belle arti di scultura,
sempre a Carrara. Cominciai a frequentare artisti internazionali, musicisti,
compagni e coatti carrarini e per un po’ gli unici contatti che
avevo con i veri punk era quando Gaetano, il cuoco del circolo anarchico
Anarres, faceva la colletta e la lista dei dischi tra gli anarchici
interessati e, pagandomi il treno, mi spediva al Cassero di Bologna a
comprare il pacco di materiale della Crass Records. Infatti conoscevo
già i tizi dell’Attack Punk Records che facevano distribuzione militante
rispettando il prezzo imposto dai Crass, con grossi sconti rispetto
ai vampiri dei negozi di dischi.
Quando un gran numero di punk italiani che sapevano suonare
hanno cominciato a fare speed-metal o robe simili, a farsi crescere i
capelli e ad agitarli dal vivo scimmiottando i video dei Metallica ho
smesso di andare ai concerti e di frequentare la scena; era la metà degli
anni Ottanta.
I miei dischi preferiti
Ho continuato a seguire e consumare le robe punk più politiche, tipo
Alternative Tentacles, la casa discografica gestita da Jello Biafra
dei Dead Kennedys, e anche altri generi musicali, garage punk, noise,
industrial, elettronica e sperimentale.
Nonostante abbia un archivio musicale in vinile di varie migliaia
di dischi, i miei preferiti rimangono: il primo dei Fear, il primo dei
Germs, il primo dei Circle Jerks, tutti i dischi di Black Flag, Dead
Kennedys, DOA e ovviamente il primo Ep 7 pollici dei Fall Out.
Ogni tanto, due o tre volte all’anno, quando Jena, la mia compagna
scultrice, non è in casa, me li sparo uno in fila all’altro con la manopola
dell’amplificatore a volume lancinante, e faccio tremare per
un paio d’ore le mura del palazzo del condominio dove abitiamo.
Nessuno dei nostri vicini borghesi è mai venuto a protestare: hanno
paura di me, sanno che sono punk e vengo dal Canaletto.
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