una inchiesta della vocedellacampania di ottobre 2003
A venticinque anni dalla scomparsa di Papa Luciani un'altra morte improvvisa mette in fibrillazione le alte sfere vaticane. E' quella di Giorgio Rubolino, uomo chiave nelle prime indagini sull'assassinio di Giancarlo Siani. Ma anche il personaggio tirato in ballo davanti alla Commissione Telekom Serbia. Un uomo che sapeva troppo? Cerchiamo di capirlo, partendo da altri misteri vaticani. di Andrea Cinquegrani Vaticano in fibrillazione. Santa Sede sotto i riflettori. Torna alla ribalta la misteriosa - e mai chiarita - morte di papa Luciani dopo appena 33 giorni di pontificato. Ne parla Giovanni Minoli nella nuova serie di Mixer. Riaffiorano dubbi, incongruenze, versioni contrastanti, una verità ufficiale poco, pochissimo credibile. Un'autopsia mai fatta, rapide perizie nel segreto delle stanze vaticane, un cuore normale che improvvisamente cede; l'incredibile storia delle gocce di cardiotonico ingurgitate in eccesso dal papa, l'altra - invece - a base di una digitalina che non lascia traccia. Morto in piedi, oppure a letto? Mentre leggeva sacre scritture o abbozzava il nuovo organigramma dei vertici pontifici? Oppure cominciava a mettere nero su bianco le nuove regole da impartire a uno Ior recalcitrante davanti a ogni ipotesi di trasparenza, col 'nemico' Marcinkus sempre alacremente all'opera? E poi il sogno di una suora, ricordato in uno scritto da monsignor Balthazar: due ombre si introducono furtive nella camera da letto di Luciani e nel suo bicchiere fanno scorrere il liquido di una misteriosa pozione. Dall'Inghilterra, intanto, lo scrittore-giornalista David Yallop - autore per Tullio Pironti di una celebre ricostruzione di quella 'morte' - continua con pervicacia a sostenere la sua tesi: il papa venne 'suicidato'. Così come venne 'suicidato', sotto il ponte dei frati neri lungo il Tamigi a Londra, il patròn del Banco Ambrosiano, Roberto Calvi. L'inchiesta è riaperta, la famiglia dopo tanti anni vuole finalmente giustizia. "Il rituale dell'esecuzione - scrive l'avvocato investigativo californiano Jonathan Levy nel volume Tutto quello che sai è falso edito in Italia da Nuovi Mondi Media - è tipicamente massonico, con delle grosse pietre nelle tasche". E la matrice? Levy punta dritto in una direzione: quella dei poteri forti della Chiesa, rappresentati secondo lui dall'Opus Dei, che - scrive - "ha desiderato ardentemente la Banca Vaticana e i cui quartieri generali si trovano casualmente a Londra". La spiegazione, ricavata dalle conversazioni con un grosso banchiere internazionale, viene così sintetizzata: "Mi spiegò che la banca di Calvi era sull'orlo del collasso a causa della sparizione di centinaia di milioni di dollari passati attraverso i flussi finanziari dello Ior che erano collegati al riciclaggio di danaro della mafia. Preso dalla disperazione Calvi si trasferì a Londra per ottenere un pacchetto finanziario di salvataggio proveniente da un rappresentante anziano dell'Opus Dei". L'operazione però, secondo la ricostruzione di Levy, non andò in porto e il corpo di Calvi fu trovato 'appeso' sotto il ponte dei Blackfriars. L'altra pista porta direttamente alla mafia, che si sarebbe vendicata dell'affronto subito da Calvi, il quale non avrebbe restituito un'ingente somma di danaro da 'ripulire' (utilizzato invece per riossigenere le casse dell'Ambrosiano). Sul fronte dell'esecuzione, comunque, fa ancora capolino la pista di camorra: "nei giorni in cui Roberto Calvi era a Londra - ricordano a Scotland Yard - vennero segnalate diverse presenze interessanti: quella di Flavio Carboni e di alcuni camorristi, fra cui Vincenzo Casillo". Luogotenente di Raffaele Cutolo, soprannominato 'o nirone, in contatto con i servizi deviati e in particolare col faccendiere Francesco Pazienza, Casillo due anni dopo saltò per aria a Roma in un'auto imbottita di tritolo. A fine settembre scorso, poi, due botti. A Londra la polizia decide di riaprire le indagini su quella morte, a Roma l'inchiesta portata avanti dai pm Luca Tescaroli (che ha già indagato sulla strage di Capaci) e Maria Monteleone (casi Mitrokin e "spectre" all'italiana) si arricchisce di una verbalizzazione esplosiva: un pentito di mafia, Vincenzo Calcara, per l'omicidio Calvi tira in ballo Giulio Andreotti, elementi deviati dello Stato e dei Servizi, massoneria e ambienti vaticani. E sotto il Cupolone ci porta anche un'altra esistenza - e un'altra fine - avvolta nel mistero: quella di Giorgio Rubolino, morto in piena calura ferragostana, immediata la diagnosi d'infarto che non perdona, niente autopsia, funerali in pompa magna in Vaticano, poi il silenzio. Fino alla decisione dei magistrati romani, dopo neanche un mese, di vederci più chiaro, chiedendo la riesumazione del cadavere per poter effettuare una normale autopsia. Ma chi era Rubolino? UNA VITA VORTICOSA Il suo nome balza alle cronache nazionali per l'omicidio di Giancarlo Siani, il giornalista ucciso il 23 settembre 1985 (vedi riquadro). Due anni dopo il procuratore generale del tribunale di Napoli, Aldo Vessia, avoca a sé l'inchiesta bollente, fino a quel momento capace solo di racimolare una serie di flop. Vessia vola negli Usa, e interroga Josephine Castelli, un'avvenente bionda al centro di strani giri. Dopo un paio di mesi scattano le manette per il capoclan di Forcella Ciro Giuliano, per un 'gregario', Giuseppe Calcavecchia, e per un insospettabile, il ventiseienne Giorgio Rubolino, intimo di Josephine, una stirpe di magistrati nel pedigree (il padre è stato pretore a Torre Annunziata), già inserito negli ambienti che contano (fra le alte prelature soprattutto) e nella Napoli bene. Per lui inizia il calvario, quattordici mesi nel carcere di Carinola, fino a quando una delle tante toghe che si sono alternate al capezzale di un'inchiesta che non riesce a decifrare colpevoli (esecutori e, soprattutto, mandanti), Guglielmo Palmeri - sorrentino d'origine e in ottimi rapporti con la famiglia Rubolino - lo rimette in libertà (due mesi prima erano stati rilasciati anche Giuliano e Calcavecchia). Cade il teorema Vessia, non regge l'ipotesi di un omicidio eseguito dai Giuliano su ordine dei Gionta di Torre Annunziata. E, soprattutto, sparisce la pista di via Palizzi. La pista che portava alla casa d'appuntamenti, frequentata da giovanissime squillo (tra cui Josephine e la sorella Pandora), e da vip della Napoli che conta: in primis, magistrati e politici. Fra le toghe, spicca il nome di Arcibaldo Miller, per anni pm di punta alla procura di Napoli (sua la maxi istruttoria per il dopo terremoto finita in prescrizione per tutti) e oggi 007 di punta del guardasigilli Castelli. Lo stesso Miller - viene precisato in un documento al vetriolo elaborato dalla camera degli avvocati penali di Napoli nel 1998 - ha subìto un procedimento per "trasferimento d'ufficio" a causa di una serie di fatti, fra cui "l'aver frequentato una casa di appuntamenti gestita da pregiudicati affiliati alla camorra negli anni 1984-1985 in via Palizzi". Lo stesso Miller seguirà il caso Siani: collaborerà proprio con Palmeri per cercare di sbrogliare quel pasticciaccio brutto. Sempre più brutto. E, soprattutto, sempre senza colpevoli. DA ROMA A LONDRA Torniamo a Rubolino. Riacquistata la libertà, non riesce però a ritrovare ancora la serenità. Vessia, infatti, ricorre contro la scarcerazione dei tre. Trascorre un anno e, a dicembre 1989, la Cassazione respinge il ricorso, confermando l'impostazione assolutoria di Palmeri. Il quale, però, non riesce ancora a dare un volto, e tanto meno un nome, ai colpevoli. Né agli esecutori, figurarsi ai mandanti. Ma come era saltato fuori il nome di Rubolino per il caso Siani? Non solo dal filone di via Palazzi, ma anche in seguito alle primissime indagini sulle cooperative di ex detenuti che, proprio a partire dal 1985, a Napoli stavano aggregandosi e iniziando a bussare con forza ai portoni di palazzo San Giacomo. Il Comune - allora retto dal socialista Carlo D'Amato - nell'autunno '85 diede disco verde per l'ingresso fra i ranghi di ben 700 detenuti raggruppati in sei liste ("La carica dei settecento", titolò la Voce in una cover story del dicembre 1985): nei mesi seguenti un putiferio, una fortissima polemica a sinistra, con una Lega delle cooperative alla deriva. "E' in quel contesto che veniva fuori anche il nome di Rubolino - ricordano a palazzo di giustizia - una storia intricata, tra minacce, camorra, affari e promesse. Insomma, una vera giungla". Rubolino, riuscì a cavarsela. "Ma non la smetteva di ficcarsi sempre in storie pericolose, sbagliate, comunque tra soldi, salotti e personaggi poco raccomandabili". Esce con la ossa rotte e il morale a terra, Rubolino, da queste vicende. Si trasferisce a Roma. "Ha cercato di buttarsi tutto alle spalle e ricominciare da capo. Ce l'ha messa tutta. Ha fatto anche un sacco di opere di bene, volontariato, assistenza", racconta un amico. "Non c'è riuscito a rompere col passato - aggiunge un operatore finanziario capitolino - aveva perso il pelo ma non il vizio, continuava a frequentare ambienti dai miliardi facili e spesso inesistenti". Due versioni contrastanti. Un perverso destino, comunque, sembra perseguitarlo. Nel 1999 ri-finisce nelle galere, questa volta londinesi, per una presunta truffa da 100 milioni di sterline ai danni di una vera e propria istituzione britannica, la Cattedrale di San Paolo. Il classico 'pacco' organizzato secondo il miglior copione di Totò formato fontana di Trevi: siamo venuti qui (i Magi sono cinque, due italiani, un finlandese, un canadese e un americano) per donarvi la bellezza di 50 milioni di sterline. Unica piccola, microscopica condizione, quella che voi depositiate per dieci giorni, appena dieci giorni, il doppio, ovvero 100 milioni, su un conto svizzero. Nessuno li toccherà quei soldi, assicurano. La truffa non riesce, i cinque finiscono in gattabuia, lui, Rubolino, viene messo in libertà e prosciolto da ogni accusa. Anche la procura di Napoli, che si era accodata con un suo filone investigativo, lo scagiona. E lui avvia un procedimento per ottenere un indennizzo per quella ingiusta detenzione. "Ne aveva raccolti, comunque, di soldi per le denunce fatte contro alcuni giornalisti che lo avevano accusato per Siani - ricorda un amico - soldi che donò in beneficenza". STANLEY & PROMAN Un anno fa la svolta sembra dietro l'angolo. Decide di cominciare a far sul serio l'avvocato e, quindi, di iscriversi al consiglio dell'ordine di Roma. Raccoglie la documentazione, presenta la domanda, altra delusione: c'è ancora una pendenza con la giustizia, per via di un procedimento non ancora chiuso, millantato credito. "Non è cosa - raccontano ancora nel suo entourage - non è cosa, ha pensato. Ed è ripiombato nei suoi problemi, nella sua tristezza di prima, quando subiva accuse e attacchi". La voglia di business, comunque, non lo abbandona: per lui è una seconda pelle, una droga, non può farne a meno. Ed eccolo entrare nei santuari della finanza, acquisire partecipazioni azionarie, frequentare il mercato ristretto e la City. Un bel giorno, diventa il padrone di una misteriosa sigla, Proman. A quel punto, le voci cominciano a rimbalzare. Perché lui risulta "intestatario fiduciario". Di chi, di cosa? Ma vediamo cosa è Proman. A quanto pare si tratta di una società a responsabilità limitata. Nel suo portafoglio spicca una partecipazione di lusso, il 25 per cento delle azioni Stayer, una grossa sigla nel settore elettrico, avamposti a Ferrara e Rovigo, interessi in mezzo mondo. Un'altra consistente fetta di Stayer - pari al 29 per cento del pacchetto azionario - fa capo a Efi, ovvero European Financial Investments, a sua volta controllata da un'altra sigla, Danter. Efi, dal canto suo, naviga in acque agitate, trovandosi in amministrazione controllata, per i problemi finanziari che stanno passando i fratelli Bergamaschi, suoi soci di riferimento, e un pignoramento azionario effettuato da un creditore, la Euroforex. E' per questo motivo che l'assemblea straordinaria di Stayer convocata lo scorso 27 agosto per deliberare l'aumento di capitale a 10 milioni di euro, è saltata. Ma non solo per questo. Ecco cosa scrive, proprio quel giorno, un dispaccio dell'agenzia Reuter: "Il 26 agosto scorso Stayer ha ricevuto una comunicazione dall'intermediario presso cui sono depositati i titoli che informava del decesso di Rubolino e affermava che i diritti sulla partecipazione spettano ai suoi eredi. Stayer - viene aggiunto nel comunicato - non sa se e come Proman intende resistere contro questa posizione dell'intermediario". Resta il mistero Proman. Nei cervelloni Cerved, collegati con tutte le camere di commercio italiane, non v'è traccia di Proman spa. Né si segnala alcuna Proman nel cui carniere figuri una qualsiasi partecipazione azionaria di Stayer. Un bel rebus. Val la pena, comunque, di scorrere la lista dei soci targati Stayer. A parte due medi azionisti (Gianfranco Fagnani e Roberto Scabbia), fanno capolino quattro sigle. A parte un'italiana (BSPEG SGR spa, una società di gestione del risparmio privato, con 140 mila azioni), le altre tre sono estere. Le quote minori fanno capo a Electra Investiment Trust Plc (26 mila azioni) e a Power Tools International (30 mila azioni). A far la parte del leone c'è Ipef Parters Limited (664 mila azioni), sigla londinese. Osserva un operatore finanziario milanese: "Potrebbe esserci la presenza di Ipef nell'azionariato di Proman. Il mistero comunque è fitto". E resta un mistero, per ora, la destinazione finale delle azioni Proman: rimarranno nelle mani delle due sorelle di Rubolino, o che fine faranno? E cosa c'è dietro il reticolo di sigle, incroci azionari, spesso e volentieri giocati oltremanica? Un gioco forse pericoloso? Il 28 luglio scorso, poi, l'infarto. Una vita stroncata a 42 anni, dopo un'inutile corsa all'Aurelia Hospital, "dove però è giunto privo di vita", commenta in un dettagliato reportage il Mattino. L'autopsia - scrive il solerte cronista, Dario Del Porto - "ha chiarito immediatamente la natura del malore". E a scanso di equivoci aggiunge: "Del caso pertanto non è stata neppure interessata la procura di Roma". E ancora, ad abundantiam: "sulle ultime ore dell'uomo non sembrano esserci misteri. Rubolino è stato colpito da un arresto cardiocircolatorio manifestatosi durante la notte nell'abitazione della capitale dove si era trasferito ormai da anni". Altri commenti nel racconto della cerimonia funebre - che si è svolta nella chiesa di Sant'Anna dei Palafrenieri, l'unica parrocchia dello Stato Vaticano - per la penna di un vaticanista doc, Alceste Santini. "Si può, quindi, dire che Giorgio Rubolino ha avuto il privilegio di avere avuto la celebrazione delle esequie, non solo in una chiesa ambita da molti nei momenti di gioia o di dolore come nel suo caso, ma in un luogo, qual è lo Stato Città del Vaticano, in cui la penitenza si intreccia con il perdono come sofferente superamento dei peccati e degli atti illeciti commessi nella vita". Equilibrismi logici e sintattici a parte, Santini riesce comunque a porsi qualche interrogativo. Per celebrare in Sant'Anna ci vuole la chiave giusta: "occorre una particolare autorizzazione - scrive Santini - ciò rivela che chi ne ha fatto richiesta aveva ed ha entrature nel mondo vaticano. I parenti? Gli amici? Non è dato saperlo". Avvolti nel dubbio amletico, riusciamo però a sapere che fra le personalità presenti alla cerimonia c'erano "i parenti e gli amici di Giorgio, fra cui il senatore a vita Emilio Colombo e altri esponenti della borghesia napoletana". A officiare la messa funebre il cappellano delle guardie svizzere, Alois Jehle. Caso Siani a senso unico Caso Siani. Chiuso per sentenza. La Cassazione ha ormai inchiodato i colpevoli dei clan torresi che - secondo la ricostruzione del pm Armando D'Alterio - decisero ed eseguirono quell'omicidio. Una volta tanto, la parola fine. Tutto chiaro, allora? Molti dubbi restano in piedi. Vediamo quali. Il movente. Debole. Debolissimo. Un articolo scritto mesi prima. "Per punire lo sgarro", hanno spiegato gli inquirenti. "In quell'articolo Siani faceva capire che i Nuvoletta avrebbero tradito i Gionta. Per mettere le cose a posto e recuperare l'onore, la cosa andava lavata col sangue". Credibile? Possibile che una camorra allora più che mai rampante avesse deciso di tirarsi addosso riflettori, inquirenti, forze dell'ordine? Un articolo non (ancora) scritto è molto più pericoloso di uno già scritto. Non ci vuole la maga per intuirlo, solo un minino di fiuto e buon senso. Quello che non sembra aver smarrito Amato Lamberti, presidente della Provincia di Napoli e a quel tempo (siamo nel 1985) responsabile dell'Osservatorio sulla camorra, avamposto, in quegli anni, per scrutare, capire e radiografare i movimenti, le mutazioni e le infiltrazioni della Camorra spa. Lamberti fu l'ultima persona a sentire Giancarlo, avevano appuntamento per la mattina dopo, ma "lontani dal Mattino", come raccomandava Giancarlo. Un appuntamento andato a vuoto, perché la sera prima l'abusivo e ormai prossimo praticante giornalista veniva freddato a bordo della sua Mehari in piazza San Leonardo al Vomero, a un passo da casa. "Non era particolarmente preoccupato - ricorda Lamberti - però doveva dirmi una cosa che gli premeva. Ed era urgente. Stava lavorando ad un'inchiesta per la rivista dell'Osservatorio sugli intrecci politica-affari-camorra nell'area torrese. Uno dei grossi affari, allora, era rappresentato da un'area, il quadrilatero delle carceri. E lui stava mettendo il naso in quei rapporti, sia sui referenti locali, che su quelli più in su, di imprese e camorristi". A corroborare la tesi di Lamberti, un docente universitario, Alfonso Di Maio, padre di uno dei pm più in vista, oggi, alla procura di Salerno. La Voce lo intervistò dieci anni fa. "Avevo incontrato diverse volte Giancarlo in quegli ultimi mesi - affermava Di Maio - stava lavorando, mi raccontava, a una grossa inchiesta sugli appalti nell'area stabiese. In particolare, voleva capire se dietro al paravento di un'impresa ci fosse lo zampino di qualche politico eccellente e operazioni di riciclaggio della camorra". Il nome dell'impresa era Imec (del gruppo Apreda, poi acquirente addirittura della Buontempo Costruzioni Generali), quello del politico Francesco Patriarca, ras gavianeo della zona, ex sottosegretario alla marina mercantile. Di Maio cercò di raccontare quei fatti alla magistratura. Senza riuscirci. "Mi presentai in procura. Parlai col dottor Arcibaldo Miller. Mi disse che ne avrebbe riferito al dottor Guglielmo Palmeri che seguiva di persona l'indagine. Sono andato due volte in procura, dietro appuntamento, ma non sono stato mai ricevuto. Allora non mi fu data la possibilità di verbalizzare quel che sapevo sulle ultime settimane di Siani". Parole dure come pietre. Mentre decine e decine di testi hanno fatto passerella davanti alla mezza dozzina e passa di toghe che si sono alternate al capezzale di un processo quasi impossibile. Del resto, é lo stesso fratello del cronista, Paolo, pediatra, a rivelare qualche ombra nell'inchiesta, un 'buco nero' rimane ancora oggi lì a lasciare spazio ai dubbi. "Giancarlo lascia la redazione di Castellammare - ricorda - va in cronaca di Napoli, scrive sempre meno di Torre ma si interessa sempre più della ricostruzione post terremoto e dei rapporti camorra-appalti. Stava preparando un libro e i materiali, dopo la sua morte, sono spariti". Una ricostruzione che lega perfettamente con quelle di Lamberti e Di Maio. Altri, però, ancora oggi in procura storcono il naso. "C'era un'altra pista, battuta soltanto in fase iniziale. E solo parzialmente. E' la pista di via Palizzi, la casa di appuntamenti, i suoi segreti forse inconfessabili. Tanti anni fa ne parlò esplicitamente Corrado Augias nel suo Telefono GialloS poi il silenzio più totale". Chissà se il regista Marco Risi, arrivato un paio di volte a settembre a Napoli per completare il copione del film su Giancarlo (ispirato in parte a "L'abusivo", il libro di Antonio Franchini, sceneggiatura dell'esperto di misteri Andrea Purgatori, ex Corsera), riuscirà a vedere oltre i muri di gomma che ancora circondano quella tragica morte. "Emerge - dice Risi alla Voce - un delitto tuttora carico di misteri e interrogativi rimasti senza risposta, nonostante i processi e le sentenze. Questa sarà la chiave del mio film su Giancarlo". Guardie e killer Primavera vaticana '98. Tre morti avvolte nel mistero. Sono le nove di sera e una suora - sulla cui identità verrà sempre mantenuto il più stretto riserbo - entra nell'alloggio di servizio del neo comandante delle Guardie Svizzere, Alois Estermann. Davanti ai suoi occhi una scena raccapricciante: tre corpi, in un mare di sangue, massacrati da revolverate. Quello di Estermann, di sua moglie Gladys Meza Romero e del vice caporale Cedric Tornay. Ecco come ricostruisce i primi momenti dopo la scoperta Sandro Provvisionato, scrittore e giornalista, nel suo sito Misteri d'Italia. "Tra i primi ad arrivare sul luogo sono il portavoce del papa, Joaquin Navarro Valls, laico di origine spagnola, membro numerario dell'Opus Dei; monsignor Giovanni Battista Re, sostituto delle segreteria vaticana; e monsignor Pedro Lopez Quintana, assessore per gli Affari generali della Segreteria di Stato vaticana. La scena del delitto non viene sigillata, anzi già alla 21 e 30 sono decine le persone che si aggirano tra i cadaveri. Elementi di prova importanti vengono rimossi o spostati. A differenza di altri episodi avvenuti all'interno del perimetro vaticano, come l'attentato al Papa, nessuna richiesta di collaborazione viene inoltrata alle autorità italiane. Delle indagini si occupa il Corpo di Vigilanza Vaticana. Prima ancora dell'arrivo del magistrato, il Giudice Unico Gianluigi Marrone che arriva sul posto un'ora dopo, mani ignote hanno già provveduto a perquisire non solo l'ufficio, ma anche l'appartamento di Estermann e l'alloggio di Tornay. Quando i corpi verranno rimossi, non sarà adottata alcuna precauzione utile alle indagini. Anche l'autopsia sui tre cadaveri si svolgerà all'interno delle mura vaticane". Detto fatto, non passano nemmeno tre ore - siamo a mezzanotte - e l'infaticabile Navarro Valls può sentenziare: "I dati finora emersi permettono di ipotizzare un raptus di follia del vice-caporale Tornay. E' tutto molto chiaro, non c'è spazio per altre ipotesi". Caso dunque chiuso in 180 minuti, per Valls. Uno 007 perfetto, capace anche di estrarre dal magico cilindro la prova delle prove: una lettera, nientemeno che una lettera d'addio, affidata qualche ora prima (le 19 e 30, precisa Navarro) a un commilitone dal folle vice-caporale con una lacrima e queste parole: "Se mi succede qualcosa, consegnala ai miei genitori". Spiega il portavoce-detective nella rapidissima conferenza stampa, che risolve a tempi di Guinness una matassa altrimenti destinata a intrecciarsi negli anni: la missiva - precisa - è stata consegnata al Giudice Marrone, il quale la darà ai parenti di Tornay in arrivo a Roma. "Spetterà ai familiari del vice caporale - aggiunge Valls - decidere se rendere noto il contenuto della lettera oppure no". Commenta Provvisionato: "Nella fretta l'astuto portavoce della Santa Sede non si rende conto di aver commesso un errore macroscopico. Come si può conciliare un raptus di follia con una lettera scritta almeno un'ora e mezza prima dello stesso raptus? Spesso la fretta è cattiva consiglieraS". Intanto circola già qualche indiscrezione sull'imminente uscita del nuovo libro-choc di Ferdinando Imposimato (autore, con Provvisionato, del volume d'inchiesta sullo scandalo Tav). Al centro, rivelazioni sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, figlia di una guardia vaticana. Che secondo l'ex magistrato, sarebbe ancora viva.
DOPO RUBOLINO - LE OMBRE SULLA COMMISSIONE TRANTINO LA TERRA DEL VITO E' un copione popolato da personaggi campani, quello di Telekom Serbia. Non solo il pool di consulenti del presidente, ma soprattutto le decine di nomi tirati in ballo, quasi tutti al centro di inchieste della procura di Napoli. Ecco, dalla A alla Zeta, i protagonisti di una vicenda tutta da chiarire, compreso mister Centomila Alfredo Vito. Di Andrea Cinquegrani Una storia germogliata e sbocciata tutta all'ombra del Vesuvio? Possibile che protagonisti, interpreti e comprimari del copione di Telekom Serbia siano quasi tutti napoletani o comunque che le loro multiformi acrobazie (finanziarie, societarie, massoniche etc.) si siano intrecciate dalle nostre parti? Del resto la Campania - negli ultimi anni - è stata teatro di misteriose operazioni arcimiliardarie (o presunte tali), fra intrighi internazionali, cupole più o meno nascoste, servizi deviati, spioni, 007, faccendieri, alti prelati, finanzieri, camorristi, piduisti e chi più ne ha più ne metta. "A cominciare dall'operazione Adelphi - commentano in Procura - è stato un susseguirsi di inchieste che spesso si sono allargate a dismisura. Forse troppo". Molte, infatti, sono abortite, finite in flop, passate ad altra procura, stralciate oppure archiviate. Insomma, una bella fauna giudiziaria Sulle tracce degli affari e dei riciclaggi arcimiliardari targati munnezza si era mossa, una decina d'anni fa, Adelphi, che partendo da Napoli, via mediatori politici e brasseur, passava nel casertano, tra i feudi di Sandokan, Cicciotto e' mezzanotte & C., per approdare fino a villa Wanda, nell'aretino, magione di Licio Gelli. Lo stesso Venerabile, anni dopo, è stato convocato dai magistrati di Torre Annunziata Paolo Fortuna e Giancarlo Novelli a proposito di un altro intrigo internazionale, l'inchiesta Cheque to cheque, che si diramava fino nella profonda Russia del dopo Gorbaciov, tra cappucci, grembiulini e traffici d'uranio. Simile il copione, del resto, nella parallela indagine Phoney Money, condotta dal procuratore capo di Aosta Anna Maria Bonaudo: uno dei nomi di quel 'copione', Gianmario Ferramonti, leghista della prima ora, fa capolino in quelle carte e si ritrova, oggi, nei faldoni di Telekom Serbia. E ancora, sempre dalla procura di Torre Annunziata (contrassegnata nel frattempo dal maxi scandalo che ha coinvolto l'ex numero uno Alfredo Ormanni e il capo dei cancellieri, abile costruttore di fascicoli e processi fasulli) è partita un'altra indagine-fiume i cui rivoli si sono diramati per tutta Italia, fin nel Trentino: al centro, questa volta, traffici di potentissime armi nucleari, uranio, perfine truppe mercenarie con il coinvolgimento di ambasciatori, industriali, finanzieri; rimbalza anche il nome di Giulio Andreotti (ora tornato prepotentemente alla ribalta con le nuove rivelazioni sul caso Calvi e, prima ancora, con la ormai storica condanna a metà: mafioso fino all'80, poi fiero oppositore delle cosche), immortalato in una foto diplomatica con l'ambasciatore-intrallazzatore. Fino alla spy story che ha catalizzato l'interesse dei media per una decina di giorni a metà 2001: la Spectre di casa nostra, quella sorta di intelligence parallela messa su da faccendieri, ex colonnelli, camorristi & fauna varia per creare dossier falsi a carico di questo o quel nemico di turno. In un vorticare di storie, riciclaggi & miliardi che portano fino alla tigre serba Arkan, ai traffici internazionali di prodotti farmaceutici e anabolizzanti, a commerci di droghe e sigarette lungo l'asse Montenegro-Italia. Per aver divulgato alcuni particolari inediti di quell'inchiesta - peraltro non coperti da alcun segreto istruttorio - la redazione della Voce venne perquisita alle 6 di mattina da uomini dei servizi, che sequestrarono anche tutto il materiale rinvenuto (per 40 giorni), più memorie di computer, floppy disk etc. Anche quell'inchiesta, però, si è persa fra le solite nebbie. Ma passiamo in rapida carrellata, nome per nome, protagonisti & interpreti del copione di Telekom Serbia, sui quali la Voce ha indagato e scritto più volte nell'ultimo decennio.
BOBBIO Luigi - Tra i fedelissimi di Agostino Cordova ai tempi del lavoro come pm a Napoli, prima dello sbarco a palazzo Madama tra le fila di An. Per anni ha fatto parte del pool antidroga in compagnia di Paola Ambrosio (anche lei per un paio d'anni 'prestata' alla politica, forzitaliota, presidente del consiglio regionale sotto la giunta Rastrelli). Fiero oppositore dello sciopero in magistratura, è per la figura della giudice-macchina, mero esecutore di leggi: insomma, la toga-computer. Come senatore, fa parte della commissione su Telekom Serbia. BOCCHINO Italo - Per un anno circa commissario di An a Napoli, rampante fra i duri del partito di Fini. Al timone editoriale del quotidiano di destra il Roma - l'ex foglio laurino - supportato dall'afragolese Antonio Pezzella, pezzo grosso nei business targati Poste Italiane. E' genero di Eugenio Buontempo, il costruttore-faccendiere della sinistra ferroviaria (per anni compagno di Paola Ambrosio), socio d'affari di Francesco Pacini Battaglia, protagonista della Tangentopoli partenopea con la chicca della flotta Lauro acquistata per un pugno di soldi. Il nome di Bocchino fa capolino fra le carte della maxi inchiesta su Alta Velocità & dintorni portata avanti dalla procura di Roma e che già vide, a maggio '99, finire in galera - o ai domiciliari - parecchi uomini di An (Antonio Rastrelli, Marcello Taglialatela, Domenico Zuccarone). Fra i soci dell'editrice del Roma figura anche la moglie di Massimo Buonanno, al timone con Agostino Di Falco (anche lui in galera per l'inchiesta romana sulla Tav) dell'Icla, l'acchiappatutto del dopo terremoto cara a Paolo Cirino Pomicino e a Vincenzo Maria Greco. Fa parte della commissione Telekom Serbia. D'ANDRIA Renato - I magistrati napoletani e romani (l'inchiesta sulla Spectre è passata da una procura all'altra) lo accusano di essere il co-regista (insieme a ------) della creazione di un'intelligence parallela, finalizzata all'attività di dossieraggio. Il suo nome rimbalza sulle cronache locali e nazionali per un ventennio. Rampante imprenditore a inizio anni ottanta, presidente della Confapi Campania, investe a 360 gradi: dall'editoria (rileva da Leonardo Di Donna, un tempo dominus craxiano all'Eni, il quotidiano il Globo; poi, sempre dal garofano, il Giornale di Napoli), alle acque minerali (acquista l'Appia), alle lane (Borgosesia), alle finanziarie (la Tecfinance diventa il suo scrigno). Poi, la buccia di banana sarda, un fallimento (quello del gruppo alimentare Casar, vedi riquadro) che lo porta agli arresti. Controlla l'emittente campana Canale 10. Suo avvocato di fiducia, fino al 2000, Carlo Taormina. DEIANA Pio Maria - Ha fatto affari con lo smaltimento dei rifiuti tossici, lavorando in subappalto anche per il parastato (gruppo Ansaldo in particolare). Ex socio di Antonio Volpe (vedi) nella Janua Dei (oggi la sigla è controllata da Pio Maria e dal figlio Roberto, mentre con la moglie Francesca Genise è in sella alla Società Progetto Cina, sempre dedita alle problematiche 'ambientali'), ha intessuto rapporti anche con Francesco Pazienza (vedi), che poi lo scarica. Ed é lo stesso faccendiere a 'costruire' la storia dei rapporti fra Prodi e Deiana, proprio per una affare in Cina. DINACCI Filippo - Fa parte del pool di avvocati del premier Berlusconi. Una carriera folgorante, la sua. Una dozzina d'anni fa era un avvocaticchio senza né arte né parte in quel di Santa Maria Capua Vetere, dove per sbarcare il lunario patrocinava cause perse: come una a suo stesso favore, per un cacciavite volato da un balcone sul tetto della sua Opel, graffiandola. Prende carta, bolli & penna, Dinacci junior, e cita in giudizio presso il tribunale civile di Napoli il lanciatore: vuole due milioni di vecchie lire, l'assicurazione della controparte offre solo 450mila lireS Come sarà poi andata a finire? Male, sicuramente male, qualche anno dopo la sua corsa verso il Parlamento, sotto le insegne dc, gavianeo doc. Nel '94 si presenta per la destra. Suo padre, Ugo, è salito alla ribalta delle cronache, nel '96, come capo degli ispettori ministeriali al tempo di Alfredo Biondi ministro di grazia e giustizia (nella formazione odierna milita oggi Arcibaldo Miller, ex pm a Napoli e poi a Santa Maria Capua Vetere). Un ispettore un po' troppo zelante, Dinacci senior, tanto da essere messo sotto inchiesta dai magistrati bresciani con l'accusa di aver esercitato pressioni su Antonio Di Pietro, a tal punto da costringerlo ad abbandonare la toga. Il successivo guardasigilli, Vincenzo Caianiello, lo rimosse dal suo incarico di capo degli 007 di via Arenula (rinnovando il team al completo). Da quelle accuse uscì scagionato; ma dei reali motivi che condussero Di Pietro a lasciare la magistratura non è mai stato accertato nulla. Un altro dei misteri italiciS LONGO Guido - Ex capo centro della Direzione investigativa antimafia a Napoli. In passato, ha condotto indagini su Antonio Volpe (vedi) ed ha lavorato su parecchi casi per conto della procura di Napoli: in particolare, le inchieste sugli affari della massoneria deviata (Spinello & C., vedi), e sulla Spectre partenopea (------ & C., vedi). Oggi si rimbocca le maniche per il ministero degli Interni e svolge un'azione di coordinamento tra il Dipartimento di pubblica sicurezza che fa capo al Viminale e la stessa commissione parlamentare che indaga sull'affare Telekom Serbia. MARINI Igor - Il numero uno, il superpentito, la gola profonda della commissione Trantino. Fresco di nozze, un anno fa, con una misteriosa donna napoletana. La felice sposa viene ritratta, come nei migliori copioni stile Dinasty, svolazzante in piazza del Plebiscito, sullo sfondo la basilica di San Paolo. Sono lontani i giorni - pure da poco trascorsi - del facchinaggio al mercato ortofrutticolo di Brescia. PASCUCCI Vittore - Avvocato, brasseur d'affari, originario di San Bartolomeo in Galdo, terzo contribuente a Roma nell'85, Pascucci fa capolino in un'infinità di operazioni finanziarie, a livello nazionale e internazionale: sempre in compagnia di personaggi poco raccomandabili. Sulla stampa economica, il suo nome compare per la prima volta, a inizio anni novanta, a proposito di un misterioso istituto di credito estero, Eurotrust Bank, con sede ad Anguilla, nelle Antille olandesi. Suo socio era l'ex playboy romano Pierluigi Torri, titolare del celebre Number One, arrestato nel 1977 a Londra per una storia di droga, fuggito dalle galere britanniche, tornato in Italia e uscito indenne dai vari iter giudiziari. Una "instant bank", Eurotrust - secondo la colorita descrizione degli analisti finanziari - capace di compiere le più incredibili operazioni di lavaggio di danaro, titoli, azioni e quant'altro in un battibaleno: per la serie, dal riciclatore al consumatore (evidentemente gabbato). Il pallino di Pascucci, però, sono le assicurazioni: il suo gioiello è Pan.Ass., che proprio sulla piazza napoletana fa la sua fortuna a metà anni ottanta. Un portafoglio - ricordano ancora oggi i broker partenopei - pieno di patate bollenti e di affari poco chiari. La compagnia viene commissariata, il Tar del Lazio, però, gli dà ragione. La compagnia, comunque, passa sotto il controllo di MultiAss, collegata alla finanziaria di salvataggio Sofigea. Risalgono a quegli anni i rapporti d'affari con Paolo Viscione, altro acrobata nel campo delle polizze, allora a sua volta in ottimi rapporti col re delle assicurazioni a go go, Ninì Grappone, anni più tardi - invece - vicino al gruppo Themis dell'avvocato Lucio Varriale. Nel pedigree di amicizie, comunque, spiccano nomi di ben altro rango. Come Pasquale Galasso, il boss di Poggiomarino, e il suo riciclatore doc Giuseppe Cillari, protagonista della scalata al famoso Kursaal di Montecatini. E poi, Giuseppe Jaquinta, l'ennesimo avvocato-faccendiere, lo "sceicco di Baronissi", fermato dieci anni fa a Chiasso con la 'valigia del tesoro': miliardi in titoli falsi, danari da riciclare, progetti per faraonici progetti in Medio Oriente e chi più ne ha più ne metta. Jacquinta, a sua volta, era legato a doppio filo con Marco Cordasco, altro riciclatore in guanti bianchi del clan Galasso, inizi di carriera alla Imec di Torre Annunziata del gruppo Apreda. PAZIENZA Francesco - Un nome, una storia. Sinonimo di servi deviati, P2, spioni e depistatori; di riciclaggi & affari. Di sangue e misteri eccellenti, da Sindona a Calvi. Uno dei suoi capolavori per i Servizi è la gestione del rapimento Cirillo, dove riesce ad ottenere la legittimazione per la Camorra spa, allora rappresentata dalla Nco di Cutolo ma già pronta a cambiare pelle nella Nuova Famiglia imprenditrice. E' il 'regista' occulto dell'affare-prefabbricati nell'Irpinia nel dopo terremoto. Nella trattativa per la liberazione di Cirillo, ad esempio, Pazienza individuò nel costruttore irpino Sergio Marinelli il terminale per una sfilza di subappalti. "Quando venne sequestrato Cirillo - dichiarò agli inquirenti il 'pentito' Giovanni Auriemma - i servizi segreti sembrarono impazzire, poi Pazienza e i suoi uomini ci contattarono a più riprese. Volevano che ci adoperassimo per la sua liberazione. Ci proposero, oltre a una somma del riscatto, favori processuali e la strada spianata per gli appalti della ricostruzione". In più, Pazienza promise ai capi della Nco - la trattativa fu con Vincenzo Casillo, 'o nirone - il 5 per cento sull'importo dei lavori che le aziende del Nord avrebbero ricevuto per il post terremoto. "Lui ci fece i nomi di grosse ditte che ci avrebbero garantito i subappalti - verbalizzò ancora Auriemma - noi gli demmo i nominativi di alcune società di nostra fiducia. Venivamo informati in anticipo degli stanziamenti per i più importanti appalti della regione. Il ricavato degli affari doveva poi essere diviso tra noi della camorra e l'ala dei servizi legata a Pazienza". Fra i grandi 'amici' di Pazienza il superlatitante della Nco il cui destino è ancora avvolto nel più fitto dei misteri, Pasquale Scotti. "Lui e gli altri capi della Nco - erano le parole di Auriemma - s'incontravano con Pazienza in continuazione a Roma, ma anche a Napoli, Avellino, Acerra. Una volta andarono insieme sullo yacht con Alvaro Giardili, il socio di Pazienza, e alcune bellissime ragazze. E quella volta Scotti mi disse che il generale Santovito cominciava a dare fastidio". E Santovito, dopo qualche mese, passò a miglior vita. PINTUS Curio - Finanziere d'assalto di origine sarda. Per la prima volta il suo nome compare tra i fascicoli di un'inchiesta aperta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Firenze a fine anni novanta. Un maxi giro di titoli e danaro - per una valore stimato in circa 1200 miliardi di vecchie lire, secondo alcuni invece solo virtuale - transitati per istituti e sportelli bancari di mezza Europa, soprattutto tramite libretti al portatore (fu la stessa tecnica, per fare un solo esempio, utilizzata dal commercialista faccendiere Vincenzo Pinzarrone per dare la scalata al Napoli Calcio nel '97). Uno dei transiti più frequentati delle acrobatiche operazioni architettate da Pintus e C. (tra cui svariati campani, come Giuseppe Di Cristofaro, Ernesto Ludando, Martino Passananti e Carmelo Russo) è proprio una piccola banca salernitana, la Cassa di Serre, a quel tempo diretta da Passananti. Nei vorticosi giri - descriveva la Voce nel giugno 1999 - si cimentano parecchi partners, "mafia russa e siciliana, Cia, servizi segreti, massoneria, uomini del Vaticano, faccendieri che lungo l'asse La Spezia-San Marino-Napoli-Salerno fino agli Usa falsificano, importano, esportano capitali, libretti di deposito, valuta interna ed estera. La stessa gang - veniva precisato - che ha cercato di dare la scalata alla Banca di Sarajevo". Titolare di Soliman Finance, un vero e proprio forziere di partecipazioni societarie, Pintus fa poi capolino nel Gruppo Zeta, capace di spaziare fra Italia, Olanda, Germania e Centroamerica, impegnato soprattutto nell'import-export di prodotti tessili. Proprietaria di Zeta è un'altra misteriosa sigla, Sidema, che fa capo a Donatella Zingone, consorte dell'ex ministro degli Esteri Lamberto Dini, e ad uno spezzino, Oreste Lauretti, socio d'affari di Pintus (il quale, a sua volta, ha tentato addirittura la scalata alla Roma calcio in compagnia dell'ex leone ruggente da Perugia Giancarlo Parretti, sfortunato acquirente del colosso Metro Goldwin Mayer). Altri giri, altri affari. Eccoci a Città di Castello, dove Pintus & C., a bordo di Soliman, sbarcano per comprare tutto: dal complesso settecentesco della Montesca, alle squadre di calcio e pallavolo. Per approdare in Calabria e al feeling col capo della 'ndrangheta di Africo Leo Talia, una poltrona nella commissione di Cosa nostra: un affiatato tandem per riciclare a tutto spiano in Italia e all'estero, meta prediletta l'Argentina. ROBELO Alvaro - Ex ambasciatore del Nicaragua in Vaticano. Nel suo paese si candida addirittura per le presidenziali, senza successo, con la liste "Arriba Nicaragua" (Forza Nicaragua). Massone, il suo nome compare - storpiato in Ropledo - fra i velenosi dossier della commissione Trantino. Un nome che aveva fanno capolino anche nell'inchiesta Phoney Money, in combutta con il brasseur leghista Ferramonti. RUBOLINO Giorgio - Il suo nome rimbalza nei dossier nella commissione Telekom Serbia. E' uno dei vari nomi che Trantino sottopone al vaglio dell'avvocato d'affari romano Fabrizio Paoletti, con la domandina di rito: "Conosceva tizio?". Chi ha suggerito il suo nome? E' uno degli interrogativi più inquietanti (vedi l'inchiesta di apertura della Voce). ------- - Ex colonnello dei carabinieri (come il fratello ------, che aveva per obiettivo una poltrona ai vertici alla Dia di Napoli), accusato, nell'inchiesta sulla Spectre partenopea, di essere molto abile nel tirar fuori dal suo cilindro dossier fasulli a carico di 'nemici' dei suoi committenti, fra cui Renato D'Andria (vedi). Un uomo, -----, dal "micidiale grado di attività criminale", viene descritto dai pm. Nel suo pedigree, comunque, figurano svariati capi d'imputazione: dal concorso nel reato di 416 bis finalizzato al contrabbando; al traffico di valori per un'ottantina di miliardi; fino alla bancarotta fraudolenta e al falso in bilancio. Come contorno, truffe alle assicurazioni, all'amministrazione militare, all'Aima; e ancora, carte d'identità false, traffici di sostanze anabolizzanti. Per finire con la chicca: l'aver agevolato il clan Alfieri attraverso "illecite rivelazioni sulle verbalizzazioni dei pentiti". Fra i suoi amici del cuore, Melchiorre Romano, quarantacinquenne originario di Torre Annunziata e trapiantato in via Capo Le Case, nel cuore della Roma bene, a un passo da piazza di Spagna: secondo gli inquirenti, Romano rappresenta il trait d'union con le cosce del Montenegro, e in particolare con la gang della tigre Arkan. Non è finita: perché l'ex colonnello ----- ha frequentato anche ambienti ministeriali eccellenti, in particolare quelli del Tesoro: qui, infatti, faceva frequenti visite all'eminenza grigia di quel dicastero, Vincenzo Chianese, napoletano, presidente del collegio sindacale della TAV spa fino al suo arresto, avvenuto nel 1999, per ordine della procura di Roma che indaga sul maxi business dell'Alta velocità e di altri mega appalti arcimiliardari. SPINELLO Nicola - Figlio di Salvatore (vedi). E' coinvolto nella stessa inchiesta su affari, mafia & massoneria. SPINELLO Salvatore - Siciliano d'origine, napoletano d'adozione. Uno che di mafie & massonerie se ne intende, Spinello, indagato dalla procura di Napoli (il fascicolo è stato trasmesso anche al pm capitolino Luca Tescaroli) per una serie di inquietanti episodi: a curare quell'inchiesta, i pm napoletani Antonio D'Amato (oggi fra i consulenti togati del presidente della commissione Telekom Serbia Trantino) e Arcibaldo Miller, nel pool degli ispettori ministeriali nominati dal guardasigilli Castelli. Agli atti, numerose conversazioni fra Spinello e Angelo Siino, il 'ministro dei lavori pubblici' di Totò Riina. Parlano un po' di tutto, i due. Di salotti romani, di incontri ministeriali, di uomini in grembiulino e cappuccio. Perfino di Giovanni Falcone, e dei suoi incarichi prima di essere ucciso. Ma soprattutto, i due, parlano di affari. Nei paesi d'oltrecortina (soprattutto traffici di uranio coi paesi dell'est) e anche a casa nostra; e uno dei temi preferiti è la Tav, l'Alta velocità, alla quale sono interessate parecchie imprese 'amiche' (di cui si fanno anche i nomi). Saranno quelle contenute nell'informativa elaborata dai Ros a fine 1990 e finita sul tavolo di Falcone qualche mese prima saltare in aria a Capaci con moglie e scorta? Uno che sembra conoscere a memoria segreti & intrighi dei palazzi, le vie d'accesso agli appalti miliardari, i giusti mediatori e gli apripista ad hoc. Un nome fino a quel momento - siamo a inizio 2000 - in pratica sconosciuto, piomba fra le cronache giudiziarie. Per poi tornare subito nell'ombra. Ora, rieccolo con l'affare Telekom. Ma che fine avrà mai fatto quell'inchiesta massonica? Un'altra sparizione annunciata nei porti delle nebbie? TAORMINA Carlo - Il burattinaio? L'amico del burattinaio? O che? Lui - alla Rivaldo - proclama le dimissioni dal parlamento. Per fare mezza marcia indietro il giorno dopo. E' il legale di Giovanni Fimiani (vedi riquadro) e di Anna Maria Franzoni, la mamma di Cogne. Il delitto senza colpevole, senza motivo, senza pietà. Senza soluzione. Un tunnel senza fine. Poche certezze. Una su tutte. La famiglia Franzoni dopo alcuni mesi, improvvisamente, senza un plausibile motivo, cambia di 180 gradi strategia difensiva. E, soprattutto, il difensore. Si passa da un cattedratico doc, un principe del foro come Federico Grosso, padre di codici e pandette, alla sua perfetta antitesi: la toga d'assalto, senza peli sullo stomaco, Carlo Taormina. Dal bianco al nero. Un passo indietro. I Franzoni vengono da Bologna, lì hanno trascorso molti anni della loro vita; lei, Annamaria, è cugina della moglie di Romano Prodi, anche lei una Franzoni. E sarebbe arrivato proprio dalla famiglia Prodi, all'inizio, il suggerimento di Grosso come il nome giusto da giocare per una battaglia legale di tale difficoltà: un calibro del genere, ormai poco avvezzo alle aule, che scende in campo, come nella tradizione dei maestri del thriller made in Usa. E lui, il professore, si rimbocca le maniche. Poi, un bel giorno, il cambio di rotta. Perché? Il 'burattinaio' del caso Telekom-Serbia, Taormina, grande accusatore di Prodi & C., sostituisce Grosso, consigliato da Prodi ai suoi parenti (per via di moglie) felsinei. Cosa c'è dietro? Quale copione? VITO Alfredo - "Giuro che non farò mai più politica". Così il supercattolico mister Centomila (tante e anche più erano le preferenze che cumulava regolarmente a ogni tornata elettorale) promise solennemente davanti ai giudici all'udienza di un processo per tangentopoli. Dalla quale è uscito praticamente immacolato, restituendo cinque miliardi del maltolto. Il titolare della prima immobiliare napoletana, Alfredo Romeo, lo definì "una cavalletta", per le continue richieste di danaro. Era in procinto, nel 1992, di comprare un maxi attico da 5 miliardi (guarda caso la stessa cifra poi restituita): versò una caparra da 200 milioni (assegno tratto dal suo conto corrente alla Banca della Provincia di Napoli), poi persa perché - dopo un articolo della Voce che forniva 'in tempo reale' alcuni dettagli della trattativa - preferì mandare a monte l'operazione. Sulla vicenda la procura di Napoli aprì un fascicolo: a condurre l'inchiesta il pm Alfredo Sbrizzi, oggi fra i magistrati-consulenti della commissione, di cui - in veste di deputato - fa parte lo stesso Vito. Uno dei 'misteri' più grossi concerne gli incontri fra Vito e Volpe (vedi), e anche il periodo del primo incontro. "Si conoscono da una decina d'anni - ricordano alcuni vecchi dc - quando Volpe stava con Vairo". Lui, Vito, smentisce, e parla di un solo incontro con Volpe. Quello di luglio. Non dello stesso avviso, però, le Fiamme gialle, che un mese più tardi, a settembre, scoprono Vito e Volpe a scambiarsi documenti in piazza San Silvestro. Quante bugie, mister CentomilaS VOLPE Antonio - Una delle gole profonde della commissione Trantino. Bazzica ambienti neofascisti, piduisti, comunque di affaristi. Esattamente dieci anni fa è uno stretto collaboratore del dc casertano Gaetano Vairo, a quel tempo presidente della giunta per le autorizzazioni a procedere: lui, Volpe, coordina il gruppo che si occupa della 'sicurezza' di Vairo. Tra gli amici 'neri', Marco Affatigato, Loris Facchinetti (col quale dà vita al gruppo White Helmets Europe), Stefano Delle Chiaie. Intreccia rapporti e affari con Francesco Pazienza: è un'indagine della procura capitolina di fine anni ottanta a sottolineare le connection fra i due. Così lo dipinge il socio Pazienza: "Napoletano, in odore di camorra, truffatore, pluriarrestato". Frequenta gli ambienti vaticani, Volpe. E' in contatto con le alte gerarchie dei gesuiti; ha accesso nelle ovattate stanze dello Ior: ed è scritto su carta intestata della cassaforte vaticana l'ormai famoso 'prospetto finanziario' con le tangenti Telekom per i versamenti su conti sanmarinesi: il prospetto - in suo possesso - viene poi ritrovato nello studio di Fabrizio Paoletti. Infine, le frequentazioni di palazzo San Macuto; gli incontri con Alfredo Vito (vedi). Volpe - ciliegina sulla torta - è uno dei protagonisti assoluti dell'inchiesta sulla massoneria deviata (vedi alla voce Spinello), condotta dal pm della procura di Napoli Antonio D'Amato (insieme ad Arcibaldo Miller), oggi componente del pool di Trantino. Poteva non conoscere, D'Amato, lo 'spessore' di Volpe?
D'Andria e il Gran Maestro Il mio nemico numero uno? La massoneria. Che continua a perseguitarmi". Non usa mezzi termini il finanziere Renato D'Andria all'indomani dei dossier di Repubblica sull'affare Telekom Serbia che riportano alla ribalta il suo nome. Ma perché i confratelli incappucciati dovrebbero avercela proprio con lei? La guerra è cominciata nell'82, quando rilevai la Casar, impresa controllata da una finanziaria pubblica sarda. Gli accordi sottoscritti con i responsabili della Regione Sardegna erano che avrei ripianato i 7 miliardi di debiti dell'azienda, ma scoprimmo che in realtà quel passivo ammontava a 30 miliardi. Col penalista Luigi Concas presentai una denuncia alla Procura della Repubblica di Cagliari. Misi sotto accusa il gruppo dirigente regionale. Compreso l'allora capogruppo repubblicano, il Gran Maestro Armando Corona. E me la fecero pagare. La Casar fu in seguito affidata ad un gruppo di coop locali, che dal 1983 ad oggi hanno perso oltre 80 miliardi di lire, documentati nero su bianco. E secondo lei anche oggi c'è una "mano massonica" dietro i personaggi che la tirano in ballo per Telekom Serbia? E' un'ipotesi possibile. Ma non l'unica. Per esempio? Premesso che a quelle vicende sono completamente estraneo, non conosco nessuno di quei personaggi, tranne Deiana, col quale ebbi molti anni fa un fugace rapporto di lavoro con una azienda orbitante allora nel mio gruppo, la De Bartolomeis. Deiana ci commissionò un grosso lavoro per impianti di depurazione in Cina. Poi non se ne fece niente, perché non poteva pagare. E Longo, la persona che avrebbe fatto il suo nome alla Commissione Trantino? Non l'ho mai conosciuto. So che si era occupato di me per la vicenda della presunta spy story. A che punto è quell'inchiesta? Finora non ho avuto alcun rinvio giudizio. I magistrati romani Monteleone e Piro lo avevano chiesto, ma siamo ancora davanti al gup.
E Taormina, che fu a lungo il suo avvocato? Lui, almeno, lo conosce bene. Certo. Dovette lasciare la mia difesa proprio in occasione della cosiddetta spy story, perché nel frattempo era diventato deputato. So comunque che non è stato lui a fare il mio nome. A parte la pista massoneria, che spiegazione si è dato? Se davvero fosse stata una trama preparata a tavolino, cosa c'entra Renato D'Andria? Se questa fosse la ricostruzione, certi nomi buttati sul tavolo e tratti da inchieste diverse, senza connessione fra loro, darebbero l'idea di un depistaggio, di un fumo creato appositamente. E il presidente Trantino? Fino a che punto, secondo lei, poteva esserne consapevole? Credo che Trantino ne sia assolutamente estraneo. Ma il mio dubbio è soprattutto un altro. Quale? I motivi dell'attacco personale che mi ha sferrato Repubblica. Hanno dato per scontati alcuni elementi di un'inchiesta giudiziaria (quella romana condotta da Monteleone e Piro, ndr) che é tuttora nella fase delle indagini. Per questo ho già dato mandato ai miei legali di citarli in giudizio.
Re di dossier e pommarole Lui, un piccolo industriale di pommarole dell'agro nocerino sarnese, era in prima fila per comprare la Sme, il colosso alimentare del gruppo Iri. Suoi concorrenti, calibri come Barilla e Buitoni, Berlusconi e De Benedetti. Si è sentito grosso (quintale abbondante a parte di peso forma), grande come loro, Giovanni Fimiani da Cava dei Tirreni. E lui, il self made man - come pompava il Mattino - era lì, solo con la forza delle sue braccia e del suo sudore, Davide contro i Golia del mercato. Lui, però, sa offrire di più: 640 miliardi di vecchie lire. Altro che i 450 e rotti del plutocrate padrone dell'EspressoS Siano a metà anni ottanta, l'asta per il vacillante - ma pur sempre appetibile - colosso alimentare è appena iniziata. Ma già s'infuoca. La Voce cerca di seguirla con attenzione. E scopre che il signor Fimiani, la cui offerta è la più alta, ha difficoltà a pagare i debiti della sua azienda, la Cofima, che ha sparato la bordata da 640 miliardi. E perfino i conti della cameriera. Nel bollettino protesti della Camera di Commercio, infatti, il nome di Fimiani sig.Giuseppe risulta regolarmente annotato (fra i protestati): per assegni a vuoto - quando erano ancora un reato penale - da 5 milioni, 10 milioni. Non salda il conto col supermercato - minimizzava qualcuno a Cava - forse perché sta per comprare tutta la catena. Miracoli di San GennaroS Prodigi a parte, Fimiani querela la Voce. In particolare, querela l'articolista, il direttore, la società editrice, il grafico, il distributore, perfino la ditta incaricata di etichettare e cellofanare la rivista per l'invio postale. Non si sa sai, avrà pensato, meglio abbondare. Ecco il motivo-base che ha scatenato le sue ire: l'articolo della Voce lo ha ridicolizzato, facendogli sfuggire di mano un affare praticamente già concluso. Per questo il mensile va condannato, anche al risarcimento dei danni, perché - scriveva testualmente - l'articolo è stato ispirato dal mio concorrente, Carlo De Benedetti.Non c'è stato bisogno del neurologo per archiviare la querela, è bastata un pronuncia del tribunale penale di Napoli. Dopo quasi vent'anni Fimiani si sente nuovamente offeso. Dall'inchiesta di copertina della Voce di giugno scorso, dove venivano ricostruiti i recenti sviluppi del caso Sme, freccia nell'arco di Berlusconi (oltre Telekom Serbia) per attaccare al cuore l'opposizione ulivista. Uno dei dardi più acuminati del cavaliere è proprio l'uomo che voleva soffiarla a De Benedetti, il piccolo industriale che si è fatto nella sua trincea di lavoro sarnese: è lui che ha le carte giuste per incastrare De Benedetti, Prodi e mandare a casa i comunisti! Così comincia il fitto invio di documenti, dossier, atti & materiali da Cava dei Tirreni ai quartieri generali nella capitale di Sua Emittenza. E' proprio un libello dello scrittore ufficiale di Arcore, Lehrer, ad individuare in Fimiani una sorta di 'asso nella manica' del Cavaliere. La Voce non fa altro che riportare le notazioni dell'agiografo berlusconiano, e ricordare le passate vicende del signor Fimiani, la cui scalata al colosso Sme scivolò su una serie di cambiali protestate. A un paio di settimane dall'uscita dell'articolo, alla redazione della Voce arriva una telefonata. E' Fimiani, che vuol sapere il motivo dell'attacco a lui. Non è comunque risentito. A stento ricorda la passata querela. Per una ventina di minuti, poi, è una sorta di monologo. Sintetizzabile in poche parole: non vi querelo. Anzi, voglio darvi dei materiali. Ho una montagna di carte, si può scrivere molto su quella vicenda. La Voce non lo mai chiamato. A metà settembre siamo stati convocati dai carabinieri di Secondigliano. Era arrivata una querela, dovevano identificare il direttore e l'autore dell'articolo incriminato. A querelare era Fimiani. Il suo avvocato si chiama Carlo Taormina.
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