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Non si sono spente le voci di pace
by arci Friday, Mar. 17, 2006 at 6:36 PM mail:

dall'unità on line

Non si sono spente le voci della pace
di Paolo Beni* Raffaella Bolini**

Tre anni fa centodieci milioni di persone invasero le strade del mondo contro la minaccia di una guerra imminente. Gli Usa e i loro alleati, incuranti della più grande manifestazione di tutti i tempi, iniziarono ugualmente la guerra all'Iraq. Dopo poche settimane dissero di averla vinta in nome della democrazia, che ben valeva il prezzo di migliaia di vite e di città devastate.

Tutti sappiamo che quella guerra non è mai finita. Il castello di menzogne con cui l'avevano giustificata è crollato, le bombe non hanno portato agli iracheni la libertà ma solo distruzione e l'umiliazione dell'occupazione. Oggi l'Iraq è sull'orlo della guerra civile, in balia della violenza e del terrorismo, a cui continua a versare il suo tributo di sangue.

La guerra produce frutti avvelenati, il Medio Oriente è una polveriera, la questione palestinese sembra non avere vie d'uscita, i conflitti regionali si fanno più minacciosi, il mondo è più insicuro.

La vicenda irachena è lo specchio del fallimento della strategia di Bush, del baratro in cui la sua politica di dominio sta trascinando il pianeta. La guerra è di nuovo arbitro della scena mondiale, con il diritto internazionale piegato agli interessi di una sola potenza e la politica che abdica al proprio ruolo in favore dei poteri del liberismo globale.

Soffiano venti di guerra. Come non vedere, nella campagna che si sta scatenando contro l'Iran, analogie con l'armamentario propagandistico che fu messo in atto per l'attacco all'Iraq? E quale credibilità può avere la denuncia della minaccia nucleare iraniana da parte di potenze armate di nucleare fino ai denti?

Non abbiamo dubbi: ci sono ancora mille buoni motivi per manifestare contro la guerra, per chiedere la fine dell'occupazione in Iraq e una nuova politica internazionale basata sul disarmo e sull'iniziativa diplomatica per la pace.

Tanto più che c'è chi sta soffiando sul fuoco dei fondamentalismi: vignette e magliette blasfeme o ambasciate in fiamme sono la messinscena di una guerra delle identità costruita ad arte per fornire argomenti a quella delle armi.
Il fanatismo dilaga nell'occidente cristiano e nel mondo islamico, irrigiditi nella loro chiusura identitaria e incapaci di dialogare perché manca lo spazio democratico in cui relazionarsi e riconoscersi.

Ecco allora che le parole chiave della convivenza cambiano significato: la giustizia si riduce alla ragione del più forte, la democrazia diventa l'arma che una parte del mondo scaglia contro l'altra, la libertà di alcuni il pretesto per negare i diritti di altri, sicurezza e diritti sociali si separano irreparabilmente.
È qui che la logica di guerra diventa pervasiva, la società interiorizza la paura, rinuncia ai propri diritti e nega quelli degli altri, accetta la logica della violenza e del terrore. È qui che passa l'idea dello scontro di civiltà, l'inganno di cui si alimentano guerra e terrorismo, alleati per tenere in pugno un'organizzazione del mondo basata sul dominio e lo sfruttamento.

Contro questo stato di cose, non c'è che l'alternativa radicale della pace e della nonviolenza, dei diritti e della giustizia.
Il 18 marzo, terzo anniversario dell'attacco all'Iraq, sarà in tutto il mondo una giornata contro le guerre. In Italia, alla vigilia delle elezioni, servirà per ribadire il no ad un governo che ci ha trascinati in guerra e ci sta spingendo nello scontro di civiltà. Servirà anche per ricordare a chi governerà domani che l'Italia deve lasciare l'Iraq ed intraprendere una politica estera alternativa, di pace.

Il ripudio della guerra è vivo nella coscienza del paese, ma ha bisogno del conforto di scelte politiche conseguenti, e del sostegno di una nuova cultura di pace. Per questo, a partire dalla giornata promossa venerdì scorso dalla Tavola della Pace, centinaia di iniziative di denuncia, informazione, discussione si svolgeranno in tutto il paese fino al 18 marzo quando a Roma, oltre al corteo nel centro cittadino, ci sarà l'incontro internazionale dei soldati contro la guerra ed il concerto dei ragazzi palestinesi dei campi profughi.

Il 18 marzo il popolo della pace tornerà a far sentire le sue mille voci diverse. In quel giorno non ci sarà spazio per chi predica l'intolleranza o la violenza, pratiche che non hanno niente a che fare coi movimenti pacifisti e altermondialisti in Italia e nel mondo.
Una giornata di manifestazioni pacifiche e serene sarà anche la risposta migliore a chi - da fronti opposti - sta cercando in questi giorni di infangare i valori e la credibilità del movimento per un mondo migliore.
*presidente nazionale Arci
**responsabile attività
internazionali Arci

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intervista a paolo beni
by da aprile on line Friday, Mar. 17, 2006 at 6:54 PM mail:

Non c'è spazio per la violenza
Il popolo della pace si mobilita il 18 marzo, a tre anni esatti dallo scoppio della guerra in Iraq. Iniziative sono previste in tutto il mondo. Ne parliamo con Paolo Beni, presidente dell'Arci
Carla Ronga


Il 18 marzo 2003 cominciava la guerra in Iraq. Allora, centodieci milioni di persone invasero le strade di tutto il mondo chiedendo alle armi di tacere e di dare spazio al dialogo. Ancora oggi, ogni giorno, aumenta la conta delle vittime, poco cambia se si tratta di civili o di giovani militari catapultati nell'inferno iracheno. Oggi l’Iraq è sull’orlo della guerra civile, in balia della violenza e del terrorismo, a cui continua a versare il suo tributo di sangue.
A distanza di tre anni, il popolo della pace torna a manifestare. Domani, 18 marzo sarà una giornata internazionale di mobilitazione, con manifestazioni e iniziative in tutto il mondo. In Italia, questa giornata assume una importanza particolare. Siamo in piena campagna elettorale, ed è necessario mettere la pace al primo posto dell'agenda politica. Ne parliamo con Paolo Beni, presidente dell'Arci.

La guerra porta altra guerra: il Medio Oriente è una polveriera, la questione palestinese sembra non avere vie d’uscita, i conflitti regionali, come nel caso iraniano, si fanno più minacciosi. Eppure il nostro paese sembra essere distratto. Manifestare oggi per la pace ha ancora un senso?
Ci sono ancora mille buoni motivi per manifestare contro la guerra, per chiedere la fine dell’occupazione in Iraq e una nuova politica internazionale basata sul disarmo e sull’iniziativa diplomatica per la pace. Come non vedere, nella campagna che si sta scatenando contro l’Iran, analogie con l’armamentario propagandistico che fu messo in atto per l’attacco all'Iraq? E quale credibilità può avere la denuncia della minaccia nucleare iraniana da parte di potenze armate di nucleare fino ai denti?
Inoltre, si sta soffiando sul fuoco dei fondamentalismi: vignette e magliette blasfeme o ambasciate in fiamme sono la messinscena di una guerra delle identità costruita ad arte per fornire argomenti a quella delle armi.

Si può dire lo stesso delle bandiere bruciate in piazza e degli slogan che incitano alla violenza?
A quelli che, nel nostro paese, credono giusto esaltare le stragi o l’intolleranza diciamo che consideriamo questa esaltazione incompatibile con il movimento pacifisca e nonviolento, che al contrario vuole mettere al centro il valore della pace, dei diritti, della giustizia e della convivenza.

Il fanatismo "abita" il mondo islamico come l'occidente cristiano. Due mondi che stanno perdendo la capacità di dialogare. Perché?
Perché manca lo spazio democratico in cui relazionarsi e riconoscersi. In questa situazione anche le parole chiave della convivenza cambiano significato. La giustizia si riduce alla ragione del più forte, la democrazia diventa l’arma che una parte del mondo scaglia contro l’altra, la libertà di alcuni il pretesto per negare i diritti di altri, sicurezza e diritti sociali si separano irreparabilmente.
E’ la pervasività della logica logica di guerra, la società interiorizza la paura, rinuncia ai propri diritti e nega quelli degli altri, accetta la logica della violenza e del terrore. E’ qui che passa l’idea dello scontro di civiltà, l’inganno di cui si alimentano guerra e terrorismo, alleati per tenere in pugno un’organizzazione del mondo basata sul dominio e lo sfruttamento.

Esiste un'alternativa?
Contro questo stato di cose, non c’è che l’alternativa radicale della pace e della nonviolenza, dei diritti e della giustizia. Sono convinto sia importante in questo periodo ribadire a chiunque governerà il nostro paese nei prossimi anni che una politica estera alternativa è una priorità e una necessità. La pace è l'unica sicurezza possibile.

La pace come unica via per una nuova governance mondiale. Pensi che il nostro paese sia maturo per compiere una scelta così di rottura con il presente?
Il ripudio della guerra è vivo nella coscienza del nostro paese, ma ha bisogno del conforto di scelte politiche conseguenti, e del sostegno di una nuova cultura di pace. Per questo, a partire dalla giornata promossa venerdì scorso dalla Tavola della Pace, si sono svolte ovunque nel paese centinaia di iniziative di denuncia, informazione e di discussione. Domani, a Roma, oltre al corteo nel centro cittadino, ci sarà l’incontro internazionale dei soldati contro la guerra ed il concerto dei ragazzi palestinesi dei campi profughi.

Il popolo della pace torna a far sentire le sue mille voci diverse. Un coro che non accetta "voci stonate", a favore dell'uso della forza e delle armi. Eppure, attorno al corteo, si percepisce la preoccupazione di rimanere vittime di strumentalizzazioni...
Il corteo, come l'intera giornata, è un'occasione di manifestare pacificamente contro le guerre, contro l'intolleranza, contro lo scontro di religioni. Una giornata di manifestazioni pacifiche e serene sarà anche la risposta migliore a chi - da fronti opposti - sta cercando in questi giorni di infangare i valori e la credibilità del movimento.
Non ci sarà spazio in questa manifestazione per posizioni di intolleranza o di violenza. Non ci sarà posto per slogan inopportuni e visi coperti. E questo è un punto sul quale l'Arci, come tutte le altre sigle che compongono il movimento per la pace, non è disposta a fare alcuna concessione.

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