Articolo 18: è controriforma

il manifesto – 4 marzo 2010

Cgil, Pd e sinistra insorgono. Cisl e Uil (e Ugl) invece approvano

DDL LAVORO Il senato approva la norma sull’arbitrato. Sacconi: «Tutti zitti per due anni»

Non abrogato ma più semplicemente aggirato. Mai nominato, l’articolo 18 si avvia sulla strada di una rapida archiviazione. Dopo due anni di spola parlamentare, il cosiddetto «collegato lavoro» (il disegno di legge 1167 B) è arrivato ieri in lettura definitiva al senato, l’articolo incriminato (quello su conciliazione e arbitrato) è stato approvato in serata e già oggi l’intero provvedimento potrebbe diventare legge. Il governo riesce nell’impresa fallita otto anni fa e lo fa senza mai nominare l’oggetto in questione. L’articolo 18 viene di fatto svuotato, reso inesigibile, sostituito da un arbitrato cucito su misura sull’imprenditoria nostrana. Non decade ma servirsene sarà sempre più difficile.
Il ministro Sacconi è uomo ambizioso e ieri, dal palco del XV congresso Uil ha detto: «Abbiamo i titoli per andare oltre verso un nuovo statuto dei lavori». Nessuno in platea ha fiatato. E sulle polemiche levatesi, Sacconi è sbottato: «L’ennesima prova della malafede di chi vuole sempre accendere la tensione sociale. Non per nulla tutti, tranne la Cgil, hanno condiviso questa norma». Difficile per un organizzazione sindacale difendere una norma che consente di sostituire il reintegro del posto di lavoro (in caso di licenziamento senza giusta causa) con una più comoda ammenda, ma Cisl, Uil, e anche Ugl, ci riescono. La Cgil anche ieri ha denunciato l’operato del governo, puntando il dito su tutte le altre «norme deregolatorie» che il «collegato» introduce: «Un insieme di norme peggiorative (tra cui quella dell’apprendistato a 15 anni) che si aggiungono a quelle sull’arbitrato, la certificazione e il ruolo del giudice del lavoro – le definisce il segretario confederale Fulvio Fammoni – nel tentativo di capovolgere i fondamenti del diritto del lavoro, aggirare norme come quelle dell’articolo 18 nate per tutelare i più deboli e consumare così una sproporzione evidente tra i diritti del lavoratore e quelli del datore di lavoro».
L’operazione chirurgica del governo – come si spiega molto chiaramente a pagina 10 di questo giornale – consiste nell’allargamento delle maglie dell’«arbitrato»: in sostanza, in sede di stipula e di certificazione del contratto di lavoro, quando dunque i rapporti di forza sono con ogni evidenza sbilanciati dalla parte del datore di lavoro, potrà essere inserita una clausula in cui si dice che eventuali controversie si risolveranno non davanti a un giudice, e dunque in ottemperanza alla legge, ma davanti a un «arbitro», in ottemperanza a ben più generici criteri di «equità». Il datore di lavoro potrà dunque imporre la strada dell’arbitrato ai nuovi assunti. «Solo per i contratti certificati – replica Sacconi – … E poi non dobbiamo pensare che il lavoratore sia un minus habens».
Trovare «un certificatore che attesti la reale volontà delle parti» sarà un gioco da ragazzi per le imprese. Quanto invece a chi ha già un contratto a tempo indeterminato, il dettato di legge, come spiega Tiziano Treu (Pd), prevede che l’arbitrato potrà essere introdotto, tramite accordo tra le parti, anche in corso d’opera. A introdurre il ricorso all’arbitrato saranno i contratti collettivi (ma se le parti non trovano un accordo interviene il ministro per decreto). Dietro questa foglia di fico cercano riparo sia Cisl che Uil: più spazio alla contrattazione collettiva! Ma è ancora Treu a spiegare che esiste anche una seconda strada, quella di un accordo individuale tra il singolo lavoratore e il suo datore di lavoro. «L’articolo 18 potrebbe diventare un optional», conclude l’ex ministro del lavoro.
Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, definisce il tutto «un disegno che guarda al passato più lontano per un mercato del lavoro selvaggio, diametralmente opposto a quanto servirebbe per spingere le nostre attività produttive verso una competizione di qualità». Antonio Di Pietro parla di «un esecutivo che fomenta violenza contro il mondo del lavoro», e rilancia lo sciopero generale indetto dalla Cgil per il 12 marzo («parteciperemo con forza e convinzione»). Paolo Ferrero (Prc) e Roberta Fantozzi (responsabile lavoro del Prc) decidono per «un atto estremo di protesta», lo sciopero della fame, e annunciano una battaglia refenderaria che riguarderà anche questo disegno di legge. Stigmatizza il disegno di legge anche Nichi Vendola (Sel): «È una vergogna, e a questo punto diventa fondamentale che tutte le forze democratiche e di opposizione si impegnino affinche i diritti dei lavoratori non facciano un salto indietro di mezzo secolo, a partire dal sostegno allo sciopero generale convocato dalla Cgil per il 12 marzo».

di Sara Farolfi

Io, manager tradita dall’azienda

STEFANIA BOLESO, 39 ANNI, DIECI ANNI DA RESPONSABILE MARKETING: ERO PRONTA A MILLE SACRIFICI
«Io, manager tradita dall’azienda.  Dopo il parto costretta a licenziarmi»
Storia di una bocconiana. Convocata dal direttore appena rientrata: «Grazie, non ci servi più»

Mamma e figlia fotografate nella loro casa (Fotogramma)«Buongiorno dottoressa. Il direttore generale la aspetta nel suo ufficio». La voce della segretaria lasciava intuire un certo distacco. Strano. Torni dalla maternità, di solito i colleghi ti accolgono con un sorriso e mille domande. Come va la piccola? Piange? Come ti sei organizzata a casa? Stefania Boleso, 39 anni, marketing manager di Red Bull Italia (multinazionale austriaca presente in oltre 180 Paesi, ndr) non ha voluto ascoltare quel brivido di disagio. Come uno sportivo che si è preparato al meglio, dopo dieci mesi di maternità era stanca di immaginare la gara imminente. Baby sitter assunta a tempo pieno, marito pronto a dare una mano nelle emergenze: meglio scendere in campo e giocare. E allora via, dal capo. «Buongiorno Stefania. Scusa ma… Per motivi di costi la tua posizione non è più prevista». Tradotto: devi andartene. Con le buone o con le cattive. «Non dimenticherò mai quell’attimo — racconta adesso Stefania Boleso —. Erano le dieci del mattino del 30 settembre scorso. E’ stato come essere lasciata dal primo amore».
Una firma per cancellare oltre dieci anni di lavoro e un percorso professionale da manuale: laurea in Bocconi con 110, un anno e mezzo in una multinazionale americana (Sarah Lee) «per farmi le ossa» e poi l’ingresso in Red Bull quando il marchio in Italia era sconosciuto e la filiale tutta da costruire. Oggi la bibita è famosa anche nel nostro Paese. E l’azienda in Italia dà lavoro a 150 dipendenti. «Mi hanno fatto una proposta economica. Ho rifiutato—racconta oggi Boleso davanti a una tazza di caffè —. Ho deciso di tenere duro per orgoglio. Gestivo un budget di 18 milioni di euro ed ero il punto di riferimento di 28 persone: tutta l’area marketing. Durante la maternità ero sempre rimasta in contatto con l’azienda. Per dire, mia figlia doveva nascere il 25 dicembre e io il 18 ero a una riunione. A quel progetto ho dato l’anima. Invece l’azienda non mi ha nemmeno messa alla prova. Come si sono sbagliati. Io ci sarei riuscita a mettere insieme la famiglia con il lavoro. Avrei dato il sangue pur di farcela».

Dopo il «gran rifiuto», per Stefania Boleso sono arrivati momenti difficili. «Sono stata spostata in un locale a pian terreno riadattato a ufficio, distante cinque piani dal resto dell’azienda. Mi hanno tolto la responsabilità del marketing. In teoria avrei dovuto lavorare con due colleghe. Peccato che entrambe fossero in maternità. Insomma, ero sola». Boleso ha resistito poche settimane. «Un giorno mi è venuto un attacco di panico, ho creduto di morire. Al pronto soccorso mi hanno detto che stavo rischiando l’esaurimento. Alla fine ho mollato. Il 19 dicembre ho firmato la resa. Ho scambiato i miei diritti con una buonuscita. Non avevo alternativa: dopo aver perso cinque chili e la serenità, non mi sono sentita di imporre altre tensioni alla mia famiglia». Che cosa farà adesso, Stefania? «Questa esperienza mi ha cambiata — risponde la manager —. Ieri criticavo chi dava meno del 110% sul lavoro. Adesso sto cercando di attribuire un nuovo senso agli ultimi dieci anni. Ho deciso di ripartire raccontando questa storia. “Guarda che poi nessuno ti offrirà più lavoro”, mi ha detto qualcuno. Il rischio c’è. Ma credo vada corso. Quantomeno per aiutare mia figlia a vivere in un mondo migliore».

Rita Querzé
22 febbraio 2010

Quando il lavora è un problema di testa….

Crescono in “malati d’ufficio”

Sono quattro milioni gli italiani che si ammalano o soffrono per colpa del lavoro. La precarietà conta molto, ma tra chi ha problemi psicologici c’è chi non fa carriera, chi si ritiene vittima di soprusi da parte del datore di lavoro, chi si sente mobbizzato dai colleghi e chi è costretto a svolgere una mansione diversa da quella che sperava per capacità e titoli. Lo sostiene l’Ispesl

Si sentono inadeguati, soffrono di ansia e di depressione: gli italiani che si ammalano o soffrono per colpa del lavoro sono quattro milioni di persone. I disturbi psichici nascono dalla percezione di essere stressati, di non reggere ritmi sempre più veloci, di essere sottovalutati o di non essere all’altezza dell’incarico svolto. E sbaglia chi pensa che tutto dipenda dall’avere o meno un posto fisso o il contratto a tempo indeterminato. La precarietà conta molto, ma tra i ‘nuovi malati’ c’è anche chi non fa carriera, chi si ritiene vittima di soprusi da parte del datore di lavoro, chi si sente mobbizzato dai colleghi e chi è costretto a svolgere una mansione diversa da quella che sperava per capacità e titoli. A loro si aggiunge l’esercito dei precari, spesso costretti ad accettare anche condizioni capestro pur di avere un minimo di salario.

L’immagine di un Paese di lavoratori sofferenti arriva dall’Istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (Ispesl) nel rapporto che sarà presentato in occasione della XI Giornata nazionale di informazione sulla promozione della salute nei luoghi di lavoro’.

“Il ritmo di lavoro è stressante, siamo nella società dei turni di 24 ore – – spiega Sergio Iavicoli, direttore del dipartimento medicina del lavoro dell’Ispesl – e a rimetterci è la salute mentale; questo fenomeno ormai rappresenta un’emergenza sociale. Basti pensare che una persona su quattro attraversa, almeno una volta nella vita, un episodio di depressione importante, che richiederebbe l’intervento del medico”.

I numeri dell’Ispesl parlano chiaro: dieci milioni di lavoratori percepiscono il proprio lavoro come un fattore di rischio per la salute; tra questi, 8 milioni e 706mila rilevano fattori di rischio per la salute fisica, mentre 4 milioni e 58mila vedono anche il proprio equilibrio psichico messo a rischio dall’attività lavorativa. Oltre 2 milioni e 797mila, inoltre, individuano nel lavoro le cause dei propri problemi di salute.

In generale, le donne, con il 5,4%, mostrano una maggiore esposizione degli uomini (4,1%) a fenomeni di prepotenza e discriminazione. Le classi di età più esposte al rischio di sofferenze di natura psicologica risultano essere quelle centrali (35-44 anni). “I problemi psicologici vanno letti anche in termini di denaro – aggiunge Iavicoli –. Dallo stress infatti deriva l’assenteismo che in tutta lUnione europea ha un costo sociale che si aggira intorno ai 20 miliardi di euro”.

La depressione e lo stress non sono le uniche patologie. Ci sono gli attacchi di panico, le fobie e l’ansia. Ma cosa succede a chi si trova a soffrire per colpa del lavoro? “C’è una percezione diversa della realtà – spiega ancora Sergio Iavicoli – . C’è la speranza di un trovare un lavoro che troppo spesso non arriva o che non è all’altezza delle aspettative”. Così capita a chi magari ha una laurea e una specializzazione e si ritrova a svolgere un lavoro inadeguato ad esse.

Del fenomeno si parlerà nel corso della ‘XI Giornata nazionale di informazione sulla promozione della salute nei luoghi di lavoro’, prevista per martedì 16 febbraio. Tre gli obiettivi principali dell’iniziativa: promuovere e sostenere una migliore consapevolezza del valore delle persone impiegate in azienda; coinvolgere dipendenti e datori di lavoro in azioni per il benessere lavorativo e il miglioramento organizzativo ed economico delle prestazioni dell’azienda; diffondere buone pratiche al lavoro e stili di vita sani.ù

da repubblica.it

Le venti Italie della spesa regionale

Repubblica.it – 9 febbraio 2010

Dall’analisi della Ragioneria generale emerge un quadro sconcertante: differenze macroscopiche nella spesa per abitante, non di rado senza relazione con la qualità dei servizi offerti ai cittadini

L’Irpef di Berlusconi premia i redditi più alti

di Massimo Baldini e Simone Pellegrino

[da lavoce.info]


La proposta del presidente del Consiglio di portare a due le aliquote dell’Irpef è stata subito abbandonata per la situazione dei conti pubblici, che non consente oggi una riforma tale da ridurre il gettito dell’imposta di un punto e mezzo di Pil. Ma se l’ipotesi non fosse stata riposta nel cassetto chi se ne sarebbe avvantaggiato? Soprattutto i contribuenti a reddito medio-alto. Perché già ora metà dei contribuenti ricade nell’aliquota del 23 per cento. E perché il primo scaglione sarebbe troppo ampio per salvaguardare l’effetto redistributivo del nostro sistema tributario.