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pubblicato il 15.11.10
Il processo di Brescia che l'Italia dimentica
·
Mentre un governo crolla a pezzi, intere province s'inondano con danni inauditi, i media seguono con morbosa attenzione i torbidi sviluppi dell'omicidio di una quindicenne, la polizia prende a manganellate un sit in non violento che solidarizza con alcuni operai immigrati che protestano per i loro diritti, in una città di provincia, nella quiete ovattata di una stanza d'albergo piena di computer e tazze di caffè, otto persone stanno studiando da giorni centinaia di migliaia di pagine di documenti in formato digitale, per decidere di un delitto di 36 anni fa. Sembra l'inizio di un episodio della popolare serie investigativa Cold Case, ma sta succedendo davvero. Brescia, le donne e gli uomini della corte d'assise del tribunale locale, due togati e sei giurati popolari, dopo due anni di dibattimento, 150 udienze e migliaia di testimoni, il 9 novembre si sono ritirati in camera di consiglio per decidere le sorti di cinque imputati per concorso in una strage che ha ucciso 8 persone e ne ha ferite 102, il 28 maggio 1974. Tra gli imputati, un generale dei Carabinieri, Francesco Delfino. Un ex deputato, senatore e segretario dell'Msi, Pino Rauti. Due figure chiave dell'organizzazione eversiva neofascista Ordine Nuovo (costola del centro studi fondato da Rauti nel 1956), il medico Carlo Maria Maggi e l'orientalista, poi imprenditore, naturalizzato giapponese (il suo nome oggi è Roy Hagen) Delfo Zorzi: condannati e poi assolti per la strage di piazza Fontana.

Un ex militante missino legato agli ordinovisti, informatore del SID dal 1973 al 1977 col pittoresco
nome in codice "Tritone", Maurizio Tramonte. I carabinieri, le spie, la politica, l'eversione neofascista, i depistaggi, tutto vero, tutto pubblico, agli atti del processo: meglio della serie tv Romanzo Criminale (le stazioni sono invase di cartelloni pubblicitari dei nuovi episodi), eppure nessuno ci bada. Fuori dalla provincia di Brescia quasi nessuno ha parlato di questo processo, il terzo celebrato (dopo 5 istruttorie e 8 gradi di giudizio precedenti) per dare un nome ai responsabili e ai mandanti di uno dei più orrendi eccidi della "strategia della tensione": la bomba, collocata in un cestino dei rifiuti in piazza della Loggia, da sempre cuore della vita della ricca cittadina lombarda, esplose alle 10:12 del mattino nel mezzo di una pacifica manifestazione antifascista, organizzata per esprimere rifiuto e condanna della violenza eversiva dopo una sequela di episodi violenti di marca neofascista che da settimane turbavano la sicurezza della cittadinanza e della democrazia.
Fatto unico, esiste una registrazione dell'esplosione della bomba: avvenne nel mezzo del discorso del sindacalista Franco Castrezzati. Andate ad ascoltarlo (www.28maggio74. brescia. it/index. php?pagina=73): supera la fantasia di qualunque sceneggiatore. Abbiamo la voce orrenda di quella bomba, ma poco altro: i periti si sono dati ancora una volta battaglia sui pochissimi reperti disponibili per determinare la natura dell'esplosivo impiegato, perché la piazza, e con essa i resti dell'esplosione, fu improvvidamente (o scientemente?) lavata a poche ore di distanza dalla strage, su ordine della locale Questura. Si disse: per non turbare la serenità dei cittadini con la vista dei resti di un massacro. Ma ciò che rischiava di turbare la quiete delle coscienze era il sangue in terra o piuttosto la possibilità che - se non si fossero distrutte le prove e dirottate le indagini - emergesse la verità, penale e politica, sull'ennesima strage? Proprio il generale dei Carabinieri Delfino, che condusse le prime indagini, è imputato in attesa di giudizio, oggi, per concorso in strage.
Lontano dagli occhi, lontano al cuore e dalla mente: via il sangue dal selciato, via le cronache di un processo scomodo e perturbante dall'attenzione di un paese, che avrebbe invece tanto bisogno anche della verità su Brescia per ricostruire un rapporto di fiducia tra gli italiani e le istituzioni. Perché i molti volti dell'eterno Principe italiano, come l'ha chiamato il giudice Scarpinato, certi meccanismi (servizi segreti che proteggono i criminali anziché i cittadini in nome di "interessi superiori" o inconfessabili finalità politiche; servitori dello Stato infedeli) siano conosciuti, compresi e prima o poi, finalmente, disinnescati.
Attendiamo il dispositivo della sentenza. E ancor più, le motivazioni, che - anche in caso di assoluzioni - aggiungeranno importanti tasselli alla conoscenza storica dello stragismo neofascista. Ma ricordiamo alcune cose che prescindono dal contenuto della sentenza. Per quegli otto morti, oggi si giudicano solo imputati per concorso in strage. I depistaggi sono stati tali e tanti che, dopo 36 anni, non si può neanche cercare di sapere chi mise la bomba nel cestino quella mattina. L'autenticità e attendibilità delle centinaia di note informative riconducibili a "Tritone" è stata confermata. Se fossero state disponibili anche agli inquirenti dei precedenti processi, forse avrebbero permesso di identificarle, le mani che deposero la bomba. Nel processo, si sono delineate le responsabilità politiche e morali di uomini dell'Arma e del Sid. Servizi di sicurezza, si chiamano: ma sicurezza di chi? se non collaborarono coi magistrati nemmeno davanti a otto bare di cittadini innocenti uccisi nella pubblica piazza? In aula, c'era sempre Manlio Milani, in rappresentanza dei famigliari delle vittime. Dall'altra parte, nella gabbia, solo Tramonte (detenuto per altri reati).

Tra gli imputati, nemmeno coloro che hanno ricoperto incarichi pubblici di alto livello e cariche rappresentative, come Delfino e Rauti, hanno ritenuto di mettere mai piede nell'aula dove, faticosamente, si celebrava il rito democratico del processo. Non sono venuti a raccontare la propria verità, a guardare negli occhi le parti civili. In compenso, queste avevano accanto una squadra di avvocati, molti dei quali andavano tutt'al più alle elementari al momento della strage. Hanno affrontato un processo-monstre ammessi al gratuito patrocinio, raccogliendo idealmente il testimone delle persone che erano in piazza della Loggia quella mattina, perché credevano che la democrazia va difesa ogni giorno, con gesti insieme simbolici e concreti.

(15 novembre 2010)

Fonte: Repubblica on-line

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