Bergamo – E’ ormai sempre più chiaro l’orizzonte verso cui tendono le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro un orizzonte sempre più caratterizzato non solo dalla generalizzazione e istituzionalizzazione della precarietà e della intermittenza dei contratti lavorativi, ma anche dall’emergere in maniera sempre più intrusiva dello sfruttamento dei lavoratori attraverso il cosiddetto freejob, il lavoro semi o totalmente gratuito.
Dal pacchetto Treu all’ultima riforma del lavoro del ministro Poletti e al Jobs Act del governo Renzi, contratti atipici e a tempo determinato diventano la norma di assunzione per una percentuale sempre più consistente di lavoratori.
Data la condizione precaria come normalizzata, si assiste oggi ad una nuova forma di assogettamento del Lavoro al Capitale: Il lavoro viene sganciato totalmente (o quasi) da un qualsiasi tipo di remunerazione economica, diventando gratuito. Di conseguenza, non solo il lavoratore non percepisce la propria condizione di sfruttamento, ma la accetta ‘’volontariamente’’.
Ed è così che il significato tradizionale di ‘volontariato’ si modifica adeguandosi alle esigenze di un mercato del lavoro in crisi. Prima il volontariato era sinonimo di aiuto umanitario alle ‘fasce deboli’ della popolazione, disinteressato e, in fondo, di matrice cattolica; ora il concetto di volontariato diviene il lavorare consapevolmente in modo gratuito, o per una remunerazione non più economica ma, in un certo senso, ‘simbolica’ con l’obiettivo di poter aggiungere due righe nel curriculum.
Questo discorso vale in primo luogo per la fascia giovanile della popolazione, ma non solo. Come anche un lavoro sotto pagato possa rappresentare una ‘speranza’ per molti giovani, viene ben dimostrato dalla lettera che abbiamo ricevuto tempo fa sul servizio civile.
L’introduzione della componente di ‘volontarietà’ del lavoro (gratuito) non fa che aggravare ulteriormente la sottomissione del lavoro alle leggi del capitale, smantellando le conflittualità e rivendicazioni che potrebbero nascere nei posti di lavoro. E’ chiaro che un discorso di questo tipo ha come fine ultimo quello di sgonfiare conflittualità ‘verticali’ a favore di quelle‘orizzontali’: competitività, egoismo e arrivismo diventano le parole d’ordine del nuovo paradigma produttivo.
La dicotomia e lo scontro tra ‘occupati’ vs ‘disoccupati’, ‘fannulloni’ vs ‘start-up’, ‘attivati’ vs ‘neet’ (acronimo di Not (engaged) in Education, Employment or Training) diventano strumentali agli interessi del capitale: la disoccupazione diviene una ‘colpa’ soggettiva, per cui ‘rimboccati le maniche!’, ‘inventati un lavoro’ e renditi occupabile, a costo di lavorare gratis per il padrone di turno.
Questa logica viene cristallizzata nel modello Expo.
Anche a Bergamo, il comune ha recentemente indetto una campagna per trovare 250 volontari che accolgano i visitatori in città in occasione del maxi evento dell’esposizione universale prevista a Milano dal 1° maggio. All’annuncio hanno risposto subito moltissime persone di tutte le età: molti i giovani, ma non sono mancati anche adulti e qualche anziano. È evidente come il problema della disoccupazione colpisca trasversalmente tutte le fasce della popolazione, ma in modo particolare, ça va sans dire, la fascia giovanile.
Il grande evento, che avrebbe dovuto portare decine di migliaia di nuovi contratti, in realtà ha garantito solamente circa 4000 assunzioni precarie e circa 18.000 volontari, come già abbiamo avuto modo di scrivere in altre occasioni.
Occupabilità e la Youth Guarantee
Con il termine occupabilità si definisce la capacità delle persone di essere occupate o di saper cercare attivamente, di trovare e di mantenere un lavoro: in altre parole la spendibilità del lavoratore in un mercato del lavoro flessibile, concorrenziale e sempre più in crisi.
La Strategia Europea per l’Occupazione indica nell’occupabilità un obiettivo da raggiungere per incrementare l’ingresso e il reinserimento dei lavoratori in-occupati e disoccupati nel mondo del lavoro, con particolare riferimento alla fascia giovanile. Questo si concretizza, per esempio, nell’implementazione delle politiche attive del mondo del lavoro e dei circuiti di formazione professionale.
In un contesto come quello Italiano, dove queste misure sono inesistenti e i centri per l’impiego svolgono una funzione pressoché inutile e residuale, l’obiettivo dell’occupabilità diviene la scusante per un intensificarsi dello sfruttamento del lavoro vivo e della precarietà, oltre che un’ occasione di nuovo business per imprese e agenzie interinali.
Esempio lampante di ciò è la recente misura europea per il sostegno all’occupazione giovanile: la Youth Guarantee.
Per risolvere il problema della disoccupazione giovanile nei paesi in cui essa è presente con i tassi più elevati (>25%), l’UE ha messo a disposizione, attraverso il Fondo sociale europeo, finanziamenti consistenti: per l’Italia, il cui tasso di disoccupazione giovanile ha superato il 43%, sono previsti 1,5 miliardi di euro.
Quest’operazione mira in particolare ad aumentare l’occupabilità di quei giovani che non lavorano e non studiano, i Neet, consentendo un loro inserimento nel mondo del lavoro.
La stessa categoria di Neet è in realtà, in numeri, strategicamente ‘gonfiata’: la maggior parte dei cosiddetti Neet è in realtà occupata in un settore dell’economia che non conosce crisi ma che anzi è in costante aumento: il lavoro sommerso o nero.
Le criticità della Youth Guarantee sorgono però nel momento in cui questi fondi vengono distribuiti.
Il sistema degli incentivi compreso nella Garanzia Giovani si compone di tre operazioni: l’accompagnamento al lavoro, i tirocini e i ‘bonus occupazionali’.
Per quanto riguarda l’accompagnamento al lavoro, ogni agenzia ottiene una remunerazione per ciascun giovane inserito nel mondo del lavoro attraverso contratti a tempo determinato, indeterminato, a somministrazione o apprendistato. Si tratta però di agenzie private, il cui obiettivo è proprio quello di far incontrare domanda e offerta di lavoro e, su questo, lucrare. Per queste agenzie, sarà un gioco da ragazzi far rientrare i propri clienti che rispettano le caratteristiche nello strumento Garanzia Giovani e intascare gli incentivi: continueranno insomma a svolgere il proprio lavoro, non più però con gli incentivi dati dall’impresa per ogni giovane assunto, ma con finanziamenti pubblici europei.
Lo stesso vale per i ‘bonus occupazionali’, fondi pubblici dati alle imprese ‘meritevoli’ di aver assunto un giovane con un contratto dalla durata di almeno sei mesi, incentivo che aumenta se si raggiungono i dodici mesi o il contratto a tempo indeterminato; contemporaneamente, però, grazie al Job Act, l’impresa non avrà più vincoli per il licenziamento nei primi tre anni di assunzione.
All’interno della Garanzia Giovani sono poi previsti dei rimborsi per ogni mese di tirocinio avviato. Come per le altre due misure, i tirocini, i cui oneri sono sempre stati a carico delle imprese, diventano spesati con fondi pubblici. Guardando alle statistiche recenti del progetto Garanzia Giovani nella regione Lombardia, la misura si traduce in pochi contratti a tempo determinato, pochissimi a tempo indeterminato, molti apprendistati e tantissimi tirocini, stage, servizi civili, leve civiche e lavori volontari, tutti semi-gratuiti o totalmente gratuiti.
Ovviamente il risultato immediato della Garanzia Giovani sarà quello di ‘drogare’ le statistiche sulla disoccupazione giovanile, che sembrerà, solo apparentemente, in diminuzione ma che a lungo termine rimarrà in realtà costante e strutturale.
Viene spontaneo chiedersi quindi cosa si intenda con il termine ‘Garanzia’, se essa si traduce nella pratica in contratti semi gratuiti dalla durata di pochi mesi o, al massimo, di un anno. Che utilità può dunque avere una misura di questo genere, se non quella di aumentare i profitti di chi sulla disoccupazione ci guadagna, dai padroni alle agenzie interinali, non incidendo minimamente sulla disoccupazione, ma anzi andando a contribuire ulteriormente alla condizione di precarietà giovanile.