Abbiamo preso appunti in Spagna

Intervista a Francesco Salvini Pantxo (Barcellona)

Per capire quello che è successo in Spagna in queste ultime settimane bisogna andare all’origine degli eventi che hanno portato all’esplosione di domenica 15 maggio.

Il 15 maggio viene convocata una manifestazione. È un appuntamento preparato in maniera completamente autonoma dai partiti e dai sindacati, ma questo non significa che non sia attraversato da forme organizzative. Per questo, non so se possiamo dire che la diffusione di questa è convocatoria sia “anonima”: in realtà si sparge attraverso alcune reti che sono trasversali allo spazio sociale. E fa leva su alcuni elementi cruciali.

Il primo è il collegamento con una campagna che va avanti da circa tre anni sui diritti digitali, che si è mossa sul tema del copyright, copyleft, creative commons, contro l’abuso di potere della Siae spagnola e contro la nuova legge per la regolamentazione di Internet a cui hanno lavorato, negli ultimi due anni, due ministri della cultura spagnoli, Antonio Molina e poi Gonzalez Sinde. Molina alla fine si è dimesso grazie a una campagna organizzata sul web che denunciava il tentativo del governo di controllare Internet, e gli è succeduto Sinde che ha resistito e ha scritto una legge assurda che cerca di mettere vincoli alla rete (vieta il download, a protezione del diritto d’autore). Contro di essa si sono mobilitati centinaia di migliaia di persone attraverso i forum e i luoghi di discussione nel web.

Questo passaggio è importante non solo perché è stato un fenomeno forte di affermazione politica, ma anche per il modo in cui è stato discusso e costruito, attraverso i forum, attraverso twitter e facebook. Attraverso le reti si è organizzato, si è prodotto un enunciato politico. E queste stesse reti, queste stesse modalità e forme di organizzazione sono servite a dare vita a domenica 15 maggio. Laddove i partiti, i sindacati, perfino le forme tradizionali del movimento non avevano risposte alla domanda su quale fosse il modo e lo stile per organizzarsi, le reti hanno avuto la funzione e la possibilità di inventare questo: il modo e la maniera di organizzarsi. Questo, secondo me, è un elemento molto rilevante per capire ciò che è successo.

Aiuta a capire come mai i sindacati, piuttosto che i partiti, non sono stati in grado di ricondurre a sé questo movimento. E anche a capire perché la gente si è sentita finalmente protagonista: perché poteva contribuire a questa costruzione, a farla nascere e stare in piedi. Però spiega un’altra cosa importante. La rete diventa un luogo di affermazione di nuove pratiche politiche radicali perché viene abitata durante anni da movimenti, processi, discussioni. Non perché sia intrinsecamente o ‘tecnicamente’ radicale, ma perché movimenti sociali diffusi hanno costruito queste pratiche politiche dentro la rete.

Un secondo elemento di riflessione viene dal contesto macropolitico della Spagna. Zapatero nei primi anni della crisi ha fatto un tentativo interessante di proteggere, salvaguardare determinati settori della società, quelli più fragili. Ma poi tutto viene travolto dal potere delle banche, dalle direttive europee sul recupero dei bailuot, dallo spettro della bancarotta per lo stato spagnolo. Ciò ha generato una perdita di potere di Zapatero e in generale una perdita di credibilità del sistema politico, mentre diventa evidente a tutti il controllo diretto sulla società da parte del sistema bancario.

Quattro mesi fa, poi, la destra vince le elezioni in Cataluñia, e questi partono con una politica tutta fondata sui tagli sulla sanità e tagli sull’educazione, che mostrano il vero volto del governo della destra nella crisi. Ci siamo così trovati davanti uno scenario in cui c’erano due possibilità: da una parte una sinistra completamente incapace di reagire di fronte al potere delle banche e comunque in molti settori corrotta e connivente con questo stesso tipo di dispositivi; dall’altro una destra ancora più descarada, ancora più sfacciata nel costruire un’alleanza con il sistema bancario, una alleanza di garanzia dei privilegi del capitale dentro la crisi.

Un terzo elemento è il vuoto, la solitudine dei precari dentro la crisi. Un elemento cruciale per capire quello che sta succedendo: la gente è andata in piazza il 15 di maggio e poi ha risposto in maniera compatta alla chiamata contro lo sgombero dell’accampamento di Puerta del Sol, a Madrid.  Proprio perché ha scoperto, ha intravisto, attraverso la rete, attraverso queste forme di mobilitazione, la possibilità di una via di fuga rispetto alla solitudine della crisi.
Trovarsi in piazza non soltanto per poter rappresentare o poter esprimere le proprie idee ma per incontrarsi e riscoprire che la condizione di precarietà e di fragilità che si sta vivendo non è una condizione individuale, e quindi invece di essere soli si può essere molti. Invece di vivere nella solitudine, si può essere moltitudine.

Se questi sono gli elementi cruciali, vanno ricordati poi alcuni eventi che hanno, a loro volta, favorito la dinamica a cui oggi assistiamo. La prima è stata una manifestazione convocata dagli studenti di medicina e dai medici catalani che ha portato in piazza, inaspettatamente, quindicimila persone e la manifestazione convocata da Joventud Sin Futuro, un soggetto politico più tradizionale che però ha convocato attraverso la rete e fatto leva sui codici e le forme organizzative degli ultimi anni di movimento. Se andiamo più indietro, c’è lo sciopero generale dei sindacati, quasi un anno fa, in ottobre che era stato discusso capillarmente in decine di assemblee cittadine, partecipato soprattutto dalla parte più radicale dei movimenti, con centinaia e centinaia di persone. Questo processo si è sgonfiato all’apparire di forme, di pratiche e atteggiamenti –  tipici del movimento  – che, in qualche modo, hanno allontanato molti e molte.

Non si tratta qui di valutare, o ancor peggio giudicare, la legittimità politica di determinate pratiche (le “sanzioni” dal basso, la piccola guerrilla urbana), ma di valutarne l’efficacia. Lo sciopero generale aveva costituito uno spazio politico aperto, ma la stretta codificazione del movimento nel dibattito sulla legittimità delle pratiche aveva allontanato chiunque fosse in una posizione più fragile. Di fronte a queste pratiche e questi dibattiti il dubbio che nasceva era evidente: “Cosa c’entrano queste chiacchiere con le questioni della precarietà, dei tagli, etc?”. Per questo non è un caso che i movimenti abbiano saputo reagire nei momenti di tensione con una grande compostezza. Usando la parola e il dibattito pubblico come barricata, come pratica di difesa. A Barcellona dopo il violento sgombero della polizia di un venerdì mattina (che aveva coinvolto alcune centinaia di persone), si sono presentate all’assemblea generale decine di migliaia di persone. Il dibattito è ripreso da dove era finito e da lì è ripartito. Come a dire, provate a sgomberarci adesso che siamo in trentamila seduti in una piazza parlando del nostro e vostro futuro.

Su questo quadro, si innescano processi molto interessanti. Ad esempio, quello della plataforma de los afectados de la hipoteca, un movimento nato da più di un anno e in cui stanno confluendo quelle famiglie che non possono più pagarsi il mutuo. Per un’anomalia della legge spagnola, sono sopratutto le famiglie migranti a trovarsi in questa situazione paradossale. Le case in affitto, infatti, non meno accessibili per i migranti, per una serie di ragioni di razzismo “istituzionale” e non: per esempio nelle garanzia degli affitti. Come pure della necessità di contratti in regola per poter rinnovare i documenti. Allora succede che molte persone chiedono un prestito alla banca, utilizzando quel prestito per comprarsi la casa, pagando, invece dell’affitto, il mutuo. Il punto è che, mentre nel resto del mondo la regola è che chi compra la casa è la banca e il mutuo serve per “riscattarla”, in Spagna le cose funzionano diversamente. La banca ti concede un prestito con cui tu compri la casa. La casa insomma è di tua proprietà e tu sei indebitato con la banca per una somma pari al valore di mercato della casa.
Nel momento in cui non riesci più a pagare il debito, la casa va all’asta. Con la crisi, però, nel frattempo, il tuo appartamento ha perso valore, con i soldi che recuperi dalla vendita all’asta, che vanno alla banca, paghi solo parte del prestito e nel frattempo ti trovi senza casa, in mezzo alla strada, senza lavoro – perché se non riesci a pagare il mutuo vuole dire anche, con ogni probabilità, che hai perso il lavoro… E con tutto ciò non hai ancora risolto il problema del grande debito che hai contratto con la banca… Questo meccanismo mostra sostanzialmente come il sistema politico spagnolo garantisce le banche e garantisce la speculazione edilizia come “polmoni artificiali”, o meglio mistificazioni della realtà produttiva spagnola. Banche e costruttori hanno approfittato del processo di crescita, di esplosione culturale della società spagnola. Un’evoluzione che ha generato, in questi anni, il valore della vita in Spagna e tutto ciò, poi, è stato come “misurato”. Si è assistito a una riappropriazione di questo valore da parte del capitale attraverso la speculazione edilizia, attraverso le banche.

La plataforma de los afectados de la hipoteca sta cercando, da una parte, di proporre una legge di controllo del sistema bancario, che in primo luogo permetta di abolire il meccanismo per cui i prestiti e i mutui sono slegati dal valore di mercato delle case (adeguare la legge al resto dei paesi). Dall’altra parte, nella pratica, cercano di andare a difendere quelle famiglie che si trovano sotto sfratto, coinvolgendo una rete di persone che si trovano nella stessa situazione ma anche tutti coloro che si trovano immersi nella precarietà, condizione diversificata ma continua.

Durante il processo di avvicinamento al 15 di maggio, la campagna de los afectados è cresciuta. L’ultimo sfratto a cui siamo stati, invece di esserci 20, 25 persone a difendere una casa, eravamo centocinquanta e c’era la televisione, con il collegamento a un programma tipo Uno Mattina, molto seguito, con la classica intervista da matinée della televisione pubblica, molto popolare, nel senso più ambiguo del termine, con la giornalista che chiedeva: “Allora signora siamo riusciti a evitare lo sfratto?”. Una decostruzione di piani che generalmente uno si aspetterebbe… E infatti la signora sfrattata era lì, in televisione, a rispondere: “Sì, ci siamo riusciti perché ci siamo autorganizzati e perché abbiamo portato qui duecento persone grazie anche a quello che sta succedendo nelle piazze”.

La cosa interessante è che sono saltati i meccanismi della rappresentazione della politica, e non perché è esplosa una sola cosa: non sono saltati solo perché è esploso il 15 di maggio e nessuno se lo aspettava. Vengono ribaltati perché, effettivamente, questo scoppio ha rinvigorito tutta una serie di processi che già c’erano, che fanno rete, ne escono alleati. Questa complicità diventa chiara a tutti quelli che in piazza ci sono, per cercare di sfuggire alla solitudine, alla frammentazione. Così, anche le lotte ne sono uscite rafforzate. Ad esempio le ragazze che lottano negli ospedali contro i tagli alla sanità, che fino una settimana prima difendevano, in venti, venti presidi sanitari, quella mattina hanno partecipato all’azione contro lo sfratto e il giorno dopo sono stati gli sfrattati ad andare alla manifestazione per difendere uno degli ambulatori di Barcellona.

Il mettersi in rete delle piazze è l’altro fenomeno importante. E funziona, secondo me, con una logica abbastanza simile: sono sessanta o sessantacinque le piazze che sono state occupate durante queste due settimane. La rete è lo spazio in cui si costruisce, giorno dopo giorno. In cui si discutono le proposte, gli accordi di minimo, i punti su cui non si può retrocedere, come relazionarsi tra le singole organizzazioni, gruppi, collettivi, campagne politiche. La piazza è lo spazio aperto, più indeterminato e non determinabile: nessuno può pretendere di andare lì a determinare, però si può attraversarla, rafforzarsi e incontrare alleati. Un processo pieno di ambiguità e contraddizioni all’interno delle quali è necessario situare l’agire politico.

Le assemblee che ci sono state in ogni città per organizzare la manifestazione del 15 di maggio -, ma anche le azioni che sono state fatte in ogni luogo per lanciare la manifestazione – sono stati spazi molto interessanti perché coniugavano questi due elementi che dicevamo prima. A Barcellona per esempio sono stati il laboratorio culturale e politico di Conservas o piccole associazioni culturali. Luoghi simili dai quali, in questi anni, sono state lanciate e costruite le campagne sul tema dei diritti digitali o sulla cultura alternativa di Barcellona. Le persone che partecipavano e venivano da questi processi potevano essere attivisti, amici e conoscenti, ma c’erano anche quelli che avevano semplicemente letto un invito su facebook. Questa gente veniva e si appropriava di uno spazio politico costruito durante gli anni, si  prendeva questo spazio e lo cambiava.

Per fare l’esempio meno politicamente corretto, i trozkisti sono venuti a parlare in piazza chiedendo che si andasse a organizzare le fabbriche, organizzare le scuole e organizzare lo sciopero generale. La gente ha ascoltato – la gente ascolta sempre tutto, la gente ascolta moltissimo – però poi ha detto: “Che cosa vuol dire andare a organizzare i lavoratori? Noi siamo i lavoratori, noi siamo gli studenti, noi siamo quelli che possono fare lo sciopero generale, e già stiamo facendo un certo tipo, nuovo, di sciopero”. Ma allora che cosa succede? Che i troskisti – che sono sempre stati per me un fenomeno interessante perché erano terribilmente convinti delle loro idee – hanno cambiato il loro modo di fare, parlano in maniera diversa, vedi che girano e che si fermano a chiacchierare con persone che fino a qualche settimana fa avrebbero considerato troppo apolitiche per meritare la loro attenzione.

Ecco perché la piazza è così forte. Lo è in questo senso, perché è un luogo fisico. Prima del 15 maggio questo spazio ha una dimensione impercettibile, era solo lo spazio delle reti, dei social network, di twtter e facebook. Ma c’era anche bisogno di luoghi che costruissero nuovi  simboli e nuovi significati e che questa nuova grammatica potesse inventarsi, costruirsi e trasformarsi attraverso i momenti d’incontro. E anche attraverso l’organizzazione. Bene, questa cosa è esplosa con le piazze. Prendere la piazza, avere un luogo, costruire i dibattiti, le commissioni durante il pomeriggio, poi la sera seguire un’assemblea con diecimila persone che stanno sedute, si ascoltano e stanno attente e poi decideranno come fare, su cosa lavorare eccetera, secondo me è una cosa estremamente interessante. È necessario un punto di incontro, di momento di traduzione tra il virtuale e il quotidiano, che in qualche modo aiuti a rompere la separazione tra i due ambiti. Il virtuale, del resto, risulta sempre più quotidiano. E allo stesso tempo il quotidiano diventa sempre più virtuale: uno spazio che sta trasformandosi, la prefigurazione concreta di un mondo a venire.

Le reti sociali, come pure le mailing list, sono sempre stati luoghi che si trasformano velocemente, in cui si affermano codici, modi di fare, comportamenti e valori etici. Se guardiamo agli ultimi anni, la rete è stato un luogo di grandissima innovazione e invenzione (politica, sociale, culturale). Portare avanti una lotta o una vertenza significa inventare nuovi modi di organizzazione, nuovi strumenti: trasformare le pratiche politiche. E oggi questa capacità di trasformazione si afferma di nuovo nei luoghi concreti. Se vogliamo chiamarli ancora: “nei luoghi reali”.

L’ultima cosa che terrei a sottolineare sono i limiti di questo processo. Perché non è tutto solo positivo, anche se, evidentemente, l’entusiasmo ti porta a enfatizzare quanto sia bello.

Per esempio, una certa tensione è portata dal fatto che molta gente è “nuova”. Io conosco l’uno per cento di quelli che sono in piazza Catalunya. Sulle riflessioni, sulle categorie, sulla capacità di imparare l’uno dall’altro, su tutte le cose che abbiamo costruito nel movimento per arrivare alla radice, ovvero per studiare, capire, sviscerare, come funziona la precarietà, come funziona la fragilità che ci impongono, come funzionano tutta una serie di cose. Possiamo dire di averci speso degli anni. Chi oggi è in piazza per sfuggire al panico della solitudine della crisi, questo lavoro lo sta cominciando a fare ora. Meglio: lo ha fatto sicuramente per tanto tempo ma in solitudine. E tutto cambia nel momento in cui cominci a farlo insieme a tante altre persone diverse. Sono ancora da sviscerare tutta una serie di trucchi, di pregiudizi e presunzioni: elementi mistificati che vengono imposte e poi credute davvero, per esempio che i migranti siano degli estranei, o che si debba “difendere lo Stato” senza ben sapere a quale Stato ci si riferisca (quello che salva le Banche o quello che garantisce gli sfratti?), oppure che “dobbiamo tornare al posto fisso” per tutti: lavori di merda, però garantiti.

Di tutto ciò bisogna parlare, discutere per capire quanto le cose siano più complesse: cosa significa garantire i diritti anche nella flessibilità? Come possiamo amplificare le libertà che abbiamo. E che le libertà che abbiamo noi e la libertà che hanno i migranti sono in realtà sotto attacco da parte dagli stessi processi che tutti, indistintamente, viviamo nel quotidiano. E tuttavia chi non è di qui vive soffre questo attacco in modo ancora più feroce, non solo perché certi diritti non gli vengono riconosciuti, ma anche perché il territorio politico, culturale, istituzionale in cui lottare è un territorio sconosciuto. La lingua non è la tua, la cultura istituzionale è diversa, tutto è diverso, tutto è più difficile. Per fare un esempio banale, quando sono andato a vivere in Spagna, ci ho messo un anno per capire come funzionava la sanità o come funzionava la scuola, quali sono le istituzioni che decidono, gli equilibri o i codici taciti del potere. Questo meccanismo di segmentazione della cittadinanza, intesa in senso ampio, è un meccanismo di vero e proprio governo e controllo delle nostre vite. Da una parte ti precarizzo al massimo dall’altra evito che possa costruire alleanze con altre persone.
Ecco questo lavoro di ricomposizione, che permette di capire come funziona il governo contemporaneo della precarietà, ecco, questo è un lavoro molto difficile. E bisogna dire che la gente è convinta di cose stranissime, ad esempio che la soluzione alla crisi possa venire da una terza repubblica spagnola, o da una legge elettorale perfettamente proporzionale. Voglio dire che basti cambiare determinati aspetti formali per risolvere i problemi.

Il processo che stiamo vivendo è un’incognita. Appaiono tante difficoltà, tanti meccanismi che possono rivelarsi pericolosi. Possono esserci rigurgiti populisti, momenti di qualunquismo diffuso, problemi nelle questioni di genere come pure episodi quotidiani eco di pregiudizi sociali purtroppo diffusi. Ci sono state situazioni in cui di fronte a vertenze sulla precarietà attraversate da questioni di genere, in una assemblea si diceva alle ragazze che i problemi delle donne si dovevano discutere nel gruppo femminista. “Ma perché dovrei discutere i problemi delle donne solo nel gruppo femminista se ho un problema di lavoro? O perché i migranti devono parlare dei loro problemi sull’accesso all’educazione solo nei gruppi che si occupano di migrazione?”.
Questi meccanismi ci sono e sono un pericolo. Come anche esiste il pericolo che i codici stantii dei movimenti prendano il sopravvento su questo parlare comune, su questa lingua in permanente trasformazione che si sta inventando ogni giorno per strada. Perché molto spesso affermare le nostre parole (voglio dire i problemi le soluzioni che abbiamo affrontato negli ultimi anni) finisce per spegnere il dibattito e la forza costituente delle piazze: produrre affiliati, invece che alleati.

Come si possono affrontare? Come si può cercare e trovare la potenza di quello che abbiamo in mano senza spaventarci nel momento in cui scopriamo i lati oscuri di questa forza? Forse il punto è scoprire e sperimentare i limiti di questo corpo collettivo. Mettere a disposizione le esperienze e gli esperimenti dei movimenti sociali: intesai come modi di fare, ma anche come memorie, come energie che non si spengno, come capacità di portare avanti le lotte anche nei momenti complicati.  Le ombre di questa potenza possono essere affrontate e risolte costruendo alleanze, traduzioni, reciprocità, interdipendenza e fiducia. Mettersi in gioco e tessere le reti, mettere in campo parole e pratiche nuove per questo spazio politico che stiamo costruendo in comune.




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