Magari avessimo letto il Manzoni! Era ancora inizio marzo, quando professorini e professoroni dalle colonne di vari quotidiani suggerivano agli studenti di rimanere calmi e leggersi i capitoli sulla peste de I promessi sposi. Magari l’avessero fatto loro, in primis, avrebbero evitato il consiglio e avrebbero cominciato a tremare sul serio. Magari qualcuno che guida le sorti di questo Paese l’avesse fatto, forse ci saremmo risparmiati un carico di sofferenze indicibile, perché letti oggi, a mesi di distanza, all’inizio della Fase 2, il quadro delineato dal Manzoni ha molto da dire su come è stata gestita l’emergenza sanitaria, almeno in bergamasca.
Le pagine sono effettivamente celeberrime (e come detto, più celeberrime che lette), contenute nei capitoli XXXI e XXXII, laddove l’autore, abbandonando la finzione del dilavato autografo dell’anonimo, apre un’ampia digressione storica, basata su ricerche documentaristiche (innanzitutto il Ripamonti e il Tadino) concernenti i territori di Lecco, Milano e Bergamo, al fine di puntualizzare una notizia succinta, ma sincera e continuata, di quel disastro. Sono queste le pagine, come osserverà un suo commentatore, il Getto, in cui Manzoni prova a sostituire il romanzesco di tanti romanzi storici, al vero dei fatti positivi, servendosi della lucida e terribile eloquenza che deriva dai documenti dell’epoca. Ma oltre che essere vera (sincera) la notizia deve essere anche continuata, ossia lo scrittore si propone di cogliere le connessioni fra gli eventi, fra i tempi, le circostanze, al fine di mettere in luce che la sciagura (la peste) si è tramutata in disastro a causa delle responsabilità degli uomini. D’altronde, al di là di alcune considerazioni sulla Provvidenza divina che (quasi) tutto ripara e riaggiusta (non dimentichiamo che il finale del romanzo, il famoso sugo della storia, non è risolutivo, al contrario apre a contraddizioni e problematicità), la Storia, per Manzoni, è sempre la storia dei comportamenti dell’uomo. Muovendo quindi da brevi frasi lapidarie in apertura del capitolo, la peste …invase e spopolò e qualche riga dinnanzi, per tutta adunque la striscia di territorio percorsa dall’esercito, s’era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla strada….poi famiglie, lo scrittore insiste sull’informare il lettore intorno al comportamento assunto dalle autorità, respingendo, almeno per lo spazio dei due capitoli, i personaggi del racconto lontano, come polvere nel vento.
La scansione del tempo del racconto, snocciolata con laconica lentezza, La peste era già entrata in Milano…E le grandi angosce non erano ancora venute…poi l’avvento di un fante sventurato e portator di sventura… ed infine il lazzaretto, dove la popolazione, quantunque decimata ogni giorno, andava ogni giorno crescendo…, è infine riassunta in un’ultima frase, dolente e tragica: In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea ammette per isbieco un aggettivo. Poi non vera peste: vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto.
Su questo fondale si staglia la riflessione sull’umana follia, il celebre delirio: la prospettiva dominante è, certo, quella moralista, dato che si sta parlando di Manzoni, e visto che per Manzoni il “vero” è la materia sorgiva per comprendere i vari aspetti della realtà, dal piano politico a quello civile,, alla psicologia del singolo. In questa prospettiva, vengono riaffermati i grandi contrasti fra istintualità e ragione, fra ignoranza e cultura, fra apparenza e realtà, fra potere e servizio, fra parola intesa come menzogna o come veicolo di verità.
Cosicché per il governatore di Milano, benché già alcuni cadaveri mostrino le insegne funeste di lividi e bubboni, l’impegno per la guerra è preminente, come la festa per l’erede al trono. Il tribunale della sanità spedisce un commissario che certifica sulle prime che non ci si trova di fronte alla peste, successivamente con leggerezza, incapacità e inefficienza, dispone delle bullette, ma con grave ritardo. Il senato e il consiglio dei decurioni, prima non credono ai medici, poi non sanno più come organizzarsi ed, infine, con le grida, danno indiretta credibilità alle dicerie delle unzioni. Fra i medici, o meglio i patafisici come allora erano chiamati, sono pochi quelli che subito si accorgono del contagio e operano nel rischio, la maggior parte, per demagogia e stoltezza, evitano di denunciare apertamente il diffondersi della malattia. Il laborioso popolo delle città, che sui commerci vivono, infine, per paura delle confische, corrompe i funzionari della sanità, manifesta il proprio odio nei confronti di chi più avverte del pericolo, crede piuttosto nei venefici occulti.
Alla lineare progressione del capitolo XXXI, segue il vortice del capitolo XXXII, il ritmo della narrazione si fa frenetico, assorbe in sé, disgregandole, le varie strutture della vita associata e della vita affettiva degli uomini: il sentire faceva l’effetto del vedere…la collera aspira a punire…e la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza furore…Il vincolo sociale si frantuma, cedono le istituzioni che si concentrano, assieme al popolo, nella caccia agli untori. Nemmeno la scienza più autorevole (il Tadino) o la più sacra autorità (il Federigo) ne rimangono immuni. Drammatico è lo spettacolo della città ridotta ad un solo mortorio, atroce è il naufragare del povero senno umano che cozzava co’ fantasmi creati da sé. Di fronte allo sfacelo istituzionale, solo opere di carità privata, marginale, interstiziale, cercano di ritessere i legami lacerati: allora furono i cappuccini, secondo le fonti del Manzoni.
È un’idiozia, ovviamente, utilizzare queste pagine come se fossero una carta velina attraverso cui confrontare le pagine della nostra cronaca recente. La storia non si ripete mai e gli intenti di Manzoni erano ben diversi. Eppure se avessimo letto, se avessero letto, queste pagine quanti #bergamocorre, #milanocorre ci saremmo evitati? Si sarebbe presa per tempo la decisione di chiudere le zone produttive di Alzano e Nembro? Da quante feste di carnevale in oratorio, quando le strade erano già chiuse, ci saremmo salvati? Quante persone avrebbero evitato di esporsi al contagio? Quante intolleranze e maledizioni verso runners ed escursionisti della domenica avremmo evitato di sentire? Quando si è trattato di prendere una decisione fra il far procedere l’economia e salvare delle vite, cosa avremmo detto? Come avremmo valutato i segni di polmoniti interstiziali? Ed, infine, almeno un’ultima domanda dovuta al fatto che Manzoni si studia fra i banchi: ma la scuola a che è servita?
Non è possibile dirlo ed è, forse, puramente capzioso porsi queste domande. Tuttavia un insegnamento possiamo trarlo: la Storia non è fatta di eventi e fatalità, ma dai comportamenti che gli uomini hanno agito e tali comportamenti vanno analizzati e giudicati. La letteratura per Manzoni era questo, il nostro agire politico è questo. In questa prospettiva, la cultura, agendo da filtro del reale, assolve il dovere sociale e civile che le è connaturato.
Pertanto, ora che stiamo strisciando fuori dalla crisi sanitaria, proprio ora che ci stiamo salvando, vanno analizzate, comprese e giudicate le responsabilità di chi ha governato, di chi ha fatto pressioni sui politici, di chi ha esposto una società alla disgregazione. Non si tratta di chiedere teste, ma di chiedere verità e giustizia, poiché solo attraverso il “vero” e il “giusto”può ridarsi un nuovo patto sociale.
Un’ultima annotazione, per concludere, ricordandosi della mancata zona rossa in bergamasca. Fra gli storici utilizzati da Manzoni vi fu un tal Ghirardelli, notabile bergamasco del ‘600. Attraverso il suo Il memorando contagio seguito in Bergamo l’anno 1630, lo scrittore redigé tutta una sezione del Fermo e Lucia, che descriveva la peste a Bergamo, soppiantata nell’edizione quarantana, seppur mantenendo un richiamo all’autore bergamasco (raro però e sconosciuto, quantunque contenga forse più roba che tutte insieme le descrizioni più celebri di pestilenze). Fra le varie “robe” si descrive l’avvento della peste a Bonate Sotto, dove ad essere colpita fu in primo luogo una ricca signora con la sua domestica. Di fronte alla diagnosi fatta dai patafisici, la popolazione reagì violentemente, per paura che il paese fosse chiuso e traffici e commerci non potessero più svolgersi. Probabilmente, il fatto che la peste fosse considerata un castigo divino, mentre loro si sentivano innocenti esacerbò la situazione. Di fatto i patafisici modificarono la diagnosi fatta e il paese continuò a rimanere aperto. Quale fu il risultato? Quasi due terzi della popolazione morirono. A Bottanuco, a qualche chilometro di distanza, i primi casi furono immediatamente isolati ed il paese si salvò.