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La vita e la morte nel carcere di Livorno
by il man. Tuesday, Dec. 14, 2004 at 3:25 AM mail:

La reclusione - sosteneva il sociologo Erving Goffman - è anzitutto l'azione di rinchiudere qualcuno o qualcuna, inglobarne il corpo e costringerlo in un sistema chiuso». Il carcere è un'istituzione totale creata per mantenere saldo e vivo il contratto sociale che, se sottoscritto, ci tiene lontani da questa e che, se non accettato, ci porta dentro questa. E «dentro» ci si finisce o per ritrattare quanto non rispettato del contratto sociale, o per mantenere fede alla deviazione.

Il contratto sociale

Carlos Riquelme, dentro il carcere livornese «Le Sughere», c'era finito per
non aver rispettato la prima osservanza. All'interno della «sezione 6», un
simpatico ragazzo sulla quarantina divide la cella con un attempato detenuto
livornese. Sul suo volto i contrasti tipici della sua America Latina: occhi
malinconici ma un sorriso maledettamente contagioso. Si chiama Nuñez
Riquelme, stesso cognome del marittimo cileno suicidatosi lo scorso 30
luglio. «No, non sono parente di Carlos, siamo solo omonimi ed ex-colleghi
di lavoro. Eravamo imbarcati sulla stessa nave». I due prestavano servizio
sulla portacontainer Ancud, un cargo battente bandiera delle isole Marshall
dal quale già l'anno precedente furono recuperati tre chilogrammi di cocaina
purissima. Una soffiata e il telefono cellulare di Carlos viene posto sotto
controllo; perquisizione della Guardia di finanza all'interno del cargo e
nuovo rinvenimento di polvere bianca. «Carlos era innocente, ha provato a
gridarlo finché ha avuto fiato». Carlos Riquelme finisce in carcere con il
suo omonimo e altre due persone. Rinchiuso in una cella della quarta
sezione, il cileno si dichiara innocente. Non mangia, piange, si dispera,
viene imbottito di potenti psicofarmaci. «Era disperato perché lui
rappresentava l'unica fonte di sostentamento della sua famiglia». In preda a
una profonda crisi depressiva, chiede a più riprese di essere trasferito in
un centro clinico decente. Richiesta ignorata. «Non appena l'Ancud attraccò
a Livorno - racconta Nuñez Riquelme - Carlos ricevette una telefonata. Lo
invitavano a scendere nella stiva, staccare un pannello, prelevare un
sacchetto di polvere bianca e consegnarlo a un corriere. Carlos cadde dalle
nuvole e oppose un fermo rifiuto». Immediatamente arrestato, Carlos
trascorre in carcere tre lunghissimi mesi in attesa di un giudizio che non
arriva mai. Il 30 luglio, disperato, decide di togliersi la vita
impiccandosi all'inferriata della finestra con alcuni sacchi di nylon
dell'immondizia. Il contratto sociale obbligava Carlos a denunciare il suo
sconosciuto interlocutore. E lui non lo aveva rispettato.

Penitenziaria amministrazione

La visita all'interno del penitenziario livornese, resa possibile grazie
all'impegno sulle tematiche carcerarie toscane portato avanti dal
consigliere regionale di Rifondazione comunista, Giovanni Barbagli, e
all'invito offertoci dal segretario livornese Alessandro Trotta, ci spalanca
tutte le deficienze del penitenziario labronico. Costruito per ospitare 270
detenuti, Le Sughere ne ospitano al momento 360. «La situazione è spesso
insostenibile - ammette Emilio Giusti, il comandante delle guardie
carcerarie - quest'estate abbiamo toccato perfino le 420 presenze». Le
Sughere sono state anche ribattezzate «il carcere della morte». Nell'ultimo
anno e mezzo vi si sono verificati quattro suicidi, una morte (quella di
Marcello Lonzi) ancora avvolta nel mistero e tre tentativi (quelli emersi)
di suicidio. «Qua - si sfoga un detenuto - il vero problema è l'ozio. Sempre
in cella a marcire, mai un'iniziativa culturale, mai un'attività ricreativa.
Il campo di calcio è perennemente allagato e l'ora d'aria viene fatta in un
anfratto ancora più piccolo della stessa cella». Il comandante Giusti
annuisce e conferma: «La situazione è difficile, le condizioni sono
effettivamente precarie».

Camminiamo nel corridoio. Tra i detenuti c'è chi saluta e chi guarda con
diffidenza, chi ha voglia di raccontare il proprio disagio e chi preferisce
starsene a letto. Ci fermiamo ad ascoltare un giovane senegalese a cui è
stata tolta la semilibertà. «Per i continui ritardi nel ritorno in carcere -
spiega Giusti - e perché troppo spesso tornava ubriaco». Il giovane nega.
Trema, con gli occhi spenti e persi nel vuoto. Sostiene di non farcela più e
di non vedere altra soluzione al suicidio. «Qui - fa un vicino di cella del
senegalese - chi non ha carattere fa una brutta fine. Quelli come lui
vengono imbottiti di merda dalla mattina alla sera. Psicofarmaci di ogni
genere, soprattutto ansiolitici e barbiturici». Ci avviamo all'uscita ma
siamo richiamati da una coppia di maghrebini: «Scusa... potresti chiedere di
sistemarci il campo di calcio? E' l'unica fonte di svago che abbiamo qui
dentro». Usciamo dalla «sei» e facciamo una visita fulminea alla sezione
«transiti». «Qui la percentuale di extracomunitari è vicina al 70% -
commenta il comandante delle guardie - quasi tutti albanesi e maghrebini.
Una rissa dietro l'altra». Dalle sbarre di una porta si affacciano una
decina di detenuti. Tutti balcanici e maghrebini, tutti giovanissimi.

Alcuni filosofi sostengono che il male sia banale esattamente quanto il
carcere e che ciò che il supplizio penitenziario genera sul corpo del
condannato, lo produce più per ottusità che per sadismo. L'opinione pubblica
dei cosiddetti «paesi democratici» si indigna quando in paesi lontani
vengono inferte ai condannati quattro o cinque scudisciate nei glutei. Un
valore, quello dell'umanizzazione dei castighi legali e della «dolcezza
delle pene», tutto occidentale, visto che ogni vergata, in qualsiasi paese
occidentale, equivale più o meno a qualche mese di reclusione. «La
sofferenza dell'anima per la privata libertà - sostiene il filosofo Daniel
Gonin - fa meno effetto del dolore del corpo per lo scorticamento della
carne. Ma questo non significa che la comparazione sia improponibile, basti
vedere i sintomi della trasformazione dei sensi della carne imprigionata».
Esami accurati denunciano che molti detenuti soffrono di vertigini, perdono
l'olfatto e soffrono di un peggioramento progressivo della vista causato dal
mancato sostegno della parola (perdita dell'articolazione tra occhio e
bocca). Tre patologie, in particolare, sono sovrarappresentate tra i
detenuti rispetto agli uomini liberi: la dentaria, la dermatologica e la
digestiva. Lo stesso Gonin ci accompagna in altri e più profondi gironi
dell'inferno carcerario: vocazione diffusa per la bocca sdentata, in seguito
anche a una domanda ossessiva per l'estrazione dei denti; proiezioni
selvagge sulla pelle accompagnate da martorizzazioni volontarie (labbra e
palpebre cucite con lo spago, tatuaggi deturpanti, autoamputazioni delle
dita e delle orecchie, rischio suicidario e di contagio a malattie infettive
come l'Aids, dieci volte più elevato che tra la popolazione libera),
sessualità devastata e irriconoscibile (impotenza, onanismo e omosessualità
forzata).

Il dolore inutile

Eppure c'è chi, dopo quasi trent'anni passati in carcere, trova ancora la
forza di lottare e protestare per i torti subiti durante la reclusione. Alla
sezione 4, dove c'è «il peggio del peggio», come dice Giusti, è detenuto
anche Marco Medda. Cagliaritano di nascita e lombardo d'adozione, è stato
condannato all'ergastolo per i reati di associazione per delinquere di
stampo mafioso, omicidio aggravato, sequestri e tentati sequestri (nel `90
pianificò persino il rapimento di Berlusconi), evasione e tentate evasioni
(dal supercarcere di Spoleto, nell'84, insieme a Vallanzasca), ricettazione
e detenzione di armi. Affiliato alla Nuova Camorra Organizzata, è stato
sottoposto, nel febbraio 1995, al regime carcerario differenziato previsto
dall'articolo 41 bis. A metà ottobre, questo cinquantaseienne dal lessico
forbito ma con gli occhi e la bocca disarticolati tra loro, ha deciso di
attuare uno sciopero della fame per oltre due settimane. «Lo faccio -
attacca Medda - perché hanno voluto rispedire una persona all'inferno
proprio nel momento in cui aveva deciso di voltare pagina. Sono stato
improvvisamente trasferito al carcere di Monza dopo anni trascorsi a San
Vittore. Lì, oltre alla moglie, ho lasciato la pittura, le amicizie, gli
interessi intellettuali che valenti operatori penitenziari erano riusciti a
fare attecchire nella mia anima: tutto è stato improvvisamente sradicato
senza motivo alcuno. A San Vittore ero diventato una persona "nuova",
prossimo alla concessione dell'articolo 21 con un lavoro esterno già pronto,
il matrimonio e il sogno di una vita che avrebbe potuto approdare a una
sembianza di normalità. Non aveva interesse il "sistema" a dimostrare che è
possibile recuperare persino un irrecuperabile come me?». Ha gli occhi
tristi.

Come se anestetizzato da una ormai irreversibile disperazione esistenziale,
reazione ad una negazione di giustizia spicciola e al mancato riconoscimento
dell'obiettivo stesso della pena detentiva: il suo recupero. Nell'esercizio
del suo castigo, esemplare ma non correttivo in quanto ergastolano, Medda
era persino riuscito ad acquietare lo sconforto interiore del recluso a vita
grazie alla semplice prospettiva di una detenzione tranquilla a San Vittore.
Gli hanno tolto anche questo.

TOMMASO TINTORI

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Celle buie e quattro suicidi negli ultimi mesi
Il penitenziario «Le Sughere» di Livorno sostituisce nel 1984 il vecchio
«Carcere dei Domenicani». Concepito in un'ottica di massima sicurezza, il
carcere presenta carenze sotto il profilo assistenziale ed evidenti problemi
nell'agibilità della struttura a causa dell'usura e degli agenti
atmosferici. Le finestre delle celle (erroneamente costruite in ferro e
ormai corrose in maniera irreversibile) sono permeabili all'acqua piovana e
l'impianto elettrico è talmente deficitario da rendere l'ambiente interno
buio per gran parte delle giornata. La mancanza di attrezzature all'aperto,
inoltre, impedisce un'attività sportiva e ricreativa adeguata. Come
riportato dall'onorevole Marida Bolognesi (Ds), la funzionalità del carcere
è ulteriormente minata da una grave carenza di personale, in particolare
nell'ambito della custodia femminile: una lacuna che obbliga le detenute a
optare tra l'ora d'aria e l'espletamento della pulizia personale, in questo
modo depotenziando ulteriormente le attività di rieducazione e di
socializzazione. Estremamente carenti sono le figure professionali degli
educatori e degli assistenti sociali; praticamente assente è l'attività
lavorativa.

Non è difficile incontrare nelle stesse sezioni detenuti con diverse
problematicità (assassini e ladri di polli, ma anche tossicodipendenti e
spacciatori), cosa che rende più difficile il governo della realtà
carceraria e la costruzione di percorsi rieducativi. Estremamente alto il
numero di suicidi consumatisi nel carcere durante l'ultimo anno e mezzo: ben
quattro. E un caso che ha fatto il giro d'Italia: la morte del ventinovenne
livornese Marcello Lonzi, avvenuta l'11 luglio dello scorso anno e
frettolosamente schedata come «accidentale» dalla Procura di Livorno. I
chiari segni di percosse rinvenuti sul cadavere del giovane,
l'approssimazione delle indagini e la mobilitazione dell'opinione pubblica,
portano il Gip a non accogliere la richiesta di archiviazione avanzata dal
pm che aveva seguito la vicenda.

L'altro caso di suicidio è quello raccontato in questa pagina e che riguarda
Carlos Riquelme: un marinaio che si è sempre dichiarato innocente e che il
30 luglio si è tolto la vita impiccandosi con alcuni sacchi della spazzatura
all'inferriata della finestra della cella in cui era richiuso.

Il Manifesto
12/12/2004

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