Quando il lavora è un problema di testa….

Crescono in “malati d’ufficio”

Sono quattro milioni gli italiani che si ammalano o soffrono per colpa del lavoro. La precarietà conta molto, ma tra chi ha problemi psicologici c’è chi non fa carriera, chi si ritiene vittima di soprusi da parte del datore di lavoro, chi si sente mobbizzato dai colleghi e chi è costretto a svolgere una mansione diversa da quella che sperava per capacità e titoli. Lo sostiene l’Ispesl

Si sentono inadeguati, soffrono di ansia e di depressione: gli italiani che si ammalano o soffrono per colpa del lavoro sono quattro milioni di persone. I disturbi psichici nascono dalla percezione di essere stressati, di non reggere ritmi sempre più veloci, di essere sottovalutati o di non essere all’altezza dell’incarico svolto. E sbaglia chi pensa che tutto dipenda dall’avere o meno un posto fisso o il contratto a tempo indeterminato. La precarietà conta molto, ma tra i ‘nuovi malati’ c’è anche chi non fa carriera, chi si ritiene vittima di soprusi da parte del datore di lavoro, chi si sente mobbizzato dai colleghi e chi è costretto a svolgere una mansione diversa da quella che sperava per capacità e titoli. A loro si aggiunge l’esercito dei precari, spesso costretti ad accettare anche condizioni capestro pur di avere un minimo di salario.

L’immagine di un Paese di lavoratori sofferenti arriva dall’Istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (Ispesl) nel rapporto che sarà presentato in occasione della XI Giornata nazionale di informazione sulla promozione della salute nei luoghi di lavoro’.

“Il ritmo di lavoro è stressante, siamo nella società dei turni di 24 ore – – spiega Sergio Iavicoli, direttore del dipartimento medicina del lavoro dell’Ispesl – e a rimetterci è la salute mentale; questo fenomeno ormai rappresenta un’emergenza sociale. Basti pensare che una persona su quattro attraversa, almeno una volta nella vita, un episodio di depressione importante, che richiederebbe l’intervento del medico”.

I numeri dell’Ispesl parlano chiaro: dieci milioni di lavoratori percepiscono il proprio lavoro come un fattore di rischio per la salute; tra questi, 8 milioni e 706mila rilevano fattori di rischio per la salute fisica, mentre 4 milioni e 58mila vedono anche il proprio equilibrio psichico messo a rischio dall’attività lavorativa. Oltre 2 milioni e 797mila, inoltre, individuano nel lavoro le cause dei propri problemi di salute.

In generale, le donne, con il 5,4%, mostrano una maggiore esposizione degli uomini (4,1%) a fenomeni di prepotenza e discriminazione. Le classi di età più esposte al rischio di sofferenze di natura psicologica risultano essere quelle centrali (35-44 anni). “I problemi psicologici vanno letti anche in termini di denaro – aggiunge Iavicoli –. Dallo stress infatti deriva l’assenteismo che in tutta lUnione europea ha un costo sociale che si aggira intorno ai 20 miliardi di euro”.

La depressione e lo stress non sono le uniche patologie. Ci sono gli attacchi di panico, le fobie e l’ansia. Ma cosa succede a chi si trova a soffrire per colpa del lavoro? “C’è una percezione diversa della realtà – spiega ancora Sergio Iavicoli – . C’è la speranza di un trovare un lavoro che troppo spesso non arriva o che non è all’altezza delle aspettative”. Così capita a chi magari ha una laurea e una specializzazione e si ritrova a svolgere un lavoro inadeguato ad esse.

Del fenomeno si parlerà nel corso della ‘XI Giornata nazionale di informazione sulla promozione della salute nei luoghi di lavoro’, prevista per martedì 16 febbraio. Tre gli obiettivi principali dell’iniziativa: promuovere e sostenere una migliore consapevolezza del valore delle persone impiegate in azienda; coinvolgere dipendenti e datori di lavoro in azioni per il benessere lavorativo e il miglioramento organizzativo ed economico delle prestazioni dell’azienda; diffondere buone pratiche al lavoro e stili di vita sani.ù

da repubblica.it

I lavoratori e la trappola dell’arbitrato

chaplin2L’ articolo 35 della Costituzione, primo comma, recita: «La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni». Questa speciale tutela è resa necessaria dal riconoscimento che in tutte le fasi del rapporto di lavoro – l’ assunzione all’ inizio, poi le condizioni in cui si effettua la prestazione lavorativa, sino alla cessazione del rapporto per licenziamento o altri motivi – il lavoratore rappresenta dinanzi al datore di lavoro la parte sostanzialmente più debole.

Prosegui la lettura »

La cultura professionale è un bene primario

Da Il Sole 24 Ore, del 17 novembre,

scritto dal vicepresidente di confindustria per l’economia

Una recente indagine dimostra che il 67% dei laureati italiani ignora che siamo il secondo Paese manifatturiero in Europa dopo la Germania. È un dato che fa riflettere e ha una spiegazione: negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a due fenomeni contraddittori. Da un lato l’impresa, per vincere la competizione internazionale, ha investito sui talenti e l’incidenza dei tecnici sul totale degli occupati è raddoppiata, passando dal 12 al 22%, una quota superiore addirittura a quella tedesca. Dall’altro lato, negli stessi anni, è avvenuto il sorpasso degli iscritti ai licei sugli studenti che scelgono l’istruzione tecnica. E oggi, nonostante la crisi, mancano all’appello 76mila tecnici che le industrie richiedono ma non trovano (erano 181.00 prima della crisi). I dati Excelsior mostrano inoltre l’insoddisfazione di più di metà delle imprese per la qualità dei diplomati tecnici.
La cultura tecnica dell’Italia è un patrimonio inestimabile. Abbiamo il primato in molti settori produttivi che hanno fatto grande il made in Italy. Questo patrimonio non si è accumulato per caso. Gli istituti tecnici, da cui escono i profili determinanti per lo sviluppo del sistema produttivo, sono stati la chiave del boom economico italiano del dopoguerra e continuano a rappresentare un asset strategico per il nostro Paese anche nel nuovo scenario dell’economia globale del XXI secolo.

Se l’Italia vuole uscire dalla crisi e rimanere tra i Paesi socialmente ed economicamente più avanzati, deve mantenere il proprio primato nei settori produttivi che costituiscono il made in Italy. Per raggiungere questo obiettivo è dunque essenziale non solo conservare, ma sviluppare e aggiornare continuamente le competenze e i saperi connessi alla cultura produttiva di questi settori. Se l’Italia disperdesse tali saperi, perderebbe, nel medio termine, anche i suoi primati. A differenza di altri modelli europei che discriminano precocemente tra gli studenti destinati al proseguimento degli studi universitari e quelli avviati al lavoro, l’istruzione tecnica italiana, distinta sia dai licei che dalla istruzione professionale, consente ai giovani che la scelgono sia il proseguimento degli studi che l’inserimento in azienda, dotandoli allo stesso tempo di una base culturale scientifica solida e di un utile pragmatismo tecnologico.

Eppure è del tutto insufficiente l’orientamento alla cultura tecnica. Famiglie e insegnanti non sempre sono messi in grado di cogliere i molti punti di forza di questo tipo di studi. Oggi in 80 città italiane 40mila studenti incontreranno gli imprenditori in occasione della XVI Giornata Nazionale Orientagiovani. Il “Vento della Tecnica” è il tema di questa giornata che ha scelto come sede centrale Vicenza. Una scelta che intende puntare i riflettori sul Veneto industriale e manifatturiero, una Regione leader anche nel rapporto scuola-impresa, nei laboratori, negli stage, nei tirocini e nella sperimentazione della nuova istruzione tecnica. Tra meno di un anno partirà la riforma dell’istruzione tecnica per la quale il mondo industriale si è mobilitato insieme con i migliori presidi. L’ultima iniziativa di grande rilevanza è quella del Club delle 15 Associazioni industriali a maggior presenza manifatturiera (nel loro insieme rappresentano il 31% dell’export italiano) che hanno adottato 15 istituti tecnici d’eccellenza.

Confindustria ha espresso una valutazione positiva sul regolamento dell’istruzione tecnica, per molti motivi: riduce gli indirizzi e i profili evitandone la frammentazione; dedica attenzione alle specifiche esigenze del mondo produttivo; istituisce i Dipartimenti per favorire la professionalità degli insegnanti e coordinare gli insegnamenti affini; dà vita ai Comitati tecnico-scientifici per aprire la scuola al mondo imprenditoriale; promuove la flessibilità formativa; potenzia gli stage e l’alternanza scuola-lavoro; introduce le scienze integrate e l’insegnamento di una disciplina tecnica in lingua inglese. Nelle prossime settimane, dopo il recente parere favorevole delle Regioni e l’atteso parere delle Commissioni Parlamentari, il regolamento potrà ottenere dal Consiglio dei Ministri la definitiva approvazione. In sintonia con le Regioni chiediamo che non vengano ridotte le ore di laboratorio nel primo biennio e che la riforma parta solo dalle prime classi, per assicurare un decollo efficace.

È davvero essenziale affrontare alcuni problemi per “mettere in sicurezza” la riforma ed evitare ulteriori rinvii o partenze disordinate che avrebbero conseguenze molto negative. Innanzitutto la diffusione dell’informazione sulle caratteristiche dei nuovi istituti tecnici, con l’orientamento degli studenti e delle famiglie. Poi l’attivazione di piani di aggiornamento e di formazione dei docenti e la trasformazione delle attuali rigide “classi di concorso”, per renderle coerenti con la riforma. L’avvio di un sistema di monitoraggio e verifica degli esiti di apprendimento. L’investimento nella modernizzazione dei laboratori, che può vedere un’ampia partecipazione delle imprese, andrà collegato ad un progetto di valorizzazione della professionalità dei docenti, soprattutto nelle discipline scientifiche e tecnologiche. E qui arriviamo a quello che considero il punto cruciale: gli istituti tecnici decolleranno con successo solo se ci saranno il consenso e l’impegno dei docenti. Sono loro che potranno preparare giovani che si appassionino alla scienza e alla tecnologia, al “gusto del fare”, a patto che vengano offerte loro occasioni di miglioramento professionale e una ritrovata motivazione.

Mercato del lavoro. Le nuove prove per le organizzazioni dei lavoratori

di Giulio Sapelli (Docente ci Storia Economica Università di Milano)
Corriere della Sera Economia – lunedì 5 ottobre 2009

Il governo sud coreano annuncia misure eccezionali per frenare la forza delle organizzazioni sindacali. Dopo il grande sciopero generale deI 1989, che spezzò per sempre l’immagine di una Corea del Sud patria dei tassi salari, questa volontà è un’assoluta novità nel panorama mondiale. Ma nel contempo è un’eccezione. In Corea a rappresentare i lavoratori e la loro volontà di combattere contro le conseguenze della crisi economica mondiale che solo ora iniziano a preoccuparli veramente, sono i sindacati, grandi organizzazioni che, a imitazione dei loro confratelli giapponesi di prima della seconda guerra mondiale, si sono sviluppati con enorme rapidità.

Altrove il panorama è diverso. I lavoratori sono sì frastagliati quanto mai quanto a tipi di lavoro, dimensione d’impresa, età lavorativa, financo quanto a condizione famigliare (i single , per esempio, sono sempre più numerosi e quindi più disposti al rischio della lotta e dello sciopero, ma anche all’isolamento). Ma altrettanto lo sono, frastagliati, nelle forme di protesta contro la crisi. Ma tuttavia protestano perché il lavoro umano è meno elastico rispetto alla crisi: la persona umana non può essere fisicamente distrutta. Può essere certamente mutata nella sua capacità e nella sua competenza.

Ma per cambiare professione, mentalità, luogo di lavoro, occorre tempo, disponibilità estrema al cambiamento, occorrono risorse finanziarie, psicologiche, materiali e immateriali che non sempre sono nell’orizzonte di vita, la profonda e vera vita, dei lavoratori. Per questo essi sono oggi affetti da una sofferenza inaudita, siano o no occupati. Se lo sono temono per il domani, per loro e per le loro famiglie; se sono disoccupati sono distrutti dall’incertezza del futuro e dalla perdita di status. Certo questa tragedia era già nell’aria. Dovevamo prepararci. Viste ora dalla prospettiva della crisi le varie leggi sul lavoro interinale, a tempo, eccetera, che impediscono di farsi una famiglia, financo di realizzare la forza più potente dell’essere, ossia l’amore, quelle leggi, che non distruggevano fisicamente la persona lavoratrice, ma già la facevano e la fanno moralmente a pezzi, erano Ìe prime nuvole che annunciavano la tempesta del dolore sui lavoratori. Accettate e negoziate dai sindacati in tutto il mondo, i lavoratori, con quelle leggi, rifiutano oggi anche molte delle pratiche sindacali e ne inventano, invece, di nuove.

I più creativi sono, in tutto il mondo, i sindacati di base dei precari, i giovani, senza famiglia alle spalle, con una visione aperta della società del rischio che fa loro non rifiutare completamente la precarietà. Ma un conto è viverla in tempi di crescita economica e un conto è viverla quando c’è la crisi. Allora i] bicchiere della flessibilità è mezzo vuoto e non mezzo pieno e alla varietà lieta si sovrappone l’angoscia tetra e pericolosa per la salute mentale, prima che per il livello di vita materiale.

Gli Usa anche in questo caso si dimostrano il paese pi pluralista e migliore del mondo in cui vi è di tutto: si formano nuovi sindacati più combattivi e di base, si organizzano con l’All Cb gli immigrati e i clandestini.

Un fenomeno che pare inaudito in Europa. Il sindacato, negli Usa, come nei paesi scandinavi e in Australia, mentre contratta si preoccupa anche del welfare, non statale, ma autogestito dal basso. Perché questo è il nuovo orizzonte: la difesa del lavoro non potrà più passare solo per la contrattazione (e qui i sindacati continuano a essere indispensabili), ma anche per la creazione di nuove forme comunitarie di welfare che assumeranno anche forme di nuove unità economiche non capitalistiche. Un esempio? Le fabbriche autogestite argentine che indicano la giusta via per resistere alla crisi : fai da sé uniti nella lotta e nella costruzione di nuove soggettività attive sui mercati. La difesa dell’occupazione non potrà più passare solamente per la contrattazione. E i governi dovranno tenerne conto *** sono, invece, via per resistere alla crisi. I governi debbono sostenere senza soffocare queste esperienze, invece di attendere sino al giugno del 2010 come farà il G20, per discutere le proposte dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro di Ginevra! Se continueremo nell’indifferenza scoppierà un conflitto diffuso, inedito, che sommergerà molte delle nostre certezze e soprattutto molte delle nostre ignavie.