Auto di lusso e redditi. Qualcosa non quadra…

Da RepubblicaMotori di Vincenzo Borgomeo

In Italia ci sono più supercar che stipendi pari al prezzo delle auto vendute: meno dell’1% degli Italiani dichiara più di 100 mila euro l’anno al fisco

Qualcosa non quadra: incrociando i dati di vendita delle vetture di lusso con le dichiarazioni dei redditi si scoprono dati incredibili. In un Paese dove lo scorso anno si sono vendute 620 Ferrari, 151 Lamborghini, 180 mila fra Mercedes, Bmw, Audi e un totale di 206 mila auto dal prezzo medio di 103 mila euro, solo 76 mila italiani (ossia, lo 0,18 per cento dei 41 milioni e 66.588 contribuenti, poco meno di due su mille) hanno dichiarato al fisco più di 200 mila euro lordi. Questo significherebbe che solo meno della metà di chi ha comprato una macchina di questa categoria  –  spendendo fra l’altro in un colpo solo tutti i soldi guadagnati in un anno  –  si sarebbe potuto permettere davvero una macchina del genere. Il discorso non cambia allargando la fascia dei potenziali clienti ai contribuenti che hanno denunciato al fisco più di 100 mila euro, cioè a quelle persone che avrebbero dovuto impegnare due anni di guadagni in una macchina: sono stati solo 382.662, meno dell’uno per cento del totale. Di questi, 218.198 (cioè ben oltre la metà) erano lavoratori dipendenti. Numeri impressionanti, che diventano ancora più incredibili se si vanno a fare i conti in tasca alle marche di lusso. E già perché l’Italia per questi produttori di sogni riveste un’importanza fondamentale: siamo il secondo mercato al mondo per vendite di Lamborghini e Ferrari, il terzo di esportazione per Mercedes e Bmw e il quarto per le Porsche. Siamo battuti (a seconda dei marchi e a volte di pochissimo…) solo da Paesi del calibro di Stati Uniti e Germania. Solo che la nostra ricchezza “ufficiale” non è minimamente paragonabile a quella di altri Paesi che comprano supercar a un ritmo di gran lunga inferiore al nostro.



Incrociando poi i dati di vendita con la produzione si ha un’altra  –  tragica  –  fotografia della nostra situazione: l’Italia è il secondo mercato europeo per acquisti di auto dopo la Germania. Da noi infatti si vendono più di due milioni di vetture l’anno ma se ne producono solo mezzo milione (nel 2008 erano state 659 mila e 910 mila nel 2007). Questo significa che oggi compriamo solo e non costruiamo quasi più: i nostri volumi di produzione sono inferiori di 7 volte ai 3,6 milioni della Germania, e la metà di quanto si produce in Francia e soprattutto in Spagna. Ma anche questo è strano: non si capisce che interesse ci possa essere in Italia a vendere tante macchine se  –  sempre secondo le dichiarazioni dei redditi denunciate dalle società concessionarie d’auto  –  il guadagno per ogni vettura venduta è di appena 50 centesimi…

Middle class: donne sull’orlo della bancarotta

di Naomi Wolf

Mentre il mondo lotta per uscire dal semi-collasso economico dello scorso anno, c’è un sottogruppo che è scivolato al di sotto della linea di galleggiamento: le donne che un tempo appartenevano al ceto medio.

Mentre il mondo lotta per uscire dal semi-collasso economico dello scorso anno, c’è un sottogruppo che è scivolato al di sotto della linea di galleggiamento: le donne che un tempo appartenevano al ceto medio. Secondo un’inchiesta recente, quest’anno in America un milione di queste donne comparirà davanti al tribunale fallimentare. Un numero superiore, dice l’economista Elizabeth Warren, a quello delle donne che «prenderanno la laurea, avranno una diagnosi di cancro o chiederanno il divorzio». La loro difficile situazione – sintomatica di una condizione comune nel mondo – contiene una lezione utile per tutte noi.
Queste donne rovinate sono più istruite dei loro omologhi maschi: la maggior parte ha fatto l’università, più della metà è proprietaria della casa dove vive. A farle cadere da uno stile di vita medio-borghese a redditi di poco al di sopra del limite di povertà sono stati verosimilmente tre fattori: due economici e uno emotivo.

In primo luogo, queste donne nuotano nei debiti. Molte hanno lavori che impongono di tuffarsi nelle linee di credito solo per stare a galla. Altre sono state bersagliate – e raggiunte – dai produttori di beni di lusso e dalle società che emettono carte di credito, che beneficiano del modo in cui la cultura di massa lega certi tipi di consumo – gli abiti all’ultima moda, la borsa-must della stagione, l’ultimo modello di auto sportivo – ai racconti di una femminilità di successo.

Questa pressione non è limitata agli Stati Uniti. Nuove classi medie stanno emergendo globalmente e riviste come Cosmopolitan e Vogue si rivolgono, con gli stessi identici beni di lusso, a donne dell’India e della Cina appena ascese socialmente – molte delle quali appartengono a una generazione che, per la prima volta nella storia delle loro famiglie, dispone di un suo reddito.

La seconda ragione di questa bancarotta femminile è che una legge del 2005 contrappone nei tribunali le donne – che non possono permettersi costosi pareri legali – ai gestori di carte di credito per stabilire chi venga primo nei pagamenti quando l’ex marito, mancando ai suoi doveri, nega sia l’assegno di mantenimento dei figli sia il saldo degli acquisti.

C’è poi un terzo fattore, di cui poco si parla: le attese emotive e le proiezioni sul denaro. Nel programma sulla leadership delle giovani donne cui io collaboro al Woodhull Institute, vediamo regolarmente che ragazze del ceto medio – in percentuale superiore a quelle della classe operaia – provano imbarazzo a parlare di denaro. Quando lo devono introdurre in un colloquio – per esempio con il loro datore di lavoro – si scusano con parole controproducenti. Sono restie a negoziare lo stipendio e raramente sanno come farlo.

Ritengono che chiedere del denaro in cambio del lavoro sia «poco femminile». Danno per scontato che lavorare il doppio degli altri – senza mai chiedere riconoscimenti del loro valore – porterà un aumento perché qualcuno di importante se ne accorgerà.

Queste giovani donne tendono anche ad avere un’idea poco realistica delle loro finanze. Spesso non si curano di risparmiare perché danno per scontato – ancora! – che a salvarle economicamente arriverà il matrimonio. Per loro l’acquisto di un paio di scarpe costose o un bel taglio dei capelli è un «investimento» per un futuro romantico. E non si preoccupano di fare piccoli investimenti mensili. Questo cliché è spesso vero anche per le borghesi più anziane, che non sanno gestire le finanze della famiglia, perché hanno sempre delegato ai mariti il compito di pagare contributi, mutui, tasse e assicurazioni. Così, in caso di divorzio o vedovanza, sono economicamente vulnerabili.

Paradossalmente, le donne della classe operaia (e quelle di colore) raramente si rifiutano di interessarsi alle questioni economiche. Secondo la nostra esperienza, esse tendono a padroneggiare l’abc delle finanze e imparano a negoziare il salario, perché non possono permettersi il lusso di aspettare un cavaliere su un cavallo bianco che arriva a salvarle economicamente.

Questo pragmatismo economico delle donne povere è la ragione del successo, nel mondo in via di sviluppo, del microcredito, che mette il denaro nelle mani femminili. Sarei sorpreso se le donne borghesi nel resto del mondo – cresciute considerando certe forme di ignoranza e ingenuità economica come socialmente appropriate – riuscissero, senza un duro apprendimento, a essere affidabili e accorte come quelle più povere dimostrano di essere.

«Financial intimacy», l’ultimo saggio di Jacquette Timmons, una talentuosa coach finanziaria, fornisce delle verità che sarebbero state preziose per qualunque donna della classe media ora in crisi: «Oggi molte guadagnano ben più delle generazioni precedenti. Questo però non ha prodotto un più alto grado di sicurezza economica». La colpa è del tabù di-soldi-non-si-parla. Le donne della middle class ovunque nel mondo lo supereranno quando noi tutte avremo capito che i soldi non sono mai solo soldi e che diventare economicamente preparate significa allontanarsi dal ruolo sociale assegnato alle donne: quello di persone educate, economicamente assenti, sottopagate e abbagliate dallo shopping. Tutte le altre tremende pressioni che le spingono alla rovina continueranno a esistere, ma almeno un numero crescente di loro le affronterà con gli occhi bene aperti e, si spera, con molte alternative migliori.


Un nuovo Welfare metropolitano per uscire dalla crisi…

Un nuovo Welfare metropolitano per uscire dalla crisi,
fermare Expo e la speculazione per finanziare reddito, diritti, servizi

Negli ultimi venti anni Milano è stata il simbolo della finanziarizzazione dell’economia, della precarizzazione del lavoro e della vita, della privatizzazione di beni e servizi pubblici in nome della sussidiarietà formigoniana.
In questo contesto la speculazione edilizia e il sacrificio incondizionato del territorio alle regole del mercato e al modello della città vetrina hanno rappresentato lo specchio delle trasformazioni sociali ed economiche che hanno attraversato la metro-regione Milano. Trasformazioni pagate con costi altissimi dal territorio e dai soggetti meno tutelati a vantaggio degli stessi speculatori che hanno generato la più grande crisi economica e finanziaria del modello capitalista-neoliberista. La distruzione dell’economia pubblica (dalle privatizzazioni alla crisi finanziaria degli enti locali) e del concetto di città spazio pubblico, la cancellazione di diritti e condizioni stabili di reddito per decine di migliaia di precari e migranti, la forte presenza di forme d’intermediazione di lavoro e reddito mafiose nei cantieri, la negazione del diritto alla salute e a vivere in un ambiente salubre sono tratto comune di quanto è successo nella nostra regione prima e più che altrove.
Oggi il gioco si ripropone.

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Sull’incontro ‘Verso il Welfare metropolitano’

Considero l’incontro del 2 dicembre scorso molto interessante per due ragioni.

La prima è che mette a confronto percorsi e approcci diversi ma che, esprimendosi chiaramente, possono individuare la propria “superficie di contatto” e quindi trovare una modalità possibile di LAVORO COMUNE…
Mi spiego. Parlare di “salario sociale” o “reddito di cittadinanza” porta con se’ un approccio diverso al problema dei soggetti sociali in relazione alla loro collocazione nei processi di valorizzazione del capitale.
Ma individuare – giustamente, come fa il testo che ha introdotto l’incontro – la rivendicazione della “continuità del reddito per tutti/e” come architrave di una piattaforma per contrastare la precarietà come elemento di pressione e ricatto costante sui lavoratori – cognitari o inseriti nei processi di produzione materiale – è un approccio concreto che permette la convergenza di impostazioni diverse nella battaglia per ricomporre ciò che la crisi e il suo uso padronale frantumano e dividono.

La seconda ragione è che, mi pare, obiettivo dell’incontro – esplicitato poi nelle sue conclusioni – è quello di individuare progetti che si traducano in campagne sui cui soggetti di movimento diversi possano “mettersi insieme” senza cancellare le proprie specificità e l’autonomia della propria attività a tutto campo.

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Roma, dove i Rom muoiono ancora nei roghi

rom Roma, 27 dicembre 2009. Circondati da odio e pregiudizi, i Rom continuano a morire nei roghi, come nel Medioevo. A volte li uccide la povertà, che li costringe a riscaldarsi, in inverno, con metodi pericolosi: vecchie stufe, candele, fornellini ad alcol. A volte la mano di un razzista. Ieri sera una persona di etnia Rom ha perso la vita a Roma, dove viveva in una baracca sull’Ardeatina, già teatro di azioni di pulizia etnica istituzionale e di azioni di intolleranza da parte di gruppi neonazisti. I Rom di un accampamento vicino hanno chiamato i carabinieri. Le assi dell’abitazione di fortuna hanno preso fuoco per cause che le autorità ci spiegheranno come incidente dovuto a incuria.  Li uccidono la disperazione, l’indifferenza, il sadismo. I vigili del fuoco sono intervenuti alla 22. Hanno trovato due brande, nella baracchina. Su una di esse giaceva il corpo della vittima, quasi completamente carbonizzato. L’incendio segue quello avvenuto l’11 dicembre scorso, sempre a Roma, in via Candoni. Le fiamme hanno raggiunto e distrutto 40 baracche. Suiccessivamente diversi roghi sono stati spenti dagli stessi Rom in insediamenti più piccoli, mentre nelle prime ore del mattino del 21 dicembre scorso, nel campo di via della Martora, le fiamme hanno ustionato alcune persone e distrutto 70 baracche; solo il coraggio di un giovane Rom, che ha aiutato molti dei suoi fratelli  a uscire indenni dalle baracche in fiamme ha potuto evitare il peggio. Contemporaneamente le fiamme sono divampate anche in un insediamento Rom a Montemario. Otto baracche sono andate distrutte insieme agli oggetti di sopravvivenza dei Rom. “Non so se si tratti di attentati o di incidenti domestici,” afferma Albert, Rom romeno, “quello che so è che le autorità vengono a spiarci, anche di notte, e continuano a distruggere le nostre baracche e le nostre stufe. Le discariche hanno ricevuto l’ordine di non fornire ai Rom materiale da costruzione e di conseguenza costruire ripari solidi e sicuri, con sistemi di riscaldamento non pericolosi è ormai impossibile. Nonostante le giornate che dedichiamo ormai a ricostruire in posti sempre più nascosti le nostre baracchine, è sempre meno facile reperire i materiali adatti. Vivere al freddo vuol dire morire, a certe temperature, ma anche scaldarsi con l’alcol etilico è un grande rischio”. Questa è Roma, dove pare che un nuovo Erode sia risorto, per dare la caccia con i suoi volenterosi carnefici alle famiglie Rom. Quando una persona Rom, per un vero miracolo, se si considera l’antiziganismo in Italia, riesce a trovare un lavoro, risulta poi difficile che trovi un’abitazione in possesso dei requisiti di abitabilità e che gli consenta quindi di avere le residenza. Intanto, fioccano le espulsioni, basate su reati come l’accattonaggio molesto, gli schiamazzi, la resistenza e l’oltraggio a pubblico ufficiale. Quando ricevono queste denunce, significa che sono rimasti in silenzio di fronte agli agenti, finché… vola un pugno guantato e il grido di dolore, “Ahi!”, del Rom colpito compare nel verbale come “oltraggio”. Altre cause di espulsione prefettizia sono le condizioni di povertà e la mancanza di mezzi di sussistenza, considerate dalle autorità la prova inoppugnabile per cui la persona Rom viva di attività delittuose.


Da everyonegroup.com