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Abu Khalil, nato ad Al Bassa in Palestina, sul confine libanese, espulso,
laureato in scienze politiche alla prestigiosa Università Americana di
Beirut e oggi a Damasco, alla sede centrale del Fronte Popolare per la
Liberazione della Palestina, braccio destro del fondatore e leader storico
del FPLP, George Habash, lo incontrai durante quella che i media definirono
una guerra civile in Libano tra musulmani e cristiani, o, al meglio, tra
palestinesi con le sinistre libanesi e la destra filoisraeliana della
Falange. Era invece una vera e propria rivoluzione dei diseredati libanesi,
guidati dalle organizzazioni di sinistra palestinesi, contro i clan feudali
che, nel nome delle banche e degli interessi occidentali, spadroneggiavano
in Libano fin dalla fine del dominio coloniale francese. Quarantenne allora,
era uno dei massimi punti di riferimento politici della lotta, fino
all\'eroica resistenza all\'invasione di Sharon nel 1982 che culminò in una
delle tante stragi di cui l\'attuale capo del governo israeliano si è
macchiato, fin dai massacri nei villaggi palestinesi degli anni \'40 e \'50.
Volavano pallottole nel centro di Beirut 24 ore su 24 e noi ci incontrammo,
sotto gli obici, in un albergo semidiroccato a Hamra Street. Era il 1975 e
mi ricordo, grazie ad antichi appunti, che Abu Khalil espresse una
previsione: \"Questa battaglia noi forse la perderemo, ma solo per un
intervento o di Israele, o delle potenze imperialiste che non potranno
permettere a nessun costo che il Libano diventi uno Stato libero e
socialista e comprometta così la loro normalizzazione del Medio Oriente. Ma
quando ci avranno di nuovo disperso per il mondo e liquidato i compagni
libanesi, avranno guadagnato solo un po\' di respiro. Le masse libanesi sono
comunque emerse dal loro sottosviluppo politico, grazie alle avanguardie
palestinesi, e presto o tardi questo paese tornerà a ballare e a esprimere,
in qualche forma, una forza rivoluzionaria. E in Palestina l\'eredità della
lotta verrà immediatamente raccolta dal nostro popolo sotto occupazione\".
USA, Francia e Italia intervennero con le loro truppe, Israele invase il
Libano, i fedajin palestinesi furono cacciati e la \"guerra civile\" si spense
verso la fine degli anni\'80, contemporaneamente allo scoppio della Prima
Intifada nei territori occupati. Gli Hezbollah divennero la forza egemone
dell\'antagonismo sociale e politico in Libano e nel 2000 riuscirono a
infliggere a Israele la prima, grande sconfitta militare: cacciarono gli
occupanti e il loro esercito mercenario dal Libano ed entrarono alla grande
nel parlamento libanese, contribuendo in misura decisiva a un\'inedita unità
nazionale anti-israeliana. Un\'unità che oggi vede Hezbollah e militanti
palestinesi e della sinistra libanese aprire un secondo fronte nel Nord di
Israele, a supporto dell\'Intifada.
Ho rivisto questo, che è uno dei maggiori intellettuali della sinistra
araba, autore di numerosi saggi su lotta di classe e lotta di liberazione
nazionale nel mondo arabo, alla grande manifestazione del Forum Palestina il
25 aprile, quando le parole d\'ordine della Resistenza in Italia, vecchia e
nuova, si sposarono a Roma con la parola d\'ordine \"Intifada fino alla
vittoria\", formulata nel nome di tutti i popoli aggrediti dall\'offensiva
colonialista. Tradussi il suo intervento a conclusione del corteo e mi
rimase incisa la citazione di un proverbio arabo: \"Gli alberi muoiono in
piedi\". Aggiunse Abu Khalil: \"Così è per i palestinesi\".
Poteva sembrare, questa affermazione, una specie di eroico e tragico
epitaffio per l\'Intifada, ma da quanto mi disse poi nell\'intervista, al
termine del suo lungo giro in Italia, organizzato dall\' Assemblea Nazionale
Anticapitalista e da altri gruppi per una prima, doverosa interlocuzione con
la sinistra palestinese, rivela una visione ben diversa.
Due parole sulla storia del FPLP.
Siamo nati agli inizi degli anni\'50, nei campi profughi e in Palestina, come
Movimento Nazionale Arabo. Dopo il 1957, la guerra di Suez, siamo passati da
un\'ideologia nazionalista ed anticolonialista al pensiero marxista-leninista
e ci demmo il nome di Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.
Ritenemmo che la lotta di liberazione nazionale dovesse albergare fin
dall\'inizio una presenza e una prospettiva di classe, capace di mobilitare
le masse essenzialmente povere della Palestina e del mondo arabo e di
bilanciare, pur nell\'unità della lotta contro il sionismo e l\'imperialismo,
l\'egemonia esercitata dalle varie borghesie. Allacciammo rapporti con i
partiti comunisti di tutto il mondo. Rapporti che, purtroppo, oggi sono
stati rescissi unilateralmente da molti partiti di sinistra, specie in
Europa.
Quale è oggi l\'equilibrio di forza all\'interno della società e della
resistenza palestinesi?
Le forze di sinistra nell\'OLP e nella Resistenza, quelle che noi chiamiamo
lo schieramento democratico, comprendono l\'FPLP, il Fronte Democratico e il
Partito Comunista, che oggi si chiama \"Partito del Popolo\", e si affiancano
alla maggioranza rappresentata dalle forze cosiddette nazionaliste, tra le
quali primeggia naturalmente Al Fatah. Poi c\'è un terzo schieramento, quello
islamico, che include Hamas e Jihad. Noi siamo secondi solo a Fatah per
numeri e rilievo politico. La nostra minorità dipende in larga parte da
fattori finanziari. I regimi arabi ci considerano dei \"rossi\", ci temono e
dunque non ci forniscono appoggi. Oggi, comunque, noi ci asteniamo dall\'
impegnarci in lotte interne, anche se abbiamo programmi dettagliati per il
futuro. Oggi il compito principale e mantenere e rafforzare la nostra
resistenza, non è tempo per conflitti ideologici, che peraltro qualche amico
esterno solleva e vorrebbe imporci. Oggi si tratta di sopravvivenza del
popolo e della sua determinazione a lottare. Siamo tutti militanti di
un\'unica organizzazione, l\'OLP.
La situazione nei territori occupati, dopo le devastazioni, gli assassinii,
gli arresti di massa, operati nel corso della criminale invasione
israeliana, è tragica. Quali sono le opzioni rimaste aperte, sul piano
tattico e strategico, a una resistenza così falcidiata?
Si tratta di capire come continuare a resistere, come reagire, come
realizzare quella politica della \"steadfastness\" (fermezza, risolutezza) che
dovrebbe farci superare l\'attuale, gravissima crisi, senza i cedimenti che
alcuni esponenti palestinesi hanno sicuramente già in mente. Primum vivere.
E dobbiamo evitare di fuggire come nel 1948. Oggi siamo 1.200.000
palestinesi dentro Israele, 1.200.000 nella striscia di Gaza, oltre 2
milioni in Cisgiordania, più 4,5 milioni di profughi in vari paesi. Il
problema vero per Israele sono questi dati demografici e quella di Sharon,
tra finte tregue e finte proposte di soluzione, è una strategia per
deportare i palestinesi dalle zone che vuole a annettere. A tal fine non
esiterà, insieme agli USA, a lanciare una nuova devastante guerra in tutta
la regione. Le nostre opzioni sono legate, da un lato, alla crescente
coscienza unitaria dei palestinesi che vivono nei confini d\'Israele e che
già oggi ci sostengono politicamente e materialmente (senza che i media,
neanche quelli di sinistra, ne parlino) e, dall\'altro, alla sempre più
massiccia mobilitazione nei paesi arabi, che sta mettendo in difficoltà vari
regimi. Questi regimi si trovano davanti a un bivio: o prendere la testa
delle masse popolari che chiedono, soprattutto in Egitto e Giordania, una
rottura dei rapporti con Israele, ma anche giustizia sociale e democrazia, o
correre seri pericoli per la loro stabilità. I palestinesi di Israele, in
particolare, nei primi giorni dell\'Intifada offrirono alla lotta ben 13
martiri della repressione israeliana e oggi hanno una linea politica e
sociale di maturità inedita. Non è da molto che rivendicano diritti da
sempre negati e che ovunque marciano sotto le bandiere della Palestina,
disconoscendo la vecchia identità nazionale israeliana e acquisendo quella
propriamente loro. Gli israeliani possono fare quello che vogliono, ma non
possono uccidere quasi 9 milioni di palestinesi che, d\'altronde, hanno
dimostrato da almeno 70 anni che, per quanto perseguitati e sterminati,
riescono sempre a riaccendere focolai di lotta che poi diventano guerre di
liberazione.
Forse adesso, dopo queste terribili mazzate, subiremo una battuta d\'arresto,
forse qualche Quisling tenterà di ingannarci e smorzare la nostra
determinazione, ma quel fuoco sotto la cenere dilaga ormai in tutto il
popolo palestinese e in tutto il mondo arabo. Non sarà possibile spegnerlo.
Anche perché i suoi riflessi si sono estesi oltremare, in Europa, come
dimostrano le vostre mobilitazioni, nel mondo islamico e, addirittura, negli
USA, con 100.000 manifestanti a Washington e 80.000 a San Francisco. Là la
protesta contro la guerra e l\'imperialismo si dovrà estendere dagli
attivisti di sinistra ai 40 milioni di americani che vivono sotto il livello
di povertà. Tieni anche conto dei successi dell\'Intifada. Se oggi si parla
di una conferenza internazionale per affrontare la questione palestinese,
questo è dovuto al fatto che il governo israeliano vi è costretto dalle
tensioni all\'interno di una società insicura e confusa, dalla crisi morale
esplicitata da riservisti e pacifisti, dalla spaventosa crisi economica e
sociale indotta dalle spese di guerra e dallo spostamento dell\'opinione
pubblica internazionale in seguito alla maggiore visibilità dei torti e
delle ragioni imposta dall\'Intifada.
Israele si fa difendere dalla lobby ebraica e da molte comunità in Occidente
con il discorso dell\'antisemitismo e del proprio presunto carattere
democratico, unico, dicono, nella regione. Un discorso dalla natura
chiaramente ricattatoria che, mitragliato a tutto spiano dai grandi media di
regime, ha però intimidito anche settori di sinistra, fino ad accomunare
quello che chiamano \"terrorismo palestinese\" all\'antisemitismo e alle
minacce alla democrazia. Oggi, in molti interventi pubblici, non certo del
Forum Palestina, la cui piattaforma è la stessa definita dalla direzione
palestinese, personaggi della sinistra pongono l\'accento più sulle minacce a
Israele, cui risponderebbero le \"rappresaglie\" di Sharon e Peres, coniugando
le operazioni suicide con un antisemitismo che, come gli attacchi alle Torri
Gemelle, è visto da altri come provocazione. E pour cause.
Già, Israele è definito l\'unico stato democratico della regione. In effetti
si tratta di un paese governato da una giunta militare, non da una
maggioranza politica. I diktat ai media su come devono parlare dell\'Intifada
e del terrorismo israeliano, i comportamenti feroci, barbarici nei confronti
dei civili palestinesi, la violazione di ogni norma del diritto
internazionale, i crimini contro l\'umanità, stanno rivelando a settori
crescenti della popolazione quale sia il vero carattere di questo regime. In
più, hanno fatto un errore fatale: si sono messi nel grembo di quel mostro
famelico che è l\'imperialismo nordamericano, condividendone la crescente
repulsione e condanna da parte dell\'opinione pubblica mondiale. Sono uno
strumento della globalizzazione imperialista che viene combattuta ormai non
solo dagli arabi, ma da grandi pezzi dell\'umanità, dal mondo del lavoro e
dello sfruttamento perfino nei paesi industrializzati. La politica
imperialista di guerra ha portato a grandi impoverimenti, sei milioni di
disoccupati nella già prospera e pacificata Germania, altri milioni di senza
lavoro in un\'Italia dai tratti sempre più fascistizzanti, negli stessi Stati
Uniti l\'assalto alle classi subalterne è selvaggio. L\'imperialismo
aggredisce troppa gente e troppi territori per poter reggere. Si sta
sovraestendendo, come alla fine l\'impero romano, o il potentissimo Terzo
Reich. Avrà contro i popoli che vorrebbe colonizzare e le classi che deve
sfruttare e opprimere sempre più, nell\'illusione di uscire così dal una
stagnazione che sta diventando ovunque crisi epocale.
Oggi i tentacoli dell\'imperialismo sono arrivati fin nel cuore dell\'Asia,
sul fianco occidentale della Cina e su quello meridionale della Federazione
russa, i grandi, temuti, potenziali rivali del futuro, e hanno rimesso sotto
il proprio controllo il Pakistan e l\'India (che ha recentemente espresso il
suo appoggio a Israele). Gli USA devono garantirsi la risorse, soprattutto
energetiche e minerarie, che gli garantiscano il primato politico ed
economico per un completo dominio mondiale entro l\'esaurimento dei
combustibili fossili. Ora hanno un controllo che va dai confini dell\'Asia al
Marocco, senza contare una sempre più turbolenta America Latina. Ma questo
suscita quanto la loro retrograda direzione non sa mai prevedere:
contraddizioni sociali e nazionali tra masse via via più coscienti e
combattive. Ai loro alleati europei e dell\'Estremo Oriente impongono una
scelta: o fare i bravi discepoli, o essere distrutti dai giochi speculativi,
sui prezzi del petrolio, in borsa, coi cambi, se non dalle bombe, come la
Jugoslavia di Milosevic. Ma, anche qui, non mi pare che tutto vada liscio e
le guerre commerciali, ma anche diplomatiche, seppure condotte sott\'acqua,
sono già durissime.
Quanto al cosiddetto \"terrorismo\", termine che ormai dai suicidi viene
esteso ai combattenti palestinesi nei territori occupati, occorre
innanzitutto rimettere la questione nei suoi termini corretti, ricordando
che il popolo palestinese è da decenni sottoposto al terrorismo israeliano,
ai bombardamenti delle nostre città, in Libano come in Palestina,, con
migliaia e migliaia di morti. La violenza israeliana ha creato una
situazione incontrollabile e nella maggioranza dei casi i giovani decidono
da soli di colpire gli israeliani, sacrificandosi. Non è certo per fanatismo
religioso, molti sono laici e giovanissimi, è una sacrificio per la
sopravvivenza della propria comunità. E\' un fenomeno che ci preoccupa molto,
frutto delle sofferenze, della repressione, della mancanza di altri mezzi.
A questo proposito va magari ricordato che il \"terrorismo\" contro i civili è
il carattere fondante di tutte le guerre dal 1940 ad oggi. Nella seconda
guerra mondiale questo terrorismo fece il 45% di vittime civili, in quella
contro il Vietnam il 70%, in quelle contro Iraq e Jugoslavia il 90%. In
quella contro i palestinesi, temo, il 99%. Ma parlami ancora del ruolo
dell\'Europa, sul quale tanto contavate fino a qualche tempo fa.
Noi puntiamo molto sulle contraddizioni interimperialistiche e in
particolare ci attendiamo, dopo Jospin che ci aveva definito \"terroristi\" e
fu cacciato dalla spianata delle moschee, nuove iniziative dalla Francia,
che pare più autonoma di altri paesi europei. L\'Europa ha interessi in forte
contrasto con gli USA, basta vedere la profonda opposizione a una nuova
guerra all\'Iraq. C\'è da augurarsi che i movimenti popolari per la
democrazia, contro l\'imperialismo e per la Palestina, ma anche interessi
economici forti, esercitino pressioni sui governi europei per cambiare una
linea che, per ora, è di puro collateralismo. Per prima cosa è necessario
respingere il falso ricatto sionista dell\'antisemitismo e, anzi,
ritorcerglielo contro.
Potrebbero prendere l\'esempio dal Venezuela di Chavez? Avevi accennato
all\'America Latina....
Due anni fa, Chavez aveva parlato al vertice dei paesi dell\'Opec. Aveva
spiegato come gli USA gli vendessero un barile di Coca Cola per 80 dollari e
prendessero invece il loro petrolio a 5 dollari il barile. E aveva suggerito
di rivedere questo rapporto sbilanciato. Da quel momento gli USA, la sola
superpotenza rimasta in un mondo pur multipolare, chiamarono
Chavez \"terrorista\" e lanciarono il loro golpe contro di lui. E fu una delle
volte in cui fecero un fiasco clamoroso, proprio grazie alle masse popolari
cui Chavez aveva dato una coscienza a un futuro e che aveva saputo
politicizzare.
Torniamo in Palestina. Quale è davvero il progetto di Sharon e della sua
cricca?
Precisiamo intanto che noi, essendo marxisti, non possiamo essere contro gli
ebrei in quanto tali e ci batteremo sempre contro l\'antisemitismo. Il nostro
nemico è il sionismo. Nel 1948 la dottrina sionista, nel suo progetti do
occupazione di tutta la Palestina, determinò la conquista di 20.000 km2
della Palestina storica, ma i sionisti non riuscirono ad occupare gli altri
6000 km2. Rinviarono la cosa a oggi, dopo essersi già assicurato, con
negoziati e colonizzazioni, l\'80% della Cisgiordania e di Gaza. Ora
l\'obiettivo è quello di colmare il vuoto rimasto nel progetto sionista
attraverso il trasferimento di praticamente tutta la popolazione
palestinese. Terrorizzano, uccidono donne e bambini in massa, affamano,
distruggono scuole, ospedali, allo scopo di ottenere abbandono e fuga verso
la Giordania, l\'Egitto, il Libano. Siccome i mezzi d\'informazione di tutto
il mondo sono o controllati, o intimiditi dalle loro lobby, siccome
l\'Associazione Israelo-Americana negli USA condiziona qualsiasi presidente,
governo o parlamento, ecco che il regime israeliano ha buon gioco a rubarci
la nostra storia, a negare la nostra cultura, facendola addirittura propria
cibo, musica, costumi e a raffigurarci come minaccia all\'esistenza di
Israele. Per fortuna qualcosa ha iniziato a sfuggire a questo
condizionamento e la forza della verità si sta facendo valere. Noi e i
nostri amici, le forze progressiste e democratiche nel mondo devono
intensificare lo sforzo per diffondere questa verità
Abu Khalil, a voi occorre la nostra solidarietà, ma a noi occorre la vostra
resistenza, visto che siete una delle principali trincee contro la
devastazione imperialista, insieme a Cuba, al Vietnam, al Venezuela, ai
movimenti anticapitalisti e antimperialisti nel mondo. Insisto su una
domanda già fatta: quale sarà, dopo la recente aggressione israeliana, il
futuro dell\'Intifada?
Quell\'Intifada da cui dipende non poco del futuro della nostra lotta e della
sinistra.
Per noi la tattica deve essere elaborata in termini dialettici. Quando la
prima Intifada aveva alle spalle già 5 anni, nel 1993, alcuni ritennero che
si sarebbe potuta prendere la strada della politica senza lotta e
quell\'Intifada fu dichiarata ufficialmente terminata. Le cose, dopo, non
andarono per il verso giusto e, dopo essersi dovuto far imporre dalla lotta
il riconoscimento di un\'autorità nazionale palestinese, il governo di Barak
la menò per le lunghe con i negoziati di Oslo, Camp David e non so quanti
altri posti, che non prevedevano altro che una nuova colonizzazione. Così si
scatenò l\'Intifada dell\'Indipendenza. Ma non è questo il momento per
polemizzare. Dobbiamo stare uniti in una sola trincea e resistere tutti alla
contraddizione principale: l\'egemonia armata israelo-americana nella
regione. Ora Israele dice di averla fatta finita, o quasi. Può darsi che per
un po\' il popolo palestinese vada in apparente ibernazione, in vista, anche
fra cent\'anni, di una nuova Intifada. Hai visto la differenza tra le due
Intifade. C\'è stata una forte crescita. Ci sarà forse quella che gli arabi
chiamano \"la siesta del combattente\". Ma siamo noi a decidere i tempi della
siesta e delle armi. Siamo parte integrante del mondo arabo, della nazione
araba e, nel programma dell\'FPLP, a noi è assegnato il ruolo
dell\'avanguardia in vista della mobilitazione delle masse arabe, quella
stessa che sconfisse il colonialismo appena trent\'anni fa. Gli israeliani
sanno tutto questo e vorrebbero schiacciarci nel sangue prima che si
risvegli la nazione araba. Hanno una tremenda paura di questo, anche se gli
arabi arrivassero solo sui loro cavalli e cammelli.
E\' dunque una corsa contro il tempo e forse per questo USA e Israele si
stanno preparando a una guerra contro l\'Iraq che risolva una volta per
tutte, in termini militari, la questione palestinese e araba.
Già, ma sbagliano i conti. Non gli sarà mai possibile controllare tutta
l\'area in termini di occupazione militare. Anche il mito dell\'invincibilità
del loro esercito si è dissolto. Basti pensare a come hanno dovuto fuggire
dal Libano per una piccola guerriglia ostinata, o i costi che gli ha
comportato, in termini materiali e politici, l\'Intifada. Cosa potrebbero
fare contro 100 milioni di insorti? Israele ha sempre affrontato le sue
crisi esportandole, con le guerre, all\'esterno. Ma fino a quando potrà
reggere un sistema che si regge su un israeliano su quattro sotto il livello
della povertà? Una situazione provocata da così poco come qualche decina di
migliaia di lanciatori di sassi e pochi fucili contro il quarto esercito del
mondo. Per sconvolgere i coloni armati basta la vista in lontananza di un
bambino palestinese. A noi non hanno sconvolto né i tank, né gli F-15, né
gli Apache. Anche perché noi non abbiamo dove andare, i coloni sì.
Vi fidate della Siria di oggi, di una Siria che molte volte in passato non è
stata al vostro fianco, anzi?
La Siria è l\'unico paese della regione, insieme all\'Iraq che lo dice da
sempre, a dire no ai progetti USA e israeliani. E\' e si sente un paese della
linea del fronte e la sua popolazione è tutta al nostro fianco. In tutti gli
scontri con Israele, dal 1948, la Siria ha dato più martiri alla causa
palestinese di tutti i paesi arabi. E, ti garantisco, militarmente sarebbe
un osso duro. Dall\'inizio hanno sempre rifiutato qualsiasi soluzione che non
comprendesse i territori occupati, e le altre terre tolte agli arabi, in
Libano e sul Golan. Noi abbiamo fiducia e crediamo anche che la posizione
della nuova direzione siriana, il ritorno sulla scena araba dell\'Iraq, dalla
Siria facilitato, possano costringere gli altri governi arabi a rivedere il
loro appoggio agli accordi di Camp David. Pensa che l\'altro giorno il Niger,
povero paese africano, ha tagliato i rapporti diplomatici con Israele,
svergognando alcuni paesi arabi, come Giordania e Egitto. Noi contiamo molto
sull\'Egitto. Quando si sarà liberato dalla strettoia fatale di Camp David e
le sue masse avranno ripreso il diritto a indirizzare la politica nazionale,
cambierà lo scenario. Ci saranno una Siria, con l\'Iraq, al nord, l\'Egitto al
Sud e una Palestina in fiamme. La rinascita degli arabi è una necessità
storica.
Una risposta alla guerra imperialista-sionista dovrebbe essere un fronte di
tutti i popoli, Stati e classi oppressi, visto che questa guerra, a parte la
sua natura orrenda, comporta anche un\' enorme regressione delle condizioni
di vita di crescenti settori di umanità, non credi?
Precisamente. Sta riproponendosi, come nell\'Ottocento, una crescente
disparità di qualità della vita tra le classi e, come negli anni Venti e
successivi, la necessità della lotta antifascista e anticolonialista.
Pensavano che, dopo il crollo dell\'URSS, tutto sarebbe andato molto liscio e
hanno incominciato a distribuire sonori schiaffi economici alle classi
lavoratrici e ai popoli sfruttati. Ora si stanno accorgendo che si
manifestano forti resistenze e contraddizioni e, per tornare al passato
coloniale, tornano anche alla politica della cannoniera e delle stragi. Ma,
che lo vogliano o no, la prossima fase sarà contrassegnata dalla lotta dei
lavoratori e dei popoli, spalla a spalla.
In Europa, anche sotto la pressione della propaganda USA, si tende a credere
che l\'egemonia sulla lotta degli arabi e dei palestinesi appartenga ormai
alle forze islamiche, che qui chiamano \"integraliste\" (quelle che io conosco
in Libano e Palestina certamente lo sono molto meno di tanto integralismo
cristiano o ebraico). E\' vero che le forze laiche sono state messe in
secondo piano?
Inanzittutto bisogna distinguere tra diverse tendenze all\'interno del
movimento islamico, tra le quali prevale una linea per così
dire \"illuminata\". Basti pensare agli Hezbollah libanesi. Il movimento fa i
suoi primi vagiti dopo il 1948 e la sconfitta dei paesi arabi ad opera di
Israele, sostenuto dall\'Occidente cristiano, e fa un balzo avanti in seguito
al sempre più incondizionato appoggio americano a Israele e alla collusione
di regimi arabi, anche laici, che preferiscono dare il petrolio al nemico,
piuttosto che a paesi del Fronte, come la Siria, o l\'Egitto di una volta. E\'
stata una grande frustrazione che a molti ha fatto pensare che solo Dio
avrebbe potuto salvarci. Le sconfitte rafforzano sempre Dio. Però penso di
poterti assicurare che nel lungo termine saranno le forze democratiche,
progressiste, a prevalere, anche nel contesto islamico, grazie alla
maturazione indotta dalla conoscenza e dalla scienza. Già ora si può dire
che gli islamici hanno raggiunto il loro picco e che le forze laiche stanno
recuperando. Del resto, è nella natura delle cose: difficile combinare il
computer con il fondamentalismo. Quello che però conta oggi è l\'unità,
rispetto e collaborazione tra tutti, specie se ci dovessero essere dei
tradimenti.
Mohammed Abu Khalil se ne va verso l\' ultima tappa del suo tour italiano. Ne
ha fatte a decine, di iniziative, anche due, tre al giorno, su e giù per la
Penisola. Vedo i suoi capelli bianchi chinarsi verso decine di teste che,
finito il corteo, lo attendevano e ora gli offrono abbracci, baci, occhi e
sorrisi pieni d\'affetto. Alto e dritto, ha una parola e un grazie per tutti,
lui, la Palestina, cui non dobbiamo cessare di dire grazie noi. Un bambino
che, a otto anni, ha conosciuto lo spavento e lo sradicamento, un ragazzo e
un adolescente che si è sbattuto fra campi profughi e gli studi, venerati e
coltivati da questo popolo come da nessuno, culla del suo futuro, un
combattente di guerre sempre perse, mai abbandonate e perciò
ineluttabilmente destinate alla vittoria, un dirigente politico che,
sessant\'anni più grande, ha tratto dalla sua vicenda, individuale e
collettiva, l\'intelligenza e la passione per insegnare a tutti di non
arrendersi mai. Un albero che morirà in piedi.
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