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pubblicato il 30.09.09
Izzo, Guido, Esposito: il mito della violenza
·
sabato 31 maggio 2008
Izzo, Guido, Esposito: il mito della violenza
Erano insieme al San Leone Magno, istituto privato romano
letture: 1622

Roma: È di poche ore fa la notizia che Gianni Guido, uno dei massacratori del Circeo, ha ottenuto la scarcerazione anticipata rispetto alla pena trentennale alla quale era stato condannato. Pena che era già uno sconto rispetto all'ergastolo iniziale.
Gianni Guido è libero da aprile, ma già da prima, dopo aver avuto la possibilità di laurearsi in carcere, godeva di una semilibertà che gli consentiva di lavorare con rientro coatto a fine giornata.
Guido, Izzo, Ghira: nomi che fanno ancora tremare, e indignare. Ragazzi della Roma "bene", in realtà belve affamate di sangue. Quasi che la noia si possa curare a sangue e cocaina.
Una storia di trent'anni fa, eppure molto attuale per certi aspetti. La cronaca dei nostri giorni non ci risparmia atti di estrema violenza, certo, non solo nei confronti delle donne, ma soprattutto contro di loro. Quello che più spaventa è la giovane età di molte delle vittime e dei loro aguzzini. Come se quella noia, una volta abbattuta a colpi di playstation, abbia ormai bisogno di emozioni più forti.
Sulla vicenda e sul contesto sociale nel quale ha avuto origine ho trovato l'articolo che segue. Affinchè ci aiuti ad aprire gli occhi su alcuni segnali che, se colti in tempo, aiutano a fermare la deriva di efferata violenza.

"ROMA - A scuola terrorizzavano i compagni per vincere a calcio, ma il giovedì andavano sempre a messa.
Piccoli e cattivi. Piccoli bastardi. È sgradevole, è sbagliato scrivere cose così su dei ragazzi nemmeno maggiorenni, ma queste sono le parole e - in queste parole - c'è tutto il ricordo e ancora la paura che si portano dietro i loro compagni di classe. Angelo Izzo e Gianni Guido erano infatti nella stessa classe: sezione A, liceo classico, istituto privato San Leone Magno. Andrea Ghira, no: lui andava al liceo Giulio Cesare, un liceo classico di rango, ma pubblico. Sono luoghi vicini: da piazza di Santa Costanza basta percorrere una strada in salita, e poi risalire Corso Trieste. Basta chiudere gli occhi, dicono oggi certi loro compagni di scuola, e te li rivedi davanti al bar Tortuga. Sbruffoni, arroganti, molto fascisti. Il bar sta ancora lì. Gli aperitivi sono sempre squisiti.
I compagni di scuola dei boia del Circeo chiedono di restare anonimi. «Ghira è latitante, no?...». Un chirurgo estetico, un notaio. Nomi e cognomi celebri, come quelli dei loro papà. Trent'anni fa avevano iscritto i loro rampolli nell'istituto privato più esclusivo di Roma - una scuola bella, pulita e illuminata bene, dove la retta mensile, all'epoca, e siamo agli inizi degli anni Settanta, raggiungeva quasi i due milioni di lire - dove nessun genitore immaginava lontanamente ciò che la sorte, il destino, avessero deciso contemporaneamente: infilare nella stessa classe due ragazzi come Angelo Izzo e Gianni Guido e poi dargli, per compagni e amici di istituto, un altro paio di pargoli come Gianluigi Esposito e Damiano Sovena.
Gianluigi Esposito frequentava il liceo scientifico e tutti se lo ricordano per aver militato in ciò che restava del terrorismo nero e per essere poi evaso, addirittura in elicottero, dal carcere romano di Rebibbia. Damiano Sovena era invece bravissimo nei tornei di calcio, ma se provate a scavare nella memoria del suo compagno di banco - un alto funzionario, in pensione, della Banca d'Italia - lui vi racconterà un'altra storia: la storia di quella volta che, in piazza Euclide, Damiano Sovena fu centrato da due colpi di pistola e alla fine del racconto c'è, resiste ancora la frase che Sovena, in un misto di follia ed esaltazione, disse all'infermiera mentre gli toglieva la flebo: «C'è la mia foto sui giornali?».
Erano piccoli e cattivi e assolutamente fuori di testa: per questo, l'allora capo dei giovani missini romani, il grande e temuto capo del Fronte della Gioventù, Teodoro Buontempo, oggi deputato della Repubblica, gli aveva ordinato di stare lontano dalle sezioni e loro avevano accettato, evitando di andarsi a sedere nei bar che i «pariolini», i ragazzi della Roma bene e nera, abitualmente frequentavano: il bar di piazza Euclide e quello di piazza delle Muse. Loro non avevano protestato: forti con i deboli, ma vigliacchetti con i forti. Senza reagire, cominciarono così a rintanarsi al bar Tortuga, davanti al liceo Giulio Cesare, dove pure erano tenuti inutilmente d'occhio dai poliziotti in borghese e tra loro c'era anche l'agente Franco Evangelista , quello che chiamavano «Serpico» e che poi, anni dopo, fu ammazzato da altri fascisti armati, da un commando dei Nar guidato da Giusva Fioravanti.
Restano scene memorabili e scioccanti: Ghira che, appena sedicenne, arriva a bordo della Jaguar rosa pallido del papà. E Izzo che, pure senza patente, parcheggia la sua moto Kawasaki 750 (modificata). Ghira, di solito, scendeva poi dalla Jaguar tenendo al guinzaglio un alano nero. Un cane che lui bastonava prima di uscire di casa e che, perciò, arrivava davanti al Tortuga sbavando inferocito. Guido, che della compagnia era il più stupidotto, s'atteggiava lasciando intravedere, sotto al giubbotto di pelle nera, il calcio di una pistola. Dovete immaginarveli vestiti così: con i pantaloni jeans larghi in fondo, a «zampa d'elefante» (marca Ufo). Con i mocassini color cuoio a punta. Con le basette lunghe. Dovete immaginarveli sicuri di sé: ecco, bisogna dire che una buona dose della loro forza gli veniva dalla quasi certezza di poterla fare franca. Guidare senza patente, spacciare cocaina, picchiare: c'era sempre l'avvocato di papà, a difenderli.
Il padre di Ghira era considerato il re delle impalcature metalliche. Il padre di Izzo era un importante costruttore edile. Gianni Guido aveva i soldi da parte di madre, figlia di una nota famiglia di armatori napoletani. Quanto poi agli altri amichetti di banda e di liceo, tutti ben messi: Giancarlo Parboni Arquati, figlio unico di un architetto di gran successo. Gianluca Sonnino erede di un industriale tessile. Con quei cognomi avrebbero dovuto avere la fila di ragazze cui fare la corte. Invece, no: le ragazze del vicino istituto privato solo femminile, il celebre «Marymount», quando li vedevano arrivare, si mettevano di spalle. Izzo aveva già gli occhi vibranti del maniaco sessuale. Tutti sapevano che Esposito nemmeno baciava: gli piaceva solo dare pizzichi.
Una banda di giovani pazzi, da cui stare distanti. Infatti le feste venivano organizzate di nascosto. Se arrivavano loro, Izzo e i suoi, era finita. Case saccheggiate e molte ragazze che, forse ancora adesso, tengono nascosto un segreto tremendo. Il giovedì mattina, però, questi piccoli delinquenti andavano regolarmente a messa. Può sembrare pazzesco, ma è così: il giovedì, al San Leone Magno, era giorno di funzione religiosa e loro erano lì, in prima fila, a mani giunte. La verità è che avevano paura di fratel Barnaba, il loro insegnante di religione. Lo vedevano e tremavano. Izzo, più di tutti. Un comportamento tipico, sembra, nei serial killer."
Fabrizio Roncone
04 maggio 2005

http://www.telefree.it/news.php?op=view&id=56613




mercoledì 4 Maggio 2005 (13h46) :
Io, compagno di scuola di Angelo Izzo
2 commenti

LA STORIA

Io, compagno di scuola del mostro

Quegli anni vissuti nella paura

di MARCO LODOLI

Per cinque anni sono stato a scuola insieme ad Angelo Izzo, al liceo classico San Leone Magno, a Roma, una scuola dei Fratelli Maristi. Dalle otto alle otto e venti si recitava il rosario, tutti i giorni. Izzo stava una classe sopra la mia e la sua sezione era un’accolita di fascisti e di pazzi spaventosi.

Era come se, per uno scherzo assurdo, il caso avesse riunito nella stessa aula una ventina di canaglie violente e invasate.

Erano ricchi, bellocci, si sentivano invulnerabili, afferrati da un delirio superomistico. Avevano i Rayban e i giubbotti di camoscio, le Jaguar e le Mercedes, stivaletti a punta e sorrisi beffardi. Il più feroce era Gianni Guido, un demonio con la faccia da angioletto. Ricordo che una volta vidi uno di loro spegnere una sigaretta sul braccio di un quattordicenne e ridere. Dopo sei mesi quel disgraziato si suicidò. Dissero che si era sparato nel petto con il fucile del padre e la cosa finì lì. Anni dopo Izzo confessò che l’avevano ucciso loro, gli amici del cuore. Ancora non so se sia vero, se le indagini della polizia hanno confermato quell’orrore. Per il piacere di sentirsi un maledetto, Izzo ha confessato tanti delitti che rimangono misteriosi.

Il loro gioco preferito erano gli sfasci, così chiamavano gli stupri fatti in gruppo. Incantavano qualche ragazza ingenua, ma anche qualche pariolina, e la sfasciavano. Avevano pistole e soldi, erano sadici e strafottenti. Ogni tanto prendevano il microfono durante le messe, nello spazio aperto ai fedeli, e si lanciavano in lunghi sermoni misticheggianti. Izzo era una mezza sega, il più magrolino, il meno ricco, il più insicuro. Si diceva che fosse la mente di quella banda di criminali, l’eminenza grigia del gruppo, ma a me pareva solo un ragazzo debole e malaticcio. Girava voce che fosse impotente.

Una volta mi beccarono in tre per viale Eritrea e mi picchiarono, perché ero comunista. Un’altra volta convocarono fuori scuola Cittadini, il più famoso picchiatore nero di Roma. Fortunatamente ero uscito un’ora prima. Cittadini morì per overdose nel cesso del bar Euclide qualche anno dopo. Quando lessi sul giornale del massacro del Circeo, non mi stupii più di tanto. Sapevo quanto quei pazzi disprezzavano le donne e i poveracci.

Sapevo che Izzo e Guido erano capaci di tutto, avevano gli occhi senza luce di chi può uccidere una ragazza come si schiaccia una mosca. Eppure quando vidi in televisione una lunga intervista a Izzo, che condannava il suo passato mostruoso e si diceva cambiato, ho provato un sollievo. Si può sempre cambiare, ho pensato. Mi ero sbagliato.

(4 maggio 2005)


Di : da "Repubblica on line"
mercoledì 4 Maggio 2005

http://bellaciao.org/it/article.php3?id_article=8565

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