La reclusione - sosteneva il sociologo Erving Goffman - è anzitutto
l'azione di rinchiudere qualcuno o qualcuna, inglobarne il corpo e
costringerlo in un sistema chiuso». Il carcere è un'istituzione totale
creata per mantenere saldo e vivo il contratto sociale che, se sottoscritto,
ci tiene lontani da questa e che, se non accettato, ci porta dentro questa.
E «dentro» ci si finisce o per ritrattare quanto non rispettato del
contratto sociale, o per mantenere fede alla deviazione.
Il contratto sociale
Carlos Riquelme, dentro il carcere livornese «Le Sughere», c'era finito per non aver rispettato la prima osservanza. All'interno della «sezione 6», un simpatico ragazzo sulla quarantina divide la cella con un attempato detenuto livornese. Sul suo volto i contrasti tipici della sua America Latina: occhi malinconici ma un sorriso maledettamente contagioso. Si chiama Nuñez Riquelme, stesso cognome del marittimo cileno suicidatosi lo scorso 30 luglio. «No, non sono parente di Carlos, siamo solo omonimi ed ex-colleghi di lavoro. Eravamo imbarcati sulla stessa nave». I due prestavano servizio sulla portacontainer Ancud, un cargo battente bandiera delle isole Marshall dal quale già l'anno precedente furono recuperati tre chilogrammi di cocaina purissima. Una soffiata e il telefono cellulare di Carlos viene posto sotto controllo; perquisizione della Guardia di finanza all'interno del cargo e nuovo rinvenimento di polvere bianca. «Carlos era innocente, ha provato a gridarlo finché ha avuto fiato». Carlos Riquelme finisce in carcere con il suo omonimo e altre due persone. Rinchiuso in una cella della quarta sezione, il cileno si dichiara innocente. Non mangia, piange, si dispera, viene imbottito di potenti psicofarmaci. «Era disperato perché lui rappresentava l'unica fonte di sostentamento della sua famiglia». In preda a una profonda crisi depressiva, chiede a più riprese di essere trasferito in un centro clinico decente. Richiesta ignorata. «Non appena l'Ancud attraccò a Livorno - racconta Nuñez Riquelme - Carlos ricevette una telefonata. Lo invitavano a scendere nella stiva, staccare un pannello, prelevare un sacchetto di polvere bianca e consegnarlo a un corriere. Carlos cadde dalle nuvole e oppose un fermo rifiuto». Immediatamente arrestato, Carlos trascorre in carcere tre lunghissimi mesi in attesa di un giudizio che non arriva mai. Il 30 luglio, disperato, decide di togliersi la vita impiccandosi all'inferriata della finestra con alcuni sacchi di nylon dell'immondizia. Il contratto sociale obbligava Carlos a denunciare il suo sconosciuto interlocutore. E lui non lo aveva rispettato.
Penitenziaria amministrazione
La visita all'interno del penitenziario livornese, resa possibile grazie all'impegno sulle tematiche carcerarie toscane portato avanti dal consigliere regionale di Rifondazione comunista, Giovanni Barbagli, e all'invito offertoci dal segretario livornese Alessandro Trotta, ci spalanca tutte le deficienze del penitenziario labronico. Costruito per ospitare 270 detenuti, Le Sughere ne ospitano al momento 360. «La situazione è spesso insostenibile - ammette Emilio Giusti, il comandante delle guardie carcerarie - quest'estate abbiamo toccato perfino le 420 presenze». Le Sughere sono state anche ribattezzate «il carcere della morte». Nell'ultimo anno e mezzo vi si sono verificati quattro suicidi, una morte (quella di Marcello Lonzi) ancora avvolta nel mistero e tre tentativi (quelli emersi) di suicidio. «Qua - si sfoga un detenuto - il vero problema è l'ozio. Sempre in cella a marcire, mai un'iniziativa culturale, mai un'attività ricreativa. Il campo di calcio è perennemente allagato e l'ora d'aria viene fatta in un anfratto ancora più piccolo della stessa cella». Il comandante Giusti annuisce e conferma: «La situazione è difficile, le condizioni sono effettivamente precarie».
Camminiamo nel corridoio. Tra i detenuti c'è chi saluta e chi guarda con diffidenza, chi ha voglia di raccontare il proprio disagio e chi preferisce starsene a letto. Ci fermiamo ad ascoltare un giovane senegalese a cui è stata tolta la semilibertà. «Per i continui ritardi nel ritorno in carcere - spiega Giusti - e perché troppo spesso tornava ubriaco». Il giovane nega. Trema, con gli occhi spenti e persi nel vuoto. Sostiene di non farcela più e di non vedere altra soluzione al suicidio. «Qui - fa un vicino di cella del senegalese - chi non ha carattere fa una brutta fine. Quelli come lui vengono imbottiti di merda dalla mattina alla sera. Psicofarmaci di ogni genere, soprattutto ansiolitici e barbiturici». Ci avviamo all'uscita ma siamo richiamati da una coppia di maghrebini: «Scusa... potresti chiedere di sistemarci il campo di calcio? E' l'unica fonte di svago che abbiamo qui dentro». Usciamo dalla «sei» e facciamo una visita fulminea alla sezione «transiti». «Qui la percentuale di extracomunitari è vicina al 70% - commenta il comandante delle guardie - quasi tutti albanesi e maghrebini. Una rissa dietro l'altra». Dalle sbarre di una porta si affacciano una decina di detenuti. Tutti balcanici e maghrebini, tutti giovanissimi.
Alcuni filosofi sostengono che il male sia banale esattamente quanto il carcere e che ciò che il supplizio penitenziario genera sul corpo del condannato, lo produce più per ottusità che per sadismo. L'opinione pubblica dei cosiddetti «paesi democratici» si indigna quando in paesi lontani vengono inferte ai condannati quattro o cinque scudisciate nei glutei. Un valore, quello dell'umanizzazione dei castighi legali e della «dolcezza delle pene», tutto occidentale, visto che ogni vergata, in qualsiasi paese occidentale, equivale più o meno a qualche mese di reclusione. «La sofferenza dell'anima per la privata libertà - sostiene il filosofo Daniel Gonin - fa meno effetto del dolore del corpo per lo scorticamento della carne. Ma questo non significa che la comparazione sia improponibile, basti vedere i sintomi della trasformazione dei sensi della carne imprigionata». Esami accurati denunciano che molti detenuti soffrono di vertigini, perdono l'olfatto e soffrono di un peggioramento progressivo della vista causato dal mancato sostegno della parola (perdita dell'articolazione tra occhio e bocca). Tre patologie, in particolare, sono sovrarappresentate tra i detenuti rispetto agli uomini liberi: la dentaria, la dermatologica e la digestiva. Lo stesso Gonin ci accompagna in altri e più profondi gironi dell'inferno carcerario: vocazione diffusa per la bocca sdentata, in seguito anche a una domanda ossessiva per l'estrazione dei denti; proiezioni selvagge sulla pelle accompagnate da martorizzazioni volontarie (labbra e palpebre cucite con lo spago, tatuaggi deturpanti, autoamputazioni delle dita e delle orecchie, rischio suicidario e di contagio a malattie infettive come l'Aids, dieci volte più elevato che tra la popolazione libera), sessualità devastata e irriconoscibile (impotenza, onanismo e omosessualità forzata).
Il dolore inutile
Eppure c'è chi, dopo quasi trent'anni passati in carcere, trova ancora la forza di lottare e protestare per i torti subiti durante la reclusione. Alla sezione 4, dove c'è «il peggio del peggio», come dice Giusti, è detenuto anche Marco Medda. Cagliaritano di nascita e lombardo d'adozione, è stato condannato all'ergastolo per i reati di associazione per delinquere di stampo mafioso, omicidio aggravato, sequestri e tentati sequestri (nel `90 pianificò persino il rapimento di Berlusconi), evasione e tentate evasioni (dal supercarcere di Spoleto, nell'84, insieme a Vallanzasca), ricettazione e detenzione di armi. Affiliato alla Nuova Camorra Organizzata, è stato sottoposto, nel febbraio 1995, al regime carcerario differenziato previsto dall'articolo 41 bis. A metà ottobre, questo cinquantaseienne dal lessico forbito ma con gli occhi e la bocca disarticolati tra loro, ha deciso di attuare uno sciopero della fame per oltre due settimane. «Lo faccio - attacca Medda - perché hanno voluto rispedire una persona all'inferno proprio nel momento in cui aveva deciso di voltare pagina. Sono stato improvvisamente trasferito al carcere di Monza dopo anni trascorsi a San Vittore. Lì, oltre alla moglie, ho lasciato la pittura, le amicizie, gli interessi intellettuali che valenti operatori penitenziari erano riusciti a fare attecchire nella mia anima: tutto è stato improvvisamente sradicato senza motivo alcuno. A San Vittore ero diventato una persona "nuova", prossimo alla concessione dell'articolo 21 con un lavoro esterno già pronto, il matrimonio e il sogno di una vita che avrebbe potuto approdare a una sembianza di normalità. Non aveva interesse il "sistema" a dimostrare che è possibile recuperare persino un irrecuperabile come me?». Ha gli occhi tristi.
Come se anestetizzato da una ormai irreversibile disperazione esistenziale, reazione ad una negazione di giustizia spicciola e al mancato riconoscimento dell'obiettivo stesso della pena detentiva: il suo recupero. Nell'esercizio del suo castigo, esemplare ma non correttivo in quanto ergastolano, Medda era persino riuscito ad acquietare lo sconforto interiore del recluso a vita grazie alla semplice prospettiva di una detenzione tranquilla a San Vittore. Gli hanno tolto anche questo.
TOMMASO TINTORI
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Celle buie e quattro suicidi negli ultimi mesi Il penitenziario «Le Sughere» di Livorno sostituisce nel 1984 il vecchio «Carcere dei Domenicani». Concepito in un'ottica di massima sicurezza, il carcere presenta carenze sotto il profilo assistenziale ed evidenti problemi nell'agibilità della struttura a causa dell'usura e degli agenti atmosferici. Le finestre delle celle (erroneamente costruite in ferro e ormai corrose in maniera irreversibile) sono permeabili all'acqua piovana e l'impianto elettrico è talmente deficitario da rendere l'ambiente interno buio per gran parte delle giornata. La mancanza di attrezzature all'aperto, inoltre, impedisce un'attività sportiva e ricreativa adeguata. Come riportato dall'onorevole Marida Bolognesi (Ds), la funzionalità del carcere è ulteriormente minata da una grave carenza di personale, in particolare nell'ambito della custodia femminile: una lacuna che obbliga le detenute a optare tra l'ora d'aria e l'espletamento della pulizia personale, in questo modo depotenziando ulteriormente le attività di rieducazione e di socializzazione. Estremamente carenti sono le figure professionali degli educatori e degli assistenti sociali; praticamente assente è l'attività lavorativa.
Non è difficile incontrare nelle stesse sezioni detenuti con diverse problematicità (assassini e ladri di polli, ma anche tossicodipendenti e spacciatori), cosa che rende più difficile il governo della realtà carceraria e la costruzione di percorsi rieducativi. Estremamente alto il numero di suicidi consumatisi nel carcere durante l'ultimo anno e mezzo: ben quattro. E un caso che ha fatto il giro d'Italia: la morte del ventinovenne livornese Marcello Lonzi, avvenuta l'11 luglio dello scorso anno e frettolosamente schedata come «accidentale» dalla Procura di Livorno. I chiari segni di percosse rinvenuti sul cadavere del giovane, l'approssimazione delle indagini e la mobilitazione dell'opinione pubblica, portano il Gip a non accogliere la richiesta di archiviazione avanzata dal pm che aveva seguito la vicenda.
L'altro caso di suicidio è quello raccontato in questa pagina e che riguarda Carlos Riquelme: un marinaio che si è sempre dichiarato innocente e che il 30 luglio si è tolto la vita impiccandosi con alcuni sacchi della spazzatura all'inferriata della finestra della cella in cui era richiuso.
Il Manifesto 12/12/2004
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