La cultura professionale è un bene primario

Da Il Sole 24 Ore, del 17 novembre,

scritto dal vicepresidente di confindustria per l’economia

Una recente indagine dimostra che il 67% dei laureati italiani ignora che siamo il secondo Paese manifatturiero in Europa dopo la Germania. È un dato che fa riflettere e ha una spiegazione: negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a due fenomeni contraddittori. Da un lato l’impresa, per vincere la competizione internazionale, ha investito sui talenti e l’incidenza dei tecnici sul totale degli occupati è raddoppiata, passando dal 12 al 22%, una quota superiore addirittura a quella tedesca. Dall’altro lato, negli stessi anni, è avvenuto il sorpasso degli iscritti ai licei sugli studenti che scelgono l’istruzione tecnica. E oggi, nonostante la crisi, mancano all’appello 76mila tecnici che le industrie richiedono ma non trovano (erano 181.00 prima della crisi). I dati Excelsior mostrano inoltre l’insoddisfazione di più di metà delle imprese per la qualità dei diplomati tecnici.
La cultura tecnica dell’Italia è un patrimonio inestimabile. Abbiamo il primato in molti settori produttivi che hanno fatto grande il made in Italy. Questo patrimonio non si è accumulato per caso. Gli istituti tecnici, da cui escono i profili determinanti per lo sviluppo del sistema produttivo, sono stati la chiave del boom economico italiano del dopoguerra e continuano a rappresentare un asset strategico per il nostro Paese anche nel nuovo scenario dell’economia globale del XXI secolo.

Se l’Italia vuole uscire dalla crisi e rimanere tra i Paesi socialmente ed economicamente più avanzati, deve mantenere il proprio primato nei settori produttivi che costituiscono il made in Italy. Per raggiungere questo obiettivo è dunque essenziale non solo conservare, ma sviluppare e aggiornare continuamente le competenze e i saperi connessi alla cultura produttiva di questi settori. Se l’Italia disperdesse tali saperi, perderebbe, nel medio termine, anche i suoi primati. A differenza di altri modelli europei che discriminano precocemente tra gli studenti destinati al proseguimento degli studi universitari e quelli avviati al lavoro, l’istruzione tecnica italiana, distinta sia dai licei che dalla istruzione professionale, consente ai giovani che la scelgono sia il proseguimento degli studi che l’inserimento in azienda, dotandoli allo stesso tempo di una base culturale scientifica solida e di un utile pragmatismo tecnologico.

Eppure è del tutto insufficiente l’orientamento alla cultura tecnica. Famiglie e insegnanti non sempre sono messi in grado di cogliere i molti punti di forza di questo tipo di studi. Oggi in 80 città italiane 40mila studenti incontreranno gli imprenditori in occasione della XVI Giornata Nazionale Orientagiovani. Il “Vento della Tecnica” è il tema di questa giornata che ha scelto come sede centrale Vicenza. Una scelta che intende puntare i riflettori sul Veneto industriale e manifatturiero, una Regione leader anche nel rapporto scuola-impresa, nei laboratori, negli stage, nei tirocini e nella sperimentazione della nuova istruzione tecnica. Tra meno di un anno partirà la riforma dell’istruzione tecnica per la quale il mondo industriale si è mobilitato insieme con i migliori presidi. L’ultima iniziativa di grande rilevanza è quella del Club delle 15 Associazioni industriali a maggior presenza manifatturiera (nel loro insieme rappresentano il 31% dell’export italiano) che hanno adottato 15 istituti tecnici d’eccellenza.

Confindustria ha espresso una valutazione positiva sul regolamento dell’istruzione tecnica, per molti motivi: riduce gli indirizzi e i profili evitandone la frammentazione; dedica attenzione alle specifiche esigenze del mondo produttivo; istituisce i Dipartimenti per favorire la professionalità degli insegnanti e coordinare gli insegnamenti affini; dà vita ai Comitati tecnico-scientifici per aprire la scuola al mondo imprenditoriale; promuove la flessibilità formativa; potenzia gli stage e l’alternanza scuola-lavoro; introduce le scienze integrate e l’insegnamento di una disciplina tecnica in lingua inglese. Nelle prossime settimane, dopo il recente parere favorevole delle Regioni e l’atteso parere delle Commissioni Parlamentari, il regolamento potrà ottenere dal Consiglio dei Ministri la definitiva approvazione. In sintonia con le Regioni chiediamo che non vengano ridotte le ore di laboratorio nel primo biennio e che la riforma parta solo dalle prime classi, per assicurare un decollo efficace.

È davvero essenziale affrontare alcuni problemi per “mettere in sicurezza” la riforma ed evitare ulteriori rinvii o partenze disordinate che avrebbero conseguenze molto negative. Innanzitutto la diffusione dell’informazione sulle caratteristiche dei nuovi istituti tecnici, con l’orientamento degli studenti e delle famiglie. Poi l’attivazione di piani di aggiornamento e di formazione dei docenti e la trasformazione delle attuali rigide “classi di concorso”, per renderle coerenti con la riforma. L’avvio di un sistema di monitoraggio e verifica degli esiti di apprendimento. L’investimento nella modernizzazione dei laboratori, che può vedere un’ampia partecipazione delle imprese, andrà collegato ad un progetto di valorizzazione della professionalità dei docenti, soprattutto nelle discipline scientifiche e tecnologiche. E qui arriviamo a quello che considero il punto cruciale: gli istituti tecnici decolleranno con successo solo se ci saranno il consenso e l’impegno dei docenti. Sono loro che potranno preparare giovani che si appassionino alla scienza e alla tecnologia, al “gusto del fare”, a patto che vengano offerte loro occasioni di miglioramento professionale e una ritrovata motivazione.

La formica Italia nel suo piccolo va lontano

(secondo marco Fortis de Ilsole240re)

formicheLa produzione industriale italiana a settembre è diminuita del 5,3% dopo essere cresciuta del 5,8% ad agosto: due dati di segno opposto ugualmente anomali e un po’ “ballerini”, come capita spesso con i valori mensili de-stagionalizzati.

Ciò che conta è che nel terzo trimestre 2009 la crescita consolidata sia stata del 4% sul trimestre precedente: un dato che appare più in linea anche con le recenti indicazioni del superindice dell’Ocse, molto positive per l’Italia.

Tuttavia la ripresa mondiale, pur estendendosi geograficamente e settorialmente, resta ovunque debole ed è opportuno interrogarci sul perché.
A un anno dall’inizio della crisi, i debiti delle famiglie rimangono ancora molto elevati in quei paesi che maggiormente hanno contribuito a innescare la “bolla” immobiliare e finanziaria e poi a farla deflagrare. Ci concentriamo su quattro di essi: Stati Uniti, Gran Bretagna, Irlanda e Spagna.
Questi paesi sono stati definiti «cicale», contrapponendoli all’Italia, che pur con i suoi problemi strutturali può essere considerata fondamentalmente una «formica», insieme ad altre nazioni dell’Europa continentale come Germania e Francia, ugualmente caratterizzate da un basso indebitamento privato e da una maggiore propensione verso l’economia “reale”.
Secondo gli ultimi dati disponibili della Fed, a giugno 2009 i debiti delle famiglie americane, anche se in lieve flessione, risultavano ancora pari a circa 31.600 euro per abitante.
A luglio 2009, secondo la Bce, lo stock di prestiti erogati dalle banche alle famiglie inglesi ammontava a 23.300 euro, mentre a settembre la stessa cifra era di 19.200 euro pro capite per le famiglie spagnole e di ben 32.800 euro per gli irlandesi, contro uno stock di debiti delle famiglie italiane equivalente a poco più di 8mila euro per abitante.
Dunque, le famiglie americane e irlandesi restano tuttora indebitate grosso modo quattro volte di più di quelle italiane e le famiglie spagnole e inglesi 2,5-3 volte di più.

Queste cifre, che non sono molto diverse in altri paesi “cicala” anglosassoni o del Nord Europa (come Islanda, Olanda, Australia, eccetera), unitamente all’aumento della disoccupazione spiegano perché i consumi privati di mezzo mondo occidentale sono ancora fermi, così come gli
investimenti in edilizia.

Questa situazione frena, di fatto, il commercio internazionale e così anche le economie dei grandi paesi esportatori ( tra cui Germania, Giappone, Italia) rendendo la ripresa globale oltremodo
faticosa. La congiuntura mondiale non può trarre particolare giovamento nemmeno dagli imponenti investimenti pubblici della Cina, che stanno nettamente privilegiando gli acquisti di beni e servizi nazionali in un’ottica essenzialmente protezionistica, con scarse ricadute sulle importazioni dall’estero.
La recente pubblicazione delle previsioni infra-annuali della Commissione europea, nonostante tutti i limiti che in questi momenti d’incertezza presentano gli esercizi previsionali, ci permette di fare il punto sulla crisi mondiale e italiana e sulle possibili dinamiche della ripresa. Nelle ultime settimane, infatti, si sono prospettati per l’Italia tempi quasi biblici per ritornare ai livelli di attività economica pre-crisi.

Questa eventualità negativa è stata presentata quasi come fosse un problema squisitamente italiano, derivante dalle nostre intrinseche “fragilità” e da una politica economica anti-ciclica da alcuni ritenuta troppo debole. La realtà è invece molto più complessa e in alcuni casi assai diversa da quanto comunemente si creda, almeno per ciò che concerne alcune componenti del Pil e altre variabili nel cui caso saranno invece gli altri paesi, e non l’Italia,a impiegare tempi molto lunghi per riprendersi.
Consideriamo le stime e le previsioni della Commissione europea sull’arco 2007-2011 e svolgiamo un confronto comparato tra l’Italia e i quattro già citati paesi “cicala” sulla base di otto fotografie della crisi economica che analizzeremo nel seguente ordine: Pil, investimenti in costruzioni,
consumi privati, investimenti in macchinari e attrezzature, esportazioni di beni e servizi, spesa pubblica, aumento del rapporto debito pubblico/Pil, aumento del tasso di disoccupazione.

1. Prodotto interno lordo. Analogamente a quanto è avvenuto in altri due grandi paesi esportatori come Giappone e Germania, rispetto al 2007 il Pil dell’Italia è caduto sinora di più rispetto a quello dei paesi “cicala” (Irlanda a parte, che è sprofondata in un autentico abisso) e nel 2011 saremo ancora 3-4 punti percentuali sotto i livelli del 2007, grosso modo come la Spagna, mentre Gran Bretagna e Usa faranno un po’ meglio (sempre che le previsioni azzecchino). Va rilevato che il nostro Pil era già calato nel 2008 dell’1% mentre quelli degli altri paesi no. Questa flessione anticipata è stata spesso portata a esempio come un chiaro sintomo di debolezza strutturale del nostro paese. Ma non è così, anzi è vero esattamente il contrario. Infatti, nel 2008 il calo del Pil italiano è stato fortemente influenzato dalla crisi mondiale dell’edilizia che ha agito molto negativamente e prima che su altri paesi sulle nostre esportazioni. Queste ultime hanno letteralmente “preavvertito” l’arrivo del crack immobiliare globale, essendo l’Italia leader tra gli esportatori di beni per la casa: dalle piastrelle ai mobili, dai rubinetti agli elettrodomestici, dai marmi alle macchine per costruzioni. Un nostro punto di forza ha finito così paradossalmente col penalizzarci. Dal 2008 in poi la dinamica del Pil italiano risulta invece abbastanza simile a quella della Gran Bretagna e migliore di quella della Spagna.

2. Investimenti in costruzioni. Qui gli indicatori sono pessimi per i paesi “cicala” e decisamente migliori per la “formica” Italia. È stato proprio il crollo del settore immobiliare nei paesi anglosassoni e in Spagna a scatenare la crisi,amplificata dall’effetto subprime. Il disastro è stato
tale che nel 2011 gli investimenti in costruzioni in Spagna saranno ancora del 30% inferiori a quelli del 2007 e più bassi di oltre il 60% in Irlanda. La previsione della Commissione europea di un importante recupero nel 2010-2011 dell’edilizia americana, per il momento ancora ai minimi storici
per ciò che riguarda l’avvio di nuovi cantieri residenziali,a nostro avviso potrebbe rivelarsi un po’ troppo ottimistica.

3. Consumi privati. Mentre i paesi anglosassoni e la Spagna, dopo la crescita drogata dai debiti privati degli scorsi anni, sono costretti a rivedere drasticamente i loro modelli di sviluppo, la spesa delle famiglie italiane sta resistendo bene in questa crisi epocale. E poiché in tutti i paesi avanzati i consumi privati hanno un peso rilevante nel Pil e inoltre costituiscono un indicatore sensibile del benessere interno, è importante che su questo fronte l’Italia stia reagendo positivamente. La Commissione prevede che entro il 2011 (dunque non in tempi biblici) i consumi privati
italiani avranno quasi completamente recuperato i livelli del 2007, dopo una caduta dell’1,5% nel 2009 e una ripresa sia nel 2010 che nel 2011. Viceversa, nel 2009 i consumi sono diminuiti del doppio rispetto all’Italia in Gran Bretagna, più del triplo in Spagna e di oltre cinque volte in
Irlanda. Nel 2010, inoltre, i consumi continueranno a flettere negli Stati Uniti (sarà il terzo anno consecutivo, nonostante le imponenti erogazioni di assegni statali per sostenere la spesa dei cittadini). E lo stesso avverrà negli altri paesi “cicala”, sicché nel 2011 i consumi degli inglesi saranno ancora inferiori di oltre l’1% rispetto ai livelli del 2007, quelli degli spagnoli di oltre il 5% e quelli degli irlandesi del 9 per cento.

4. Investimenti in macchinari. L’Italia dovrebbe reagire meglio dei paesi “cicala” anche al tracollo degli investimenti in macchinari e attrezzature, risultando seconda per capacità di recupero soltanto agli Stati Uniti (ammesso che le previsioni della Commissione Ue non siano anche in questo caso troppo ottimistiche per l’America). Nel 2011 il nostro paese avrà parzialmente riavvicinato i livelli d’investimento del 2007 in una misura di oltre 10 punti superiore alla Spagna, di quasi 20 punti in più rispetto alla Gran Bretagna e di oltre 20 punti in più rispetto all’Irlanda.

5. Esportazioni. La nostra specializzazione nell’export di beni durevoli per la casa e di beni di investimento ci penalizza rispetto ai paesi “cicala”, le cui esportazioni, oltre a pesare di meno nei loro Pil, sono diminuite in misura inferiore rispetto alle nostre. Il caso dell’Italia è simile a quello
del Giappone e della Germania, altri importanti paesi esportatori particolarmente colpiti dalla paralisi dei consumi e degli investimenti altrui. Nel 2009 l’export italiano calerà in volume del 20% (in Giappone addirittura del 27%). Ciò evidenzia come in Italia, diversamente da quanto è
accaduto nei paesi “cicala”, la crisi globale si sia scaricata più sulle imprese che sulle famiglie. I tempi della ripresa saranno perciò cruciali: se non saranno troppo lunghi, potremo evitare che la crisi delle nostre imprese esportatrici si trasformi anche da noi in una crisi delle famiglie,
attraverso un eventuale aumento eccessivo della disoccupazione.

6. Spesa pubblica. Un’altra delle ragioni per cui il Pil dei paesi “cicala” sta diminuendo in misura inferiore di quello italiano, almeno fino a questo momento, è che tali paesi stanno facendo molta spesa pubblica anti-ciclica e probabilmente continueranno a farla in misura rilevante anche in futuro, rischiando di “scassare” le finanze statali. Nel 2011 la spesa pubblica della Spagna in volume sarà così del 14% superiore a quella del 2007 e quella degli Stati Uniti del 13%, mentre quella della Gran Bretagna, dopo essere cresciuta del 7% sino al 2010, dovrebbe diminuire leggermente nel 2011 (ma sarà davvero così?) a un livello del 5% superiore a quello del 2007. Per contro nel 2011 la spesa pubblica italiana risulterà solo del 2,5% maggiore di quella del 2007.

7. Debito pubblico. L’incremento della spesa pubblica e i salvataggi dei sistemi bancari graveranno sempre di più sui conti pubblici dei paesi “cicala”, mentre l’Italia, avendo il terzo debito pubblico del mondo, dovrà mantenere una politica di rigore. Il nostro rapporto debito/Pil aumenterà
più per il calo del Pil che per l’aumento della spesa. Sicché nel 2011 in Italia tale rapporto (117,8), pur preoccupante, sarà superiore di 14 punti a quello del 2007 (103,5), mentre notevolmente maggiore sarà il peggioramento dell’indebitamento pubblico in Spagna (+38 punti rispetto al 2007) e Gran Bretagna (+44 punti), per non parlare dell’Irlanda (+71 punti in quattro anni!). Per gli Stati Uniti disponiamo solo della previsione dell’Fmi per il 2010 che tuttavia già prevede per il prossimo anno un peggioramento del rapporto debito/Pil di 32 punti rispetto al 2007.

8. Disoccupazione. Grazie al meccanismo degli ammortizzatori sociali (che ha sin qui permesso a molte nostre imprese di sopravvivere in “apnea”) anche il mercato del lavoro ha tenuto molto meglio in Italia che nei paesi “cicala”.
E nel 2011 l’incremento cumulato del nostro tasso di disoccupazione rispetto al 2007 sarà sensibilmente inferiore a quello dei paesi anglosassoni e della Spagna.

L’ultima beffa del lavoro precario “Apri la partita Iva o ti licenzio”

Dopo anni di contratti a termine, i lavoratori sono trasformati in “fornitori” Non cambia nulla: stesso orario e stesso ufficio. Ma l’impresa risparmia oltre il 33%

ROMA – L’ultima frontiera della precarietà si chiama “partita Iva”. Altro che indice dell’indomabile vitalità imprenditoriale. Questa è tutta un’altra storia che non riguarda neanche un po’ le seducenti formule del capitalismo personale. Qui si parla di cocopro: collaboratori a progetto costretti a diventare titolari di “partita Iva” per non perdere il lavoro, anche se precario.

Difficile stimare quanti siano i lavoratori in transizione verso l’imprenditoria forzata. Nessuno l’ha fatto, ma non ci si sbaglia se si ipotizzano decine di migliaia di persone. Si vedrà meglio quando l’Inps renderà pubblici i numeri sui nuovi iscritti al Fondo Gestione Separata. Lì, dati del 2007, le “partite Iva” di professionisti non iscritti ad albi o associazioni erano circa 250 mila, 30 mila in più in un solo anno. Reddito medio intorno ai 15 mila euro, poco più di mille al mese. Dai web designer ai grafici pubblicitari; dai redattori delle grandi case editrici ai lobbysti, fino all’antica, tradizionale, segretaria, imprenditrice di se stessa però. Tutti rigorosamente a mono-committenza, cioè fornitori di una sola azienda. Insomma, false “partite iva”.

Di certo questo è un altro capitolo della via italiana alla flessibilità, in cui con il concorso della Grande Recessione, l’obiettivo principale di molte aziende è quello di tagliare i costi per provare a sopravvivere.
Il fenomeno non è nuovo, va detto, ma con la crisi è riaffiorato dovunque, nel ricco settentrione terziarizzato come nella indolente area del lavoro para-pubblico romano. Ed è un fenomeno che spinge una categoria già debole ai livelli più bassi della scala della precarietà. “Le partite Iva diventano sostitutive dei cocopro”, commenta Patrizio Di Nicola, sociologo alla Sapienza di Roma, tra i più attenti studiosi dell’universo magmatico del lavoro precario. Questa è la verità.

 

A compiere il percorso da atipico a “libero professionista”, senza più nemmeno un accenno di diritti e di tutele, è ancora la generazione dei trentenni, l’ala marginale del mercato del lavoro.
Eppure questo pezzo di knowledge worker, lavoratori della conoscenza, intellettuali moderni, flessibili e innovativi, avrebbe dovuto rappresentare l’avanguardia di una sorta di neo- borghesia in una società post-industriale. Questa, a sua volta, avrebbe dovuto spingere verso un incremento della produttività e arrestare il nostro declino, sfruttando le nuove tecnologie. La realtà è stata diversa e si è tradotta soprattutto in un progressivo e malcelato tradimento nei confronti di una generazione di giovani professionisti.

A quella generazione appartiene anche Astrid D’Eredità, archeologa, tarantina di nascita, romana di adozione. Racconta che da piccola provava quasi invidia per chi possedeva la tessera di Metro, il grande supermercato all’ingrosso per i professionisti, gli imprenditori, le partite Iva, appunto.
Quei capannoni blu con scritta in giallo a lettere maiuscole erano – per lei – il simbolo delle libertà di impresa, del dinamismo aziendale, dell’individualismo contro il pigro tran tran dell’impiego fisso. Entrare o meno al Metro faceva la differenza. Era uno spartiacque quasi di classe sociale, certo di modelli culturali. “Ora – dice – ho la partita Iva, ma non sono mai entrata al Metro”. Ecco. Lei aveva un contratto di collaborazione finché lavorava in Puglia, poi a Roma ha scoperto che senza partita Iva non si fa nulla nel suo settore. Si deve essere “imprenditori di se stessi”, come si diceva agli albori della flessibilità. Racconta: “La frase tipica che ti rivolgono è questa: ovviamente bisogna che lei si apra una partita Iva… “. E si comincia: non più dipendenti o para-dipendenti, bensì fornitori. Sulla carta. Perché nei fatti non cambia nulla: stesso stipendio (ma senza contributi), stesso orario, stesso vincolo di subordinazione. In alcuni contratti l’ipocrisia rompe ogni indugio e precisa a scanso di equivoci: “Il fornitore non avrà i benefici previsti per i dipendenti, inclusi assicurazioni, pensione, assistenza e altri benefit riservati agli impiegati”. E ancora: “Le suddette attività hanno carattere professionale autonomo e non potranno mai essere configurate come rapporti di lavoro subordinato o di collaborazione”.

Osserva Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil: “Sono due le motivazioni principali che spingono in questa direzione: il costo per le aziende che si riduce all’osso e, poi, la totale liberà d’azione sulle partite Iva che possono essere lasciate a casa, prima, e riprese, poco dopo”.
L’Italia è la patria del lavoro autonomo: il 27% dell’occupazione complessiva, il triplo rispetto alla Danimarca e il Lussemburgo, il doppio rispetto alla Germania, la Gran Bretagna, la Francia e l’Olanda. Ci supera solo la Grecia. Tutto questo, tra l’altro, ha aiutato anche l’anomalia delle partite Iva. Si calcola, per esempio, che con le partite Iva le aziende risparmino circa il 25% rispetto a un contratto di collaborazione e oltre il 33% rispetto a un contratto di dipendenza.

Carla S., 31 anni, pubblicitaria genovese ha provato a resistere perché non ha mai ambito a far parte del celebrato universo delle partite Iva. Da tre anni lavora in una delle più grande agenzie pubblicitarie del capoluogo ligure. Prima cocopro rinnovato, quindi contratto a termine. Poi la crisi arriva in azienda. Il consulente del lavoro suggerisce al titolare di ricorrere ai contratti di apprendistato. Ma Carla, che comunque tornerebbe indietro all’inizio della sua carriera, è troppo “vecchia” per l’apprendistato perché ha appena superato la soglia dei trent’anni. “Sono una classica bambocciona, vivo con i miei genitori. Ma non potrei fare altrimenti con 1.100 euro al mese”.
Anche per questo all’inizio ha detto no alla partita Iva e, in questo caso, al lavoro a casa. Poi ha quasi accettato, ha aperto una trattativa, ha chiesto il doppio per le spese che dovrà sostenere. Le hanno replicato che lo stipendio resta uguale e che dovrà anche formare le due nuove apprendiste. A Carla, come succede spesso, l’azienda ha proposto di aiutarla nel tenere la contabilità. Queste sono le aziende “più illuminate”, come le ha chiamate Andrea Bajani nel suo cinico racconto “Mi spezzo ma non m’impiego”, uscito qualche anno fa per Einaudi.

Anche ad Andrea Brutti, trentenne consulente ambientale, hanno imposto di diventare “imprenditore”, dopo anni di contratti di collaborazione a progetto. “C’è un problema di costi”, mi dissero. Per un po’ ha fatto anche il doppio lavorista con partita Iva: un po’ lobbysta per una associazione ambientalista un po’ impiegato in un’altra. Poi ha dovuto mollare il secondo lavoro perché gli orari erano incompatibili. Nemmeno un contratto a tempo determinato è ormai un’alternativa. “Con 800 euro al mese per 35 ore di presenza a settimana non mi conviene”. Questa è la trappola della partita Iva.

Infine c’è Federico D., manager di 39 anni, trasformato in pochi frettolosi minuti in partita Iva, dopo otto anni da dirigente in una multinazionale di servizi ospedalieri. “Era un venerdì pomeriggio quando venni chiamato dal mio capo. Ho una notizia cattiva e una buona, mi disse velocemente. La cattiva è che il tuo contratto si trasforma in consulenza, la buona è che il trattamento netto migliora. Poi mi mise in mano la lettera di licenziamento”. Ma cos’è cambiato? “Nulla. Stesso orario, stesso ufficio, stesso lavoro. Ma per l’azienda io non sono più un costo, bensì un investimento”. Una finzione contabile. Già.

Da repubblica 9/11/09

Alle famiglie aiuti in mille rivoli. Il bilancio degli interventi

BONUS FAMIGLIA
In base ai dati del ministero dell’Economia sono state accolte 4.711.558 richieste ed erogati 1.582 milioni di euro (su 2, 4 miliardi preventivati), per un valore medio del bonus di 315 euro. secondo il Caf Acli, 54% delle risorse sono state assegnate a nuclei con un solo componente

SOCIAL CARD – 650mila – Sono le carte ricaricate finora suite 820mila tessere emesse. La somma totale della spesa arriva fino a 338 milioni. Le prime stime indicano che appena i 15% delle card è andato a famiglie con figli. Il Governo sta valutando l’ipotesi di allargare le maglie della card (bambini fino a 6 anni e redditi più alti)

BONUS ELETTRICO – 1 milione – Sono le famiglie in condizioni di disagio economico già inserite nel ciclo di fatturazione delle bollette elettriche. Il valore del bonus va da 58 euro per una famiglia di uno o due persone a 130 euro per più di 4 persone. Le domande totali arrivate da gennaio a ottobre sono state l, 2 milioni

BONUS NUOVI NATI – l5000 euro- Le banche finanziano fino a 5mila euro a tassi vantaggiosi da restituire in 5 anni alle famiglie con bebè nati ne2009, 2010 e 2011. Il tasso è fissato a 50% di quello effettivo medio: il 4,8% ai tassi correnti. Le operazioni sono garantite dal fondo per le politiche della famiglia fino a 75%

BONUS GAS – 15% lo sconto sulle bollette del gas che si pub richiedere dal 15 dicembre (ma con effetto retroattivo a tutto 2009) dalle persone con un Isee non superiore a 7.500 euro o non superiore a 20mila euro per le famiglie numerose o più figli a carico Il bonus gas è cumulabile con il bonus elettrico

L’obiettivo dichiarato era quello di aiutare le famiglie più povere ad arginare la crisi. Ma il bilancio, a quasi un anno dal battesimo e quando sono ormai chiusi i termini per presentare le richieste, racconta una storia diversa: il bonus famiglia, a dispetto del nome, ha premiato soprattutto i nuclei con una persona (al massimo due)

Secondo le statistiche del ministero dell’Economia e delle finanze, le domande accolte sono state oltre 4, 7 milioni, che hanno ricevuto in media 300 euro ciascuna. Importa che corrisponde appunto alla quota una tantum assegnata alle famiglie composte da due persone, con un reddito non superiore a 17.000 euro per anno. A dominare la platea dei beneficiari, secondo le proiezioni del Caf Acli su un campione di 300mila domande passate al setaccio, sarebbero i nuclei mono-personali, con il 54% delle richieste accolte, seguiti da quelli con due persone (27% di erogazioni). Un bel distacco dalle famiglie di almeno tre elementi: il bonus è andato ad appena i7% delle coppie con un figlio, al 6% di quelle con quattro componenti e al 2% di quelle con cinque. Un risultato atteso, per stessa ammissione di Carlo Giovanardi, sottosegretario con delega alla famiglia: << Il bonus è stato sbilanciato a favore di single e coppie senza figli». E anche la social card-che avrebbe dovuto raggiungere anziani poveri e famiglie con bambini fino a tre anni, ha aiutato solo primi: secondo il Caf Acli su 65omiLatessere ricaricate, l’85% è stato assegnato a over 65, mentre appena il 15% ha raggiunto i nuclei con bambini. Ma allora è vero che la famiglia è dimenticata da un sistema di welfare incapace di fornire i strumenti adeguati per proteggerla dai rischi e per rispondere a nuovi bisogni, come sostengono in molti?

Di sicuro c’è attesa per nuovi interventi da parte del Governo, che potrebbe varare un pacchetto famiglia in occasione del via libera alla Finanziaria 2010: tra le ipotesi un nuovo bonus e una social card estesa ai bambini fino ai sei anni e con più ampi requisiti di reddito. <<Dal presidente Berlusconi aggiunge Giovanardi -ho avuto conferma dell’impegno per introdurre ïl quoziente familiare, compatibilmente con la situazione economica, e di sicuro per l’anno prossimo il fondo per le politiche della famiglia avrà la stessa d dotazione di quest’anno, pari a 186 milioni di euro». In ogni case), ci sono misure <<che stanno dando buoni risultati- puntualizza il sottosegretario -: per esempio, il bonus elettrico, che agevola le famiglie numerose» con risparmi annui fino a 130 euro per i nuclei composti da oltre 4 persone. E che ha raggiunto un milione di famiglie dall’inizio del 2009. A partire dal 15 dicembre,poi, sarà possibile richiedere il bonus gas: un taglio de15%% circa sulla bolletta, da applicare ai consumi del prossimo inverno, ma anche con effetto retroattivo a tutto il 2009. Inoltre, è appena partite il bonus bebè per i nati nel 2009, 2010 e 2011. La formula prevede un finanziamento bancario fino a 5mila euro, da restituire in cinque anni a tassi vantaggiosi. << Per quest’anno-chiarisce Giovanardi i potenziali beneficiari sono 500mila». Ma non mancano le critiche. <<Le risorse – rileva Daniela Del Boca, docente di economia politica all’Università di Torino e direttore del centro Child – sono poche (85 milioni di euro in tre anni, ndr) e non sarà certo la possibilità di avere un prestito a tassi agevolati a incentivare nuove nascite».

Secondo Del Boca bisognerebbe puntare sui servizi di cura: << Più asili nido insieme a sgravi fiscali renderebbero davvero meno costosa la scelta di avere figli». Nonostante gli oltre 40mila posti creati dal 2005 l’Italia resta lontana dall’obiettivo europeo fissato nel Trattato di Lisbona, che impone di garantire a un bambino su tre i servizi per la prima infanzia entro il 2010. Per ora ne beneficia uno su sette.<< L’assegnazione delle risorse alle regioni per potenziare le strutture per la prima infanzia – precisa Giovanardi -è proseguita anche quest’anno, con la messa in campo di 100 milioni, cui se ne sommano altri 18 per creare posti all’interno dei nidi della pubblica amministrazione».Perché quando si parla di sostegno alla famiglia- aggiunge Giovanardi – è necessario considerare tutti i livelli: statale, regionale e comunale, con l’auspicio che <<vengano sempre garantiti i servizi essenziali». Secondo un’indagine di Legautonomie gli interventi dei comuni si concentrano proprio sui nidi d’infanzia, insieme a refezione scolastica, assistenza pre e post- scuola e trasporto pubblico, mentre alcune regioni prevedono bonus famiglia e tagli alle spese annuali per una serie di servizi che pesano sul bilancio domestico.
Data :09/11/09, dal sole24ore

Solidarietà attiva ai lavoratori Eutelia, contro le speculazioni e le crisi indotte dall’expo.

SOS Fornace

Rho, 4 novembre 2009. Il Centro Sociale Fornace di Rho esprime solidarietà
ai lavoratori dell’ex Eutelia di Pregnana che da questa notte hanno
iniziato l’occupazione dello stabilimento e l’assemblea permanente davanti
ai cancelli della sede. A partire da oggi sosterremo attivamente questa
vertenza fornendo il nostro supporto in tutte le forme che i lavoratori
riterranno utili.

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