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Dimenticare l’Iraq?
by lanfranco caminiti Monday, Sep. 13, 2004 at 2:16 PM mail:

Le truppe vanno ritirate. Ma forse non basta: forse diventa necessario ritirare ogni presenza, quella umanitaria, quella dell’informazione, quella dell’economia: giornalisti, volontari, infermieri, imprenditori, contractors, ciascuno abbia passaporto italiano deve lasciare l’Iraq. Dimenticare l’Iraq, appunto.

La perversa spirale guerra imperiale-fondamentalismo terrorista sembra lasciare sempre meno possibilità alla società civile, ai movimenti, all’opinione pubblica di chiamarsene fuori e trovare modi di opposizione e proposte di superamento, insomma spazio politico.
Da parte della guerra imperiale l’alternativa viene posta nei termini di un drastico «aut aut»: o con noi o contro di noi. Chi non è con gli Stati uniti viene dipinto come qualcuno che sostanzialmente aiuta il diffondersi del terrorismo, anche quand’anche in modo ‘innocente’, perché non ne capisce la gravità e la necessità di combatterlo con quella determinazione e quei determinati mezzi. In questa opzione, tutto diventa progressivamente lecito: la menzogna, soprattutto se non «scoperta», la tortura, se «sono in gioco le vite umane», una delega sempre più sproporzionata tra i servizi di intelligence e la trasparenza e il controllo del loro operato. Quanto più indefinita nel tempo diventa questa guerra al terrorismo, tanto più vengono sequestrate l’attenzione e la delega sociale.
Così, un esecutivo in carica, sia un governo forte che uno debole di consensi, ha «interesse politico» a concentrare l’attenzione e il giudizio popolare a quanto essi fanno contro il terrorismo fondamentalista, lasciando scivolare in secondo piano altri temi dell’agenda politica: l’andamento dell’economia, l’occupazione, le tasse, la sanità. La sicurezza, non solo «nazionale» ma nel senso anche più lato del termine, cioè quelle condizioni che permettono a ciascuno di avere la certezza primaria della propria vita, e quindi di potersi muovere per lavorare, risparmiare, investire, immaginare il futuro proprio e dei figli, diventa la questione centrale. La «nuova guerra » riapre e colloca in una dimensione globale [sovrastatale] le condizioni dell’insostenibilità di vita sociale e economica se non viene prima affrontata la questione biopolitica della sicurezza dal «nemico», di avere una propria «forma di vita». Il trade off [fare delle scelte accettando di avere minore quantità di una cosa in cambio di una maggiore di un’altra] fra libertà e sicurezza è un criterio devastante della «forma» e delle regole della democrazia liberale. E, purtroppo, sembra funzionare.
D’altra parte «l’opzione Zapatero», oltre che un modo corretto di presentarsi ovvero di rispettare un punto del proprio programma elettorale, sta tutta dentro la qualità di un gesto di governo, ovvero sottrarre subito il proprio operato, e cioè quanto andrà progressivamente valutato dai propri elettori, da una agenda politica «imposta» da un esecutivo precedente e da una situazione internazionale in cui non si è avuta voce in capitolo. Anzi, per un periodo iniziale quella decisione fa premio su tutto il resto. Per un governo all’inizio del proprio mandato era e rimane la cosa giusta da fare. Oltretutto, Zapatero ha già il «suo» di terrorismo, quello basco, e ha già i suoi di grattacapi con questo per doversi impegolare con altro.
Ma per Chirac e il governo francese, la decisione di non sostenere gli Usa e anzi di criticare apertamente la loro guerra non li ha messi al riparo dalla tensione. La moltiplicazione delle azioni terroriste, la frantumazione di gruppi [un fenomeno ben noto in Italia] per cercare visibilità e quindi l’individuazione di obiettivi sempre diversi per dare «lustro» alla propria «sigla» e cercare spazio nella galassia parlandosi attraverso i comunicati dei mass media [un fenomeno ben noto in Italia], la stessa cinica efficacia del terrorismo [colpire l’obiettivo più facile e esposto con i minori danni e il maggior risultato - un fenomeno ben noto in Italia] distruggono ogni zona di neutralità: il «né né» è un’opzione che si può praticare nelle regole della democrazia liberale, ma è priva di senso nei luoghi del fondamentalismo terrorista e della guerra dispiegata.
E allora, il ritiro delle proprie truppe dall’Iraq mette al riparo la nazione che la pratica dal fondamentalismo terrorista? E’ questa la vera domanda.
E’ vero, l’Italia è stata trascinata in guerra in maniera cialtrona, forse il governo era abbacinato da tecnologie e manifestazioni di potenza e faceva conto che sarebbe durata poco. Non c’è stato dibattito sufficiente in Parlamento e nel paese - anzi, la decisione è stata presa contro l’opinione del paese. Quindi, le truppe vanno ritirate. Ma forse non basta: forse diventa necessario ritirare ogni presenza, quella umanitaria, quella dell’informazione, quella dell’economia: giornalisti, volontari, infermieri, imprenditori, contractors, ciascuno abbia passaporto italiano deve lasciare l’Iraq. Dimenticare l’Iraq, appunto. Qualche giornalista potrà stare a rotazione all’Hotel Palestine finché è protetto ancora o dove gli americani e gli inglesi suggeriscono si possa rimanere, facendo dei servizi con i «pastoni» della Cnn o della Bbc. Una volta a settimana potrebbe bastare. A dimenticare l’Iraq, appunto. Ne avremo notizia tra gli spaghetti e la frutta, ci commuoveremo o ci indigneremo, senza rovinare la digestione. Punto.
Saremmo al sicuro dal terrorismo? Probabilmente, in tempi brevi sì. Noi non siamo un paese di frontiera della jihad, non siamo Casablanca, Giakarta, Djerba, Bali, Riad, perché dovrebbero mettere una autobomba da noi a piazza san Pietro? Affidiamoci al nostro ministro degli Interni e al lavoro investigativo di polizia: preverranno, vigileranno, perquisiranno, arresteranno: meglio sbagliare in eccesso di zelo [e qualche esempio si è già avuto, a Napoli, a Roma, a Bologna] che per trascuratezza. Andare per il sottile, non è proprio il caso di questi tempi. Ma è sostenibile questo? Non alimenta anche questa opzione paradossalmente una delega assoluta all’esecutivo e all’amministrativo? Non sposta la questione politica della guerra e del fondamentalismo nella dimensione tecnica della «efficienza»? Di quali interventi politici diversi si blatera in Europa che non potessero essere già stati fatti quando andavano fatti?

Non si è fatto quanto andava fatto: durante l’assedio di Falluja e Najaf, l’Europa di Bruxelles è stata zitta: certo, bisognava chiedere rispetto e mostrare uno straccio di progetto agli americani che continuavano a bombardare a tabula rasa. E è dura chiedere rispetto mentre i soldati non tuoi muoiono e fino a quel momento ti sei fatto i cazzi tuoi: ma quello era il momento. Ma pure i movimenti per la pace sono stati zitti. Nello spettro politico tra il consiglio degli Ulema «moderati» e il terrorismo di al Zarkawi ci sarà stato pure un interlocutore da scegliere, promuovere, affiancare, criticare, sostenere. La coraggiosa scelta «sociale dal basso» - una microattività di intervento umanitario - sembra ormai non sufficiente: la guerra asimmetrica non rispetta le tende del soccorso. Per una «soluzione politica» occorre un interlocutore politico, avere il coraggio di scelte, di ascolto, di comprensione, di critica. Non si è fatto. Nel movimento per la pace ha sempre prevalso la dimensione «ideologica» dell’opposizione alla guerra, come il male assoluto riconducendolo alla dimensione «primigenia» del sistema economico, sociale, costituzionale, insomma al capitalismo, all’imperialismo, all’americanismo. L’opposizione al terrorismo fondamentalista è scaturita dall’orrore dei gesti, mai giustificati e giustificabili, ma sempre configurandolo come reattività al male assoluto, al sistema. E al sistema dei sistemi, gli Stati uniti. Nella contingenza del «fare politica», costruire alleanze, isolare, far lievitare una opinione, consentire il consolidarsi di rete sociale, costringere a prese di posizione, la questione della guerra ha prodotto sommovimenti tra i partiti politici oltre che tra le coscienze, ma non altrettanto la questione del terrorismo, che è rimasto in una dimensione «a-politica», come se invece esso stesso non fosse un soggetto politico contro cui combattere e schierarsi, manifestare, produrre alleanze, modificare coscienze. E’ una sciocchezza pensare che agire politicamente contro il terrorismo significa praticare lo stesso terreno del «nemico ideologico», il sistema, i neocons, i governi di destra o quel che l’è. Perché il sistema non ha soluzione politica per il terrorismo, ma solo opzioni militari, e usa politicamente l’opzione militare per un gioco a specchio che sequestra l’opinione pubblica. Sono cose che in Italia conosciamo bene. L’alternativa non può essere tra una considerazione che vede tutti terroristi e un’altra che vede tutta una resistenza al nemico numero uno, gli Usa. Distinguere diventa il criterio d’obbligo. Sulla base di alcuni principi condivisi. Solo dai movimenti e da un’opinione pubblica attiva può venire un percorso politico contro il terrorismo, di fuoriuscita dal terrorismo per la crescita di altri soggetti. Ma ci vuole tempo, ci vorrebbe tempo. Alla guerra asimmetrica ci si oppone con una politica asimmetrica, mobile, dinamica
La situazione forse è ormai insostenibile, corrotta, degradata. In una guerra asimmetrica non hai interlocutore credibile. Con chi tratti? Con chi stipuli una tregua? Un trattato? Puoi solo compiere gesti unilaterali, la cui interpretazione è però sempre affidata alla comprensione altrui. E quanti gesti unilaterali devi compiere per poter andare incontro ai diversi interlocutori? Mettiamo gli Stati uniti: cosa potrebbe fare Kerry? Dire okay, riazzeriamo tutto, default, ricominciamo in un altro modo? Ritirare le truppe? E questo, metterebbe al riparo gli Stati uniti dal fondamentalismo terrorista? Che succederà, faranno le prove, si ritirano 20.000 soldati, e vediamo che accade? E, altrimenti, si rimandano?
E nell’infausta ipotesi di altri quattro anni di governo Bush, noi intanto che facciamo, aspettiamo che prendano bin Laden, il mullah Omar, al Zahawiri, al Zarkawi e via discorrendo? E quando finirà la litania? Quando saremo del tutto sicuri? Ci sfiniremo in altri quattro anni di manifestazioni contro Bush? Magari sta accadendo che proprio nel momento in cui sembra più forte il fondamentalismo terrorista va incontro a una sequenza di frammentazioni che lo indeboliranno. E quanto durerà questo processo? E accade proprio così nella guerra asimmetrica? D’altra parte, pure il Costarica ha deciso di dimenticare l’Iraq. In fondo, noi potremmo anche dimenticare l’America.

Roma, 13 settembre 2004

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