I dolori del junior web editor

Una laurea e vari corsi di aggiornamento. Un lungo apprendistato precario nell’editoria. Poi, dopo anni, un’assunzione, altrettanto precaria ma pagata cara e salata, con riduzione di tempo libero e di autonomia. Il nostro quarto intervistato analizza con estrema lucidità il suo lavoro, apparentemente "creativo", viceversa soggetto a una rigida prescrittività.

 


Descrivi il tuo lavoro a qualcuno che non lo conosce
Attualmente lavoro come copywriter presso un’agenzia di comunicazione digitale. In particolare scrivo testi ottimizzati (cioè redatti in base a “parole chiave” stabilite con il cliente) per i motori di ricerca su Internet. Si tratta di un lavoro al 90%  ripetitivo, alternato da lavori “più creativi” consistenti nella stesura di articoli promozionali di vario argomento (pubblicati su siti, forum, social network, ecc.) e nell’ideazione di copy pubblicitari per lanci di prodotto e/o per semplici banner online.

Descrivi il tuo contratto a qualcuno che non lo conosce
Per molti anni ho avuto contratti a progetto e/o con cessione di diritti d’autore e ritenuta d’acconto per varie realtà aziendali. Prima dell’attuale impiego, per esempio, ho lavorato per due anni e mezzo presso una casa editrice alla redazione di una enciclopedia multimediale, con contratto cocopro (rinnovato tre volte) e compenso a ore (cioè in base alle ore effettivamente lavorate ogni mese in ufficio). Nell’attuale posto di lavoro, dopo due contratti cocopro e circa 18 mesi di impiego precario, ho da poco ottenuto un contratto a tempo indeterminato, inquadrato nel settore Terziario-Confcommercio, terzo livello. A 36 anni compiuti ho finalmente ottenuto un minimo di garanzie e un trattamento economico un po’ più decente (con tredicesima, quattordicesima, tfr). Tuttavia non posso dirmi soddisfatto: primo perché, dopo tanti anni di lavoro e di studio, sono ora diventato un novello “junior web editor”, secondo perché prendo 1.150 euro al mese netti, terzo perché essendo la mia azienda sotto i 15 dipendenti assunti (e in più si sta scorporando in società più piccole) non ho la garanzia della “giusta causa” in caso di licenziamento, quarto perché il mio tempo libero si è ridotto al lumicino e quinto, più importante, perché sono consapevole che tantissimi altri lavoratori e lavoratrici come me non potranno mai aspirare al mio stesso “privilegio”.   

Quanto (e cosa) hai studiato per fare ciò che fai?
Sono laureato in lettere moderne, ho effettuato un paio di stage non retribuiti, un corso di scrittura creativa per corrispondenza e un corso finanziato dal fondo sociale europeo per web editor. Continuamente leggo e cerco di aggiornarmi in senso lato.

Quante ore lavori al giorno?
Sia prima da cocopro sia adesso da dipendente lavoro otto ore al giorno piene in ufficio, con pausa pranzo di un’ora dalle 13 alle 14. Mentre nella mia azienda vale la prassi di effettuare lavoro straordinario non retribuito (sembra incredibile ma è così!), io calcolo la mia giornata lavorativa dalle 7,30 circa di mattina (ora in cui esco di casa per prendere il treno) alle 19,45 della sera (ora in cui rientro a casa). E’ azzardato dire che il mio lavoro mi impiega ogni giorno almeno 12 ore? Cioè 5×12=60 ore settimanali?!

Quanti, più o meno, sono nelle tue condizioni, nella tua realtà? Stessa tipologia di contratto o diversa? Quante tipologie di contratto?
Nella mia agenzia siamo in circa una trentina. Non ho ancora ben chiaro l’organigramma, ma a grandi linee posso dire che vi sono circa una decina di dipendenti assunti, una decina di contratti a progetto, 3-4 collaboratori con partita iva, 3 soci fondatori di maggioranza e alcuni soci di minoranza. Inoltre, come anticipato, stanno creando delle nuove società più piccole e in prospettiva l’organico dovrebbe crescere, ma le garanzie e le retribuzioni non credo proprio. Inoltre, quando ne hanno bisogno, si avvalgono di collaboratori esterni che (almeno per quanto riguarda il mio reparto) sono pagati (molto poco) con ritenuta d’acconto.

Dove sta il valore del tuo lavoro, per te? Dove sta il valore del tuo lavoro, per loro?
Il valore del mio lavoro per me, purtroppo, sta essenzialmente nello stipendio mensile. Non credo in quello che faccio e vivo la mia condizione lavorativa come frustrante perché mi “ruba” tempo ed energie preziose che potrei impiegare in altro modo. Nonostante le pressioni molto forti (esterne, ma anche interne legate alla propria autostima), non ho aspirazioni di carriera e non m’interessa riuscire ad “esprimermi creativamente” sul lavoro. Perché so benissimo che la mia creatività (qualunque ne sia il grado) andrebbe soltanto ad incrementare il loro profitto. Naturalmente svolgo il mio lavoro bene, diligentemente, altrimenti non mi pagherebbero. Ecco, vendo la mia forza lavoro intellettuale (peraltro a un prezzo molto basso, stabilito da loro) e faccio in modo che non abbiano da ridire sul mio lavoro. Ma certamente non cerco di “dare di più” in modo propositivo.
Credo che il valore del mio lavoro per loro stia, insieme a quello di tutti gli altri colleghi, nel fatto che essi si possano presentare all’esterno come un’agenzia in grado di fornire una gamma completa di servizi specialistici (grafici, redazionali, di programmazione, di account, ecc…) a prezzi molto competitivi e strappare così alla concorrenza contratti da decine e centinaia di migliaia di euro sborsati da grossi committenti. Il mio contributo specifico in questo processo di valorizzazione non riesco a quantificarlo, ma sicuramente ha a che fare con una condizione di sottopagamento e con un apporto “creativo” o comunque intellettuale che loro riescono a moltiplicare per 100, 1.000 o chissà quanto in termini monetari e di immagine!

Che cosa stai provando a fare per combattere questa situazione?
Io cerco di parlare in ufficio con le persone di cui mi fido di più e a volte anche con quelle di cui non so se potermi fidare (naturalmente non parlo mai di queste cose con i capi o con i lacchè conclamati). Mettendo in chiaro, per quanto mi è possibile, il punto di vista dell’azienda e quello di chi ne è un dipendente. Dicendo semplicemente che gli interessi in gioco non coincidono, non possono coincidere: a noi le briciole e un calcio nel sedere quando non hanno più bisogno di noi, a loro il guadagno e la facoltà di scegliere sulle nostre teste. Inoltre cerco sempre di mettere sullo stesso piano “garantiti” e precari, poiché la distinzione è spesso labile e poiché solo unendosi si può ottenere qualcosa. Infine cerco di partecipare a iniziative di sensibilizzazione fuori dal posto di lavoro. E cerco di non farmi condizionare da tutti i condizionamenti (economici, culturali, politici, corporativi, eccetera) che operano a tutti i livelli nei posti di lavoro e nella società.

Quanti dei tuoi colleghi sono d’accordo con te?
Credo due o tre. E comunque non sono “del tutto” d’accordo con me. E’ un ambiente strano, dove gente preparata, laureata, si lascia condizionare troppo facilmente o per paura, o per indifferenza o perché non ci vede nulla di male in quello che fa e in come è organizzato il lavoro. L’unica cosa a cui sono un po’ più sensibili sono i soldi, ma poi credono che siccome il datore di lavoro ti paga è anche giusto che tu gli metta a disposizione tutto il tempo di cui lui ha bisogno, comprese ore di lavoro straordinarie non pagate. Ho sentito di gente che si è recata in ufficio anche di domenica! Credo che l’ideologia dominante del “siamo una grande famiglia” sia stata davvero interiorizzata dalla maggioranza dei miei colleghi. Anche prima della crisi economica globale in cui siamo precipitati era così, e quindi il ricatto del lavoro “giustifica” la situazione fino a un certo punto. Inoltre incide anche il senso di solitudine in cui molti vivono, l’illusione di identificarsi con il proprio lavoro, una certa superficialità di fondo e la mancanza di alternative praticabili.

La soluzione si potrebbe trovare se…
Banalmente si potrebbe dire se tutto il mondo del lavoro rivendicasse compatto una distribuzione equa della ricchezza prodotta collettivamente e del tempo di lavoro impiegato per produrla. Cioè meno ore di lavoro per tutti, fine della disoccupazione, fine del precariato e salari in linea con il costo reale della vita e delle esigenze familiari e/o dei singoli. Ma ciò significherebbe anche fine dei privilegi e di tutto l’apparato di sfruttamento e di repressione che si può sintetizzare con il termine capitalismo. Più realisticamente, dal basso, bisogna mettere in moto un lavorio da formichine che crei legami, interessi condivisi, fratellanza e fiducia fra i subalterni e che piano piano metta in discussione di fatto tutto l’apparato economico e di potere che condiziona le nostre vite. E’ una ricerca quotidiana, una serie estenuante di tentativi e di fallimenti, ma non è detto che alla fine non possa dare buoni frutti. L’importante è cercare, tentare e non arrendersi al conformismo e a quella che sembra una situazione cristallizzata, immodificabile.    

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