Lettera aperta al governo sul mercato del lavoro

Caro
Mario Monti e Ministri Tutti,

A marzo regalerete la riforma del mercato del lavoro mentre avete rimandato al 2013 il riordino del sistema iniquo e arretrato degli ammortizzatori sociali.
Il pacco Monti-Fornero  è un passaggio fondamentale nelle politiche di flessibilizzazione realizzate negli ultimi due decenni. I progetti alla base della riforma provengono tutti e tre dal Partito Democratico – Ichino, Damiano, Nerozzi alias Boeri – e sono un esempio di “ingegneria normativa” che porterà a 47 il numero di tipologie contrattuali utilizzate nella giungla della precarietà. Tutto cambia perché niente cambi, soprattutto per i precari.

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Il Rischio a chi non rischia

Il diritto del lavoro soffre di tre importanti contraddizioni e lacune, che da sempre si ripercuotono sulla classe produttiva più debole, ovvero con meno capacità reddituale, oltre che sulla collettività cui è affidato il compito di provvedere al sostentamento di quest’ultima in ipotesi di perdita del posto di lavoro.

Da un lato, vi è che il personale dirigente (preposto alla conduzione della azienda in cui operano) ed il personale operaio/impiegatizio, sebbene appartenenti alla stessa categoria contrattuale (quella dei lavoratori, spesso subordinati), sono assoggettati a parametri retributivi sproporzionati non solo in riferimento alla comparazione tra i valori da ciascuna categoria apportata alla vita e produttività dell’azienda (dirigente = operaio/impiegato), ma anche in riferimento all’effettivo valore di mercato in sé del dirigente apicale. Prosegui la lettura »

Secur-Flexibility, non Flex-Security

In Italia sei lavoratori su 10 non sono tutelati dall’art.18. E anche quando chi è garantito può finire vittima di un licenziamento collettivo. Solo dopo aver introdotto un reddito di base si potrà parlare di riforma del lavoro.

Una risposta ad Alesina e Giavazzi A leggere l’editoriale di Alesina e Giavazzi pubblicato sul Corriere della sera di domenica, uno spettro si aggira per l’Italia. È lo spettro dell’art. 18, causa di ogni male, in particolare della precarietà.

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L’Italia può scegliere: sostegno al reddito o guerra alla Germania?

Ogni volta che noi precari rivendichiamo l’esigenza di un reddito incondizionato che attenui le ingiustizie  che siamo costretti a subire da più di un decennio ci sentiamo rispondere continuamente che c’è la crisi, che mancano le risorse, che senza crescita non ci sono i soldi e così via.  Prosegui la lettura »

Spese militari, rivolta contro i supercaccia Costeranno allo Stato 13 miliardi di dollari

Già prenotati 131 caccia F35. Di Paola:«Sono indispensabili»
Protesta dei pacifisti e del vescovo di Pavia Giovanni Giudici

ROMA – Un coro sempre più squillante si leva da alcuni giorni contro le spese militari. Gruppi pacifisti, esponenti della Chiesa come il vescovo di Pavia Giovanni Giudici, e perfino l’Unione italiana sportivi, tutti concentrano i loro strali contro un bersaglio preciso: il programma Jsf, ideato per la produzione di un cacciabombardiere americano conosciuto con la sigla F35. Un jet supertecnologico che dovrebbe rimpiazzare per i prossimi 40 o 50 anni le flotte aeree di Stati Uniti e degli alleati.

LE SPESE ITALIANE – L’Italia si è impegnata ad acquisire 131 velivoli spendendo una cifra che, sia pure spalmabile in un ventennio, è colossale: circa 13, forse 15 miliardi di dollari. Secondo i detrattori, è «uno spreco scandaloso». E allora bisognerebbe cancellare l’accordo con la Lockheed Martin, che sta facendo i collaudi sui prototipi del velivolo? In altre parole, serve all’Italia un aereo di quel tipo? Certo che serve, replica l’ex ministro della Difesa Arturo Parisi (Pd). Serve «per difenderci da eventuali minacce esterne». Come sbarriamo le finestre delle case con le inferriate, dice Parisi, così dobbiamo dotarci dei mezzi adatti a proteggere il territorio nazionale. Non è solo un problema di sicurezza. Ne va di mezzo anche l’immagine del nostro Paese. «Per partecipare alle operazioni dell’alleanza di cui facciamo parte – osserva l’ammiraglio Marcello De Donno, ex capo di stato maggiore della Marina – è necessario mettere in campo strumenti adeguati. Altrimenti è inutile lamentarci se la Germania ci colonizza e siamo relegati alla periferia dell’Impero».

IL PARLAMENTO – Ma le missioni estere ricadono soprattutto sugli uomini dell’Esercito, ribatte Rosa Calipari (Pd) che fa parte della commissione Difesa della Camera. Allora meglio dotare loro di armamenti d’avanguardia. È intollerabile, secondo la Calipari, «che le strategie future e i sistemi d’arma siano decisi dal governo senza l’approvazione del Parlamento. Sul Jsf volevamo capire l’utilità, i costi. Ci è stato impossibile». Il programma Jsf (Joint strike fighter) nasce nel 1996. A Palazzo Chigi sedeva Romano Prodi, che decise di coinvolgere l’Italia nel progetto. Due anni dopo, con Massimo D’Alema premier, arrivò anche l’okay del Parlamento. Una scelta del centrosinistra condivisa dai successivi governi di centrodestra. Nel 2002 l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, attuale ministro della Difesa, come direttore nazionale degli armamenti siglò il primo memorandum d’intesa con gli americani. La firma sull’accordo definitivo la mise nel 2007 Giovanni Lorenzo Forcieri (Pd), sottosegretario alla Difesa con Parisi ministro. «Fu un ottimo accordo – ricorda Forcieri -. Prevede la costruzione in Italia di oltre 1200 ali del velivolo con la relativa tecnologia elettronica. Inoltre a Cameri, in provincia di Novara, sorgerà il centro per la manutenzione di tutti gli F35 acquistati dai Paesi europei».

LE VERSIONI – Il cacciabombardiere americano è concepito in tre versioni diverse: dovrebbe sostituire i Tornado e gli Amx dell’Aeronautica, ma anche gli Harrier della Marina sulla Cavour, perché una delle varianti permette il decollo breve e l’atterraggio verticale. Diventerà operativo non prima di 7, forse 8 anni. Un arco di tempo entro il quale gli aerei italiani vanno comunque sostituiti. Se si rinuncia all’F35, bisognerà pensare a una soluzione alternativa. Oppure, come suggerisce lo studioso Luigi Cancrini, rinunciare del tutto «perché non ci servono aerei da guerra». L’ammiraglio Giampaolo Di Paola, attuale ministro della Difesa, non ha nessuna intenzione di cancellare l’accordo con gli americani. Quando gli chiediamo se vanno presi tutti i 131 Jsf prenotati, lui risponde un po’ seccato: «Siete fissati coi numeri». Poi aggiunge che «il ridimensionamento non riguarderà solo il personale ma anche i mezzi. Quanti Jsf acquisiremo non lo so. Quel velivolo è comunque importante, è uno strumento con capacità fantastiche, ritengo che si debba investire sulle capacità, in che misura non sono in grado di dirlo, non posso fare numeri, 131 è una cifra che si riferisce ai programmi fatti all’inizio, ma ora va rivista».

Marco Nese