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"Concessioni" alla Rochhetta SPA
by multival Tuesday, Mar. 23, 2004 at 8:54 PM mail:

Perché la Regione ha concesso alla «Rocchetta spa» il permesso di effettuare le ricerche di nuove fonti di approvvigionamento idrico, mentre il Comune di Gualdo Tadino aveva espresso parere negativo in proposito?

Rocchetta spa ha investito 109 miliardi lire per gli stabilimenti e le tecnologie, oltre 250 miliardi in pubblicità. Attualmente sono 122 le persone che lavorano per l'azienda nei due turni quotidiani (compresi gli indiretti, cioè coloro che dipendono da altre ditte), mentre sono circa 150 i lavoratori dell'indotto (trasporti e servizi). L'azienda attualmente preleva dai 15 ai 20 litri di acqua al secondo (come risulta dai dati forniti mensilmente alla Regione) e produce 300 milioni di bottiglie l'anno tra acqua ed elisir (contro i 7 milioni della precedente gestione), con un fatturato annuo di circa 200 miliardi di vecchie lire; è la prima azienda umbra di acque minerali, la quarta a livello nazionale. Nei suoi programmi si prevede il raddoppio degli impianti e del personale, con la prospettiva di diventare la prima società di acque minerali a livello nazionale e di primo piano a livello europeo.

Rocchetta, secondo no alla ricerca

. GUALDO — Perché la Regione ha concesso alla «Rocchetta spa» il permesso di effettuare le ricerche di nuove fonti di approvvigionamento idrico, mentre il Comune di Gualdo Tadino aveva espresso parere negativo in proposito? Le motivazioni di questa concessione del massimo ente istituzionale umbro sono state richieste ufficialmente dall'amministrazione comunale alla Regione dell'Umbria, che, con atto dirigenziale, ha concesso alla rinomata azienda di acque minerali il permesso di cercare nuove falde nelle zone di Le Busche e di Monte Penna. La Giunta comunale, nel documento inviato, ha chiesto che, nel caso in cui il permesso accordato dovesse essere comunque confermato, la ricerca debba essere fatta in collaborazione con l'Università di Perugia: ciò tenendo presente che proprio l'Università, su indicazione del comitato cittadino «Acqua nostra» che ha designato un proprio geologo sul problema specifico, deve verificare le eventuali interferenze tra l'acquedotto pubblico e le fonti di approvvigionamento utilizzate dall'azienda che imbottiglia la pregiata acqua minerale. In Comune si chiarisce comunque che la concessione regionale riguarda esclusivamente le ricerche, non lo sfruttamento vero e proprio delle eventuali ulteriori risorse idriche; sulle quali peraltro d'ora in poi, dal 1 gennaio del 2003, l'ultima parola spetta all'Ato, che gestisce gli acquedotti locali; e che la carenza idrica dell'anno scorso «è stata frutto di cattica organizzazione». Atteggiamento prudente, perciò, quello adottato dal Comune, che ribadisce comunque l'importanza del problema della verifica delle capacità reali del bacino montano. Come a dire che se l'acqua c'è, la concessione di una ricerca non va drammatizzata più di tanto proprio perché non compromette nulla. Precedenti ricerche geologiche davano una potenzialità di 600-700 litri al secondo, di cui 175 utilizzati per l'acquedotto pubblico e 25 da Rocchetta spa. A.C.

la nazione-maggio 2003



Intorno alle acque minerali infatti si muove un giro d´affari di più di 2500 miliardi di euro all´anno.
Gli italiani sono il popolo europeo che consuma più acqua minerale, con 11 miliardi circa di litri di acqua nel 2002, e una media di 160 litri a testa. E il consumo è in costante aumento. Parallelamente all´aumento dei consumi, si assiste anche a altri fenomeni: anche il numero delle marche cresce costantemente [nel 1999 erano 266, mentre nel 2001 si avviavano a superare la quota 280]. Ma le unità produttive continuano a calare: i 1700 milioni di euro del 2001 sono affluiti soprattutto nelle casse delle 5 aziende che controllano da sole il 70% del mercato: Nestlè, Danone, San Benedetto, Uliveto e Rocchetta.

Da dove prendono l´acqua queste aziende? Dal sottosuolo italiano. E qui arriva un altro scandalo. Lo sfruttamento del sottosuolo, anche per quanto riguarda l´acqua, è tuttora regolato da un Regio Decreto del 1927. Che tra le altre cose calcolava il prezzo dovuto allo stato per lo sfruttamento di un bacino non in base ai litri d´acqua presenti, ma alla superficie. Il risultato per le casse dello Stato [o meglio, delle Regioni] è desolante. Per fare qualche esempio, la Ferrarelle paga alla Campania 506 euro all´anno; la San Benedetto all´Abruzzo 555. A confronto appare quasi favolosa la cifra di 21.000 euro che la Sardegna riceve dalle tante piccole aziende che sfruttano le sue fonti. E bisogna ricordare che le Regioni si sobbarcano tutte le spese di controllo e di smaltimento dei rifiuti [a questo proposito, basta ricordare che solo lo smaltimento della plastica delle bottiglie è costato alla Lombardia nel 2001 una cifra tra i 45 e i 50 miliardi].

Che fare? Le Regioni stanno tentando di ottenere qualche soldo in più dai produttori, che dal canto loro si dichiarano dispostissimi a trattare. Ma l´Umbria [l´unica a esserci riuscita] è dovuta passare per una lunga trafila di processi e ricorsi al TAR per ottenere infine la cifra di 1 lira per 1 litro d´acqua.


A tutto questo si aggiunge la campagna di privatizzazione dell´acqua da parte di quasi tutte le Regioni italiane, Emilia Romagna e Toscana in testa.
Ha senso definire da un lato l´acqua bene primario per l´esistenza, ma poi non vegliare sulla sua purezza, e soprattutto darlo in gestione a privati?

Francesca Mattotti
13/1/2003

http://www.buonpernoi.it/ViewDoc.asp?ArticleID=1357

L?industria minerale italiana, che dispone di un ricchissimo e variegato patrimonio sorgivo, ha quindi l'opportunità di una grande crescita grazie anche al business dell'esportazione, che non a caso nel 2002 ha superato per la prima volta la soglia dei 1.000 milioni di litri.

Sul mercato italiano delle acque minerali sono operative circa 180 fonti che imbottigliano oltre 280 diverse marche. Spiccano i grandi gruppi a distribuzione nazionale che concentrano i 3/4 del totale produzione: S.Pellegrino/Nestlè, San Benedetto, Italaquae/Danone, Uliveto/Rocchetta, Spumador, Norda, Sangemini. Alle loro spalle stanno avanzando con decisione diverse imprese multiregionali che ambiscono a diventare anch?esse a dimensione nazionale: Lete/Prata, Fonti di Vinadio, Gaudianello, Traficante, Industrie Togni, Santa Croce. Ma anche le altre numerosissime piccole e medie aziende si mostrano combattive, presidiando specifici segmenti geografici, di canali distributivi o di fasce di prezzo.

Nel frattempo si sta rapidamente affermando anche il giovane mercato delle acque in boccioni destinate a uffici, fabbriche e comunità varie. Questo speciale segmento vale già 110 milioni di litri con 160.000 fontanelle installate. Il quadro competitivo è in forte movimento, ma comincia a delinearsi una chiara leadership intorno a 5 gruppi: DrinkCup/Danone, SEM/BPM, Culligan, Norda/Aquapoint e Nestlè/Powwow.


ACQUE MINERALI / DIETRO I GUDAGNI DELLE MULTINAZIONALI
Affari alla fonte
Per sfruttare le sorgenti, le aziende pagano cifre risibili alle Regioni. Che devono anche curare i controlli sanitari, misurare i terreni in concessione e smaltire la plastica

di Cristina Nadotti




Per digerire, per sentirsi leggeri o per essere "più puliti dentro". In realtà solo per arricchire i produttori. Gli italiani nel 2000 hanno bevuto oltre 9 miliardi di litri di acqua minerale, un record assoluto per l'Unione europea. Un giro di affari da più di 2 mila 500 miliardi di euro all'anno, che sono andati, per la maggior parte, nelle casse di cinque multinazionali.

Nestlé, Danone, San Benedetto, Uliveto e Rocchetta sono i colossi che controllano il mercato italiano. Sfruttano falde e sorgenti che appartengono alla comunità. Per farlo è bastato chiedere una concessione alle Regioni, che di tutto questo giro di miliardi non raccolgono che le briciole. Ferrarelle paga alla Regione Campania 506 euro all'anno, San Benedetto ne versa alla regione Abruzzo 555. In confronto, il totale di 21 mila euro che incassa all'anno la Regione Sardegna da piccole aziende sembra un grande guadagno.

In realtà neanche queste cifre ridicole possono essere considerate guadagni veri e propri. A fronte di entrate tanto esigue, le Regioni devono spendere per eseguire i controlli sanitari, le misurazioni delle superfici da dare in concessione e, soprattutto, smaltire tutta la plastica in cui l'acqua arriva ai consumatori. Di questa situazione ha parlato anche la trasmissione Rai "Report", ma non è servito a molto: c'è stata qualche interrogazione in più nei consigli regionali e in Parlamento, qualche modifica o integrazione alla legge (vecchissima, un decreto regio del 1927) che disciplina l'utilizzo della acque minerali. Risultato: adeguamenti di tariffe che paiono una burla, come quello di una lira al litro stabilito in Umbria.

http://www.lavoce.it/articoli/20020719012.asp

In Lombardia, dove operano la San Pellegrino (controllata Nestlé) e numerose altre aziende, la Regione guadagna poco più di 7 mila 500 euro all'anno. Quando la giunta ha chiesto, oltre al canone di concessione stabilito dal decreto regio del '27, un diritto commisurato al beneficio che ne ricavano, i produttori sono ricorsi al Tar. E meno male che Ettore Fortuna, presidente del ramo di Confindustria che raggruppa i produttori di acque minerali, aveva dichiarato poco tempo prima: «I canoni non sono assolutamente onerosi, da questo punto di vista siamo apertissimi». Come apertissimi i produttori sono stati quando Lombardia, Emilia Romagna e Umbria hanno chiesto un canone più alto, e loro hanno rimpallato la richiesta con l'ipotesi di licenziamento di lavoratori. La Corte costituzionale (sentenza del marzo 2001) ha comunque dato torto ai produttori, e ora si possono chiedere royalty sui litri imbottigliati.

Tutti contenti, strada aperta all'adeguamento di altre Regioni? Neanche per sogno, visto che i dati del maggio 2002 dicono che proprio Sardegna, Sicilia, Campania, Calabria, Basilicata e Puglia, da sempre alle prese con la siccità, sono tra le Regioni che rilasciano più concessioni per lo sfruttamento di acque minerali e ci guadagnano di meno. Né è chiuso il fronte della lotta con i produttori, che per bocca del presidente Fortuna dichiarano: «Abbiamo sempre sostenuto che siamo pronti a pagare quello che la legge ci dirà, ma deve essere una legge nazionale».

Ottenere royalty dai produttori, inoltre, non serve a sistemare una questione che non è solo di carattere economico. A San Giorgio in Bosco, vicino a Padova, dove si pompa dal sottosuolo l'acqua imbottigliata con l'etichetta 'Vera', a 500 metri di distanza dai pozzi i residenti hanno denunciato la comparsa di crepe nei pilastri delle abitazioni e un abbassamento del marciapiede. Come se non bastasse, i pozzi privati del circondario si sono esauriti.

Le informazioni che fornisce il funzionario sardo Marcello Fina non fanno che aumentare le perplessità. In quanto responsabile del settore sfruttamento acque, si astiene addirittura dal rilasciare ai privati concessioni per l'imbottigliamento da sorgenti e fonti non minerali. «Nel settore acque c'è un vero caos», afferma il funzionario. «Ci troviamo a interpretare una miriade di piccoli decreti e modifiche. Ora bolle in pentola qualcosa per il riordino dei canoni, ma far pagare di più non risolverà il problema della qualità reale delle acque prelevate dalle fonti».

Addirittura, per l'ingegner Fina permettere di imbottigliare e vendere l'acqua di fonte equivale a «dare a un privato un permesso può essere un rischio per la gente». Per commercializzare le acque non minerali, infatti, non è necessario avere la certificazione del ministero della Sanità, perciò ci sono in commercio acque molto meno salubri, o del tutto uguali, a quella che sgorga dal rubinetto di casa.

Sull'etichetta di una notissima acqua, ad esempio, c'è scritto che è imbottigliata a norma del "Dlgs 31 del 2001": quello che riguarda «le acque trattate o non trattate, destinate ad uso potabile». La legge consente insomma di vendere a caro prezzo dell'acqua che possiamo prendere dal rubinetto o dalla fonte. Non solo. Come sottolinea l'ingegner Fina «le aziende che ottengono una concessione per sfruttare fonti e sorgenti non minerali chiudono l'accesso a sorgenti d'acqua che erano della comunità».

In una Regione dove abbeverare gli animali e irrigare i campi è un problema quotidiano, dove a ogni siccità vengono sborsati milioni di euro per aiutare allevatori e coltivatori in ginocchio, una fonte comune può raggiunta con più difficoltà perché un privato ha ottenuto la concessione per lo sfruttamento.

Lo scrupolo di un funzionario non basta a tutelare il patrimonio della comunità. Servono leggi che invece di considerare l'acqua un giacimento da sfruttare, la proteggano come patrimonio comune da tutelare. Il 2003 sarà l'anno mondiale dell'acqua. I movimenti no global, associazioni internazionali come Attac continueranno la battaglia perché si sottoscriva il Contratto mondiale dell'acqua. Il documento è stato redatto nel settembre 1998 da un Comitato Internazionale presieduto da Mario Soares e dall'italiano Riccardo Petrella. Il problema è che, aumentando la popolazione mondiale, nel 2020 il numero delle persone senza accesso all'acqua potabile aumenterà dal miliardo 400 milioni di adesso a più di 3 miliardi.

Intanto in Italia si va verso la privatizzazione degli acquedotti, in attesa del canone sull'aria pulita.

24.10.2002(l'Espresso)











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