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vedo ke va di moda parlare dell'autonomia! bella!
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176-671 Friday, Dec. 27, 2002 at 4:01 PM |
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MI PERMETTO DI DARE ANCHE IO IL MIO CONTRIBUTO.......
QUESTI DOCUMENTI SONO SCRITTI IN MODO UN PO' PIù SEMPLICE DI QUELLI DI TOMMYAUTOP..........
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L'antifascismo militante
Sei anni di stragi e assassini fascisti non sono bastati a piegare la forza e la combattività del movimento operaio; le montature, le provocazioni architettate a destra per colpire a sinistra si sono rivelate frecce senza punta, pietre pesantemente cadute sui piedi di chi le aveva alzate. Dopo piazza Fontana il linguaggio delle bombe cambia significato; la stessa teoria degli opposti estremismi sarà man mano superata , e grazie all'apporto fondamentale del PCI l'estremismo diventerà uno solo: la lotta di classe perché violenta e quindi fascista. La borghesia, scossa e attonita di fronte alla risposta del proletariato, saprà cogliere l'occasione offertagli dalle forze revisioniste e cercherà di dare continuità al suo dominio di classe riproponendo la sua credibilità in una ritrovata quanto improvvisata fede antifascista. Così, da Brescia in poi, si scopre che la repubblica italiana, oltre a essere fondata sulla dittatura del lavoro, è nata dalla Resistenza e che gli esponenti che la governano da trent'anni sono tutti "sinceri democratici e antifascisti". E tutto ciò basta e serve anche al PCI per identificarsi sempre di più con le sorti del sistema capitalistico e dello stato che lo rappresenta, per divenire maggiormente, oltre che il partito della "piena luce", il partito della legalità e dell'ordine democratico che si compiace di questo suo ruolo pur di poter trascinare socialdemocratici, repubblicani, democristiani stessi, in vuote e cadenti celebrazioni antifasciste fatte all'insegna dell'amor di patria con tanto di coccarde tricolori e parate militari come avviene per il 30° della Resistenza a Firenze, in cui è imposto ai partigiani di sfilare col tricolore. Di fronte a questo ennesimo tentativo di disarmo ideologico delle masse, i gruppi della sinistra extraparlamentare non sapranno opporre altro che campagne generali fatte di un antifascismo verbalmente violento, ma ancora una volta delegato e rinviato nella sua attuazione pratica alle istituzioni borghesi. Ma in questi anni il proletariato, la classe operaia, le avanguardie rivoluzionarie hanno imparato che colpire, annientare i fascisti è un dovere preciso, un compito storico non delegabile né altrimenti risolvibile nella lotta per l'abbattimento dello Stato borghese. Cacciare i fascisti dalle fabbriche, dai quartieri, dalle scuole è un dato costante che l'autonomia operaia ha sempre collocato all'interno della propria pratica politica senza cadere nel tanto logoro quanto errato discorso che vede nel golpe fascista l'asso nella manica della borghesia. Ciò che infatti balza agli occhi, ogni giorno con più chiarezza, è che la via scelta dai padroni, stante la grande forza di massa che il movimento operaio italiano esprime da dopo il '68, è quella di un compromesso con le organizzazioni tradizionali che ancora egemonizzano nominalmente la classe operaia e che l'antifascismo è appunto il dito dietro cui si nascondono i più bassi compromessi e i più balordi cedimenti che i gruppi extraparlamentari fanno nei confronti del PCI. L'antifascismo militante, l'iniziati va pratica contro i fascisti e le loro sedi sarà dunque sempre di più la risposta concreta all'antifascismo istituzionale e parolaio dei partiti di sinistra e alle campagne per la raccolta delle firme per il " MSI fuorilegge " proposte dai gruppi.
Giù la maschera, "unitari"!
I fascisti all'ENEL, si nascondono dietro la CISNAL, ma non contano nulla. Nonostante questo, l'ENEL li riconosce ufficialmente e li usa per provocare gli operai. Più volte i lavoratori hanno usato violenze a queste sporche figure: sputi, processi popolari, scioperi, percosse, vietano a queste carogne di esistere ufficialmente. I sindacati "unitari" pecoroni e controllori della pace sociale, si sono messi d'accordo con i fascisti sulla presenza ai concorsi, alle trattative, art. 15, cioè sugli impicci, gli imbrogli, i magna-magna. I lavoratori, i compagni si sono organizzati per cacciare i fascisti, in qualsiasi posto si presentino. Si sono prenotati per tutti i concorsi interni, in modo da vietare ai fascisti di esistere, in modo da controllare le magagne dei concorsi. Già a Tor di Quinto, la fascistella in pelliccia fu sbattuta fuori da tutti i lavoratori, nonostante l'arrendevolezza dei sindacati e le provocazioni dei dirigenti. (La lezione gli è servita e ha lasciato la CISNAL). Ieri a largo L. Loria gli operai venuti organizzati per un concorso al commerciale, hanno impedito fisicamente al "nazista" della CISNAL di stare presente al concorso (il porco in questione è di "Ordine nuovo", organizzazione nazista a cui appartengono Rauti, Freda e Ventura, implicati e arrestati per le bombe di Milano). L'ENEL, da brava protettrice, ha sbraitato, ha messo in moto i sindacati "unitari", per rimettere dentro la sala del concorso il nazista, ma nulla ha potuto contro l'incazzatura operaia. Anzi, ha messo in atto una provocazione: ha tentato di escludere dal concorso gli operai che hanno cacciato via il nazista, tentativo mandato in fumo dalla forza operaia. Sapevamo da tempo le predilezioni dell'ENEL per i fascisti, oggi, abbiamo scoperto che i fascisti hanno dei nuovi protettori: i sindacati "unitari". Compagni lavoratori, di questo dobbiamo renderci conto: i sindacati pur di mantenere il loro rapporto di cogestione e potere clientelare, preferiscono colpire i compagni piuttosto che i fascisti. Per questo ci siamo organizzati autonomamente per portare avanti i bisogni dei lavoratori, per spazzare via gli opportunisti, per schiacciare i fascisti comunque camuffati.
Marzo '73 Comitato Politico ENEL
Mincuzzi: chi è?
Il sequestro di Mincuzzi ha scatenato la solita corsa tra le forze politiche di "sinistra" a chi si scagionava di più. Da Avanguardia Operaia a Lotta Continua tutti pronti a dire: "noi non c'entriamo sono stati i soliti provocatori". Daltra parte, il PCI e i riformisti, si sa, non possono che condannare un'azione che non si colloca in un progetto di "pace sociale". Secondo noi è molto meglio fare come gli operai in fabbrica che si sono messi a discutere con semplicità sul tipo di azione e a partire da questo cercare di affrontare il grosso problema del legame fra azioni di questo genere e la lotta di fabbrica. Nella discussione, alimentata anche dal ritrovamento, fuori e dentro la fabbrica, di volantini di B.R.., sono emersi questi giudizi: i compagni più sindacalizzati e i quadri del PCI sostenevano la linea espressa dai loro organismi dirigenziali, una parte degli operai non dava giudizi; infine una grossa parte esprimeva un assenso motivandolo come momento di rivalsa contro le prepotenze del sistema in generale e contro lo stesso Mincuzzi per fatti accaduti nel corso delle lotte contrattuali e durante i cortei interni. Non è stata invece in generale giudicata come proposta politica organizzativa. Proponendoci di approfondire rispetto alla realtà di fabbrica questi temi per ora ci limitiamo a ricordare chi è Mincuzzi. Gli operai lo ricordano bene, quand'era il rappresentante della direzione dell'Alfa alle trattative sulla piattaforma aziendale del 71. Di lui si ricordano quelli che hanno fatto i cortei interni nel suo ufficio. E anche gli operai dei reparti a cui egli ha fatto tagliare i tempi. Domandate un pò ai vecchi operai quale è sempre stato il ruolo di Mincuzzi nella repressione in fabbrica. Il sindacato ha detto in un comunicato che il Mincuzzi è uno "che sa difendere con abilità gli interessi dell'azienda", in parole povere è uno che fa di tutto per sfruttare di più gli operai. Oltre che determinare i modi dello sfruttamento all'Alfa teneva anche corsi per dirigenti aziendali all'UCID (associazione padronale della Democrazia Cristiana), così i suoi insegnamenti sono serviti contro operai di molte altre fabbriche.
da "Senza Padroni" Maggio 73
Arese 28 gennaio 1974
Resta vittima di un infortunio sul lavoro il vice capo servizio Medved, Vincenzo, responsabile del licenziamento del compagno Banfi, e promosso a vice dirigente. Viene trovato verso l'ora di mensa vicino al suo ufficio con la testa contusa e le ossa in disordine. Ricoverato all'ospedale: prognosi 15 giorni. Dirà di essere stato aggredito da due uomini con tuta dell'Alfa (strano!) e cappuccio in testa armati di robusti bastoni, dileguatisi subito dopo. [...] Il capo Medved, ex tempista promosso per la sua durezza nel fare i tempi a capo responsabile della Motori di Milano, ed ora dopo aver contribuito a far licenziare il Banfi, promosso vice dirigente della Gruppi di Arese. Prima era del PSDI, iscritto alla UIL della clientela di Bucalossi e ora, al seguito di questo è passato al PRI - (di fatto un fascista in camicia bianca). La direzione dell'Alfa emette un altro comunicato e così pure la ACAR (Associazione capi e capetti dell'Alfa). Ma il più grave è quello dell'esecutivo, che chiede agli operai di dare la propria solidarietà al 'lavoratore' Medved, il quale per ringraziare tutti i 'solidali' ha concesso un intervista al noto settimanale fascista «Il borghese». Gli operai comunque non hanno minimamente condiviso il comunicato il quale anzi è stato fermamente condannato durante un'assemblea generale del 30 gennaio dalla maggior parte dei lavoratori e in modo particolare da quelli più anziani i quali ricordano ancora con quale rabbia il Medved era solito dire che l'«unico modo di eliminare i comunisti è riempire le piazze di forche». Lo slogan più gridato durante i cortei interni era 'dieci, cento, mille Medved'. [...]
da 'Ti spremono e ti buttano' settembre 74
Notiziario: chiusi tre covi fascisti
E' sempre attiva ed incalzante in molte zone di Roma l'iniziativa dei proletari contro le carogne nere e i loro covi. Se i fascisti hanno creduto, con la campagna sul referendum e dietro la copertura della DC di poter ridare tranquillamente fiato a tutto il loro armamentario provocatorio, si sono illusi.Sulle parole d'ordine dell'antifascismo militante e del "MSI fuorilegge ce lo mettiamo noi e non chi lo protegge"' il movimento proletario si sta dando da fare. A Monteverde la sezione centrale di Zona del MSI di via Vidaschi 10 è andata bruciata tre volte nel giro di venti giorni ed ha subìto nello stesso periodo due assalti di massa conclusisi con la giusta punizione popolare dei due maggiori responsabili di zona: Rubei, segretario della Sezione e Giancarlo Carocci segretario circoscrizionale. Anche gli abitanti dei palazzi attigui al covo nero, non gradivano affatto la presenza dei fascisti. Nella Zona di Tivoli nel giro di una stessa notte sono andate distrutte due sedi di Ordine Nuovo, quella del Circolo Drien La Rochelle e quella di Montecelio, che la polizia, nonostante la messa fuorilegge di questo movimento, non aveva provveduto a chiudere. Sempre a Tivoli il 24 aprile nel corso di una manifestazione antifascista alcuni proletari, staccatisi dal corteo, provvedevano ad inseguire e punire alcuni fascisti del suddetto Circolo La Rochelle. Sulla Tiburtina non sfuggiva ai proletari un'adunata nera nella sede missina presieduta da Saccucci: la riunione è stata bruscamente interrotta. Anche sulla Prenestina ai proletari non è andato giù che proprio il 25 aprile provocassero gli abitanti del quartiere con la loro propaganda. Dopo essere stati dentro il loro covo, interveniva a proteggerli con un forte schieramento la polizia, ma questo non impediva che alcuni di loro fossero spediti all'ospedale.
da 'Rivolta di classe', maggio '74
Uccidere i fascisti non è reato
Questo monito che sale da tutte le piazze d'Italia, dalle fabbriche, dai quartieri proletari va tradotto oggi in termini pratici. La strage di Brescia dimostra un altro livello di organizzazine e determinazione delle organizzazioni fasciste. La specializzazione del loro apparato militare, la rete di collegamenti internazionali, un efficiente apparato di copertura. Lo Stato borghese, la DC come garante di questo Stato, sono i mandanti di questo nuovo attacco assassino al proletariato. Il governo alimenta, finanzia, protegge, la rete militare e politica fascista, se ne serve per garantirsi all'infinito il potere. Quando la «bomba» è scoppiata lo Stato reagisce vestendo l'uniforme antifascista e due giorni dopo «scopre» i campi paramilitari a Rieti e Sondrio. La ventata antifascista serve allora a ricattare i lavoratori che devono difendere a tutti i costi lo Stato "democratico" minacciato, con un superlavoro quotidiano, con minori consumi perchè i soldi sono sempre gli stessi e i prezzi e le tasse saliranno ancora. Compagni lavoratori, non bastano le manifestazioni grandiose di questi giorni. Non vogliamo più piangere i nostri morti. Vogliamo farne di tante e più grosse per distruggere la rete nera in profondità, per eliminare le cause e gli uomini che tanti morti hanno portato nel movimento proletario. Va colta in questi momenti l'indicazione proletaria di fare giustizia dell'antifascismo parolaio, di costruire una nuova militanza come recupero della volontà di giustizia e potere da parte del proletariato. Le centinaia di assalti alle sedi del MSI, della CISNAL, di Avanguardia Nazionale, l'organizzazione dei pestaggi di noti caporioni a Napoli, a Milano, a Torino, a Firenze, a Roma, in ogni piccolo paese sono la testimonianza di questa volontà. A Roma, un corteo partito da San Giovanni ha ripulito le tre sedi del MSI del quartiere nero Appio Tuscolano e in molte altre situazioni si è fatto altrettanto. La polizia, a cui si vuole attribuire per forza una patente democratica, ha sparato in ogni occasione: raffiche di mitra a più riprese, la pistola spianata ad ogni piccola occasione.Così è successo a Balduina dove la polizia ha arrestato alla rinfusa 5 compagni, dopo aver sparato a più riprese numerosi colpi di pistola contro un corteo militante che stava dando una lezione ad uno dei più incendiari covi neri di Roma. Libertà per i compagni arrestati per antifascismo!
Comitati Autonomi Operai Giugno '74
Dopo Brescia la rabbia proletaria esplode, l'iniziativa militante contro gli assassini fascisti si moltiplica in tutta Italia; le sedi bruciate e devastate testimoniano della coscienza e determinazione con cui il proletariato intende praticare l'antifascismo. E' in questo periodo che a fronte dell'antifascismo di Stato predicato dai partiti di sinistra e dai sindacati, i gruppi della sinistra extraparlamentare partoriranno l'idea della campagna per il «MSI fuorilegge», pensando con questa di mutuare e ripetere il significato politico della campagna sul referendum per il divorzio. Ma l'indicazione pratica data dal movimento nel suo complesso è già andata ben oltre il significato stesso dei referendum e come tale si riproporrà a livelli più alti nei mesi successivi. Da dicembre in poi l'Autonomia operaia si fa carico di dare continuità a questa risposta militante nonostante l'atteggiamento rinunciatario che sempre più andrà assumendo la sinistra extraparlamentare. La mobilitazione contro il comizio di Rauti a Monteverde, gli scontri di piazzale Clodio per il processo Lollo a febbraio del '75 sono i fatti, gli episodi che, se pur pagati duramente, faranno da detonatore alla grande manifestazione operaia del 7 marzo a Milano e alle seguenti giornate di aprile.
Un solo fascio, e poi li brucerem...
Brevemente i fatti: Martedì 17 i fascisti che da un mese hanno riaperto una sezione a Monteverde ricevono a p.S. Giovanni di Dio una durissima lezione, il segretario della sezione e il caporione giovanile vanno all'ospedale con numerosissimi giorni di prognosi da scontare.
Mercoledì 18: com'era da prevedere il MSI indice a p. S. Giovanni di Dio un comizio in cui parleranno l'assassino nazista Rauti e il picchiatore Anderson, per il 22.
Giovedì 19: inizia la mobilitazione nelle scuole e nel quartiere, la parola d'ordine sulla bocca di tutti è "i fascisti non parleranno"
Venerdì 20: la polizia come ai tempi del fascismo perquisisce preventivamente la sede, e le case di 8 compagni del Collettivo Monteverde.
Sabato 21: nonostante il forte clima di intimidazione la mobilitazione cresce e si allarga: la polizia spara contro dei compagni che cancellavano scritte fasciste e ne arresta uno; non basterà questa ennesima provocazione a frenare lo slancio degli antifascisti e dei rivoluzionari.
Domenica 22: mentre il PCI se ne sta in sede e il Manifesto sta in finestra, più di mille compagni danno il benvenuto a Rauti mentre duemila poliziotti difendono il comizio dell'assassino. Il bilancio deglii scontri è gravissimo, numerosi fascisti e poliziotti all'ospedale; 11 compagni arrestati senza alcuna prova, lontano dalla scena degli incidenti: la mano del potere deve per forza colpire qualcuno!
Nel corso della settimana di Natale proseguono le perquisizioni, le intimidazioni. Viene rilasciato l'unico fascista arrestato in possesso di pistola 7,65 tirata fuori all'ospedale S. Camillo per far curare un camerata che gli infermieri non volevano accettare (i fascisti faranno esplodere per ritorsione una bomba al S. Camillo).
Dopo i fatti, le indicazioni
Alcuni gruppi (AO, LC) hanno parlato di Monteverde come dell'apertura della campagna nazionale per l'MSI fuorilegge. A noi sta bene, è proprio ciò che intendiamo anche noi quando gridiamo: " L' MSI fuorilegge ce lo mettiamo noi e non chi lo protegge", ma ci coglie il sospetto che per loro non sia esattamente così. Sentiamo parlare di firme, di leggi e,non per dare lezioni a chi non ne ha bisogno, ma non abbiamo mai sentito dire che i fascisti si battano con le leggi, o con le firme! Non negheremo certo a chi ce la chiederà una firmetta, ma vorremmo ricordare a questi compagni che a Monteverde i fascisti sono di fatto fuorilegge non certo perché abbiamo raccolto firme ma perché ce li hanno messi e le lotte degli studenti e, ragione non trascurabile, un buon numero di bastonate di cui gli antifascisti non sono mai stati avari nei loro confronti. [...] Come al solito era assente il PDUP, questa volta non solo per autonoma volontà ma per decisione di tutte le forze rivoluzionarie. Che spettacolo desolante è stato fornito da questi riformisti prima e durante gli scontri di Domenica 22! Assenti durante la manifestazione, scomparsi e casalinghi durante le cariche della polizia. Il giorno dopo il loro giornale si permerteva definire i manifestanti e il PCI "avventuristi" gli uni per essere caduti nella provocazione, gli altri per non aver fatto niente per evitarla. E loro? Loro stavano nel giusto: l'antifascismo non si fa né in piazza, né difendendo le sedi ma a casa, in salotto con tanto di buon tabacco, wiskey e animata conversazione sulla lotta armata altrui!! Sappiamo benissimo che i fascisti non sono un problema isolato, che trovano soldi e protezioni nei governi e negli industriali democristiani, che non si può parlare di fascisti senza pensare al Sid, alla polizia, alla magistratura; che i fascisti non sono che una delle armi con cui il sistema attacca le lotte e le organizzazioni del proletariato. Ma proprio per questo, quando parliamo di fascisti, non ci vengono in mente firme o leggi; quando cerchiamo l'unità antifascista, non la cerchiamo ad ogni costo scordandoci con chi la andiamo a fare. Anzi proprio perché sappiamo benissimo che i fascisti non sono un problema isolato bensì legato alle scadenze di ogni giorno - aumento dei prezzi, ristrutturazione, attacco repressivo al movimento rivoluzionario - l'unità antifascista (e su questo saremo settari fino in fondo) la facciamo solo con chi lotta al nostro fianco tutti i giorni con chi insieme a noi cerca di organizzare il proletariato sui suoi bisogni e non certo con chi sempre più spesso sta dall'altra parte della barricata e chiama provocatori gli antifascisti, e "fascisti" quei lavoratori che non hanno accettato la sconfitta storica del movimento e che fuori dal riformismo e dalla sua gabbia lottano contro i padroni per il potere proletario. [...]
da "Rivolta di classe", febbraio '75
Roma - Sono autonomi? Sparate a vista!
FEBBRAIO
Il 24 inizia il processo dell'anno: quello del rogo di Primavalle. P.le Clodio viene preso d'assalto da tutta la teppa fascista protetta da centinaia di agenti in assetto di guerra. I compagni sono pochi poiché l'opportunismo dei gruppi è tanto, Lollo è intimidito dagli stessi avvocati fascisti che gridano in aula: "Lollo libero che lo impicchiamo noi". Il compagno avvocato Di Giovanni viene preso a spintoni (pochi giorni prima davanti il suo studio erano esplosi 2 kg di tritolo), un giornalista malmenato. Il 25 ci si organizza meglio, la presenza alle transenne è fin dalle 6.30, i picchiatori fascisti che il giorno prima l'avevano fatta da padroni perdono lo scontro e si sfogano rompendo i vetri del tribunale. I giornali denunciano il comportamento passivo della polizia di fronte all'assedio fascista. Il 28 i gruppi si decidono a scendere in piazza. La polizia carica, gli scontri si succedono con varie auto che vanno a fuoco, viene arrestata la compagna Simonetta Riccio per porto di materiale incendiario: sarà condannata per direttissima a 1 anno e 5 mesi con la condizionale. A via Ottaviano staziona da giorni un presidio di fascisti che fa la spola con P.le Clodio e terrorizza chiunque passi vicino la sede. Dopo gli scontri della mattinata la polizia spinge i compagni verso la zona di via Ottaviano. Verso le 13 avviene lo scontro tra fascisti e compagni. I fascisti sono armati di tutto punto, hanno come base d'appoggio la sede del MSI con 2 entrate, alcuni appartamenti del palazzo ove è situata la sede. Alla fine dello scontro si sentono degli spari, un giovane cade, è il fascista greco Mantekas (colui che organizza da giorni il servizio d'ordine presente a P.le Clodio, dirigente del FUAN, iscritto al movimento 4 Agosto greco, il nostro Ordine Nuovo). La Stampa inizia una forsennata campagna contro Via dei Volsci: le veline della polizia vengono imposte a tutti i giornali. Fabrizio, nonostante un comunicato diramato alla stampa dalla sua organizzazione, diventa il vice-capo dei delinquenti di Via dei Volsci. Il «Secolo» invita al linciaggio. «Paese Sera» e «Unità», dopo aver dato le notizie con obiettività, si lanciano a capofitto nella campagna di menzogne e di falsità. Viene ricercato un altro compagno, compagno Loiacono (ex di Potere Operaio), reo solo di aver fatto a botte la mattina in tribunale con il fascista D'Addio e da questi indicato per vendetta come possibile sparatore: manco a dirlo Loiacono diventa di via dei Volsci e giù fango e calunnie contro via dei Volsci. Collettivi di via dei Volsci vengono schedati dalla stampa come criminali, mentre si lascia la piazza ai fascisti; i gruppi opportunisti piangono il mostro e si coprono con l'ombrello riformista.
da "Rosso", aprile '75
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merda la foto era trop grande
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176-671 Friday, Dec. 27, 2002 at 4:03 PM |
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scusate.......
comunque c'é un'altra parte, sulle giornate d'aprile
3 giorni 4 morti
MERCOLEDI 16 APRILE
Ore 19 MILANO: in piazza Cavour lo studente Claudio Varalli del MS, di 17 anni, è ucciso, al termine di una manifestazione per la casa, da un fascista con un colpo di pistola alla tempia. L'assassino, che riesce a fuggire, viene individuato in Antonio Braggion, militante di Avanguardia Nazionale, in libertà provvisoria per le numerose aggressioni a militanti di sinistra.
Ore 2l,3O MlLANO: un immediato corteo in risposta al grave fatto di sangue, si muove dall'Università Statale e si ferma sul luogo dell'assassinio.
Ore 24 MILANO: viene assaltata la sede del "Giornale nuovo" di Indro Montanelli che dava una versione dei fatti vedendoli come scontro tra opposti etremismi.
GIOVEDI 17 APRILE
MILANO: nella mattinata un massiccio corteo sfila per le strade della città fino a piazza Cavour. Gli slogans sono molto duri (per es. «le sedi fasciste si chiudono col fuoco, anche se questo è ancora troppo poco»). Al termine del comizio un nutrito corteo parte verso piazza 5 Giornate.
Fra le 8,30 e h 12,30
MILANO: viene assaltato il bar Donini (in piazza S. Babila) frequentato, pare, da fascisti. Devastati 3 bar in via Plinio, viale Romagna, via Borgogna, pare siano ritrovi fascisti. Assaltati gli uffici della compagnia aerea spagnola «Iberia» in via Albricci. Devastate 2 sedi MSI in via Murillo e in via Guerrini. lncendiata la sede milanese dello «Specchio». Viene assalito e ridotto in gravi condizioni (ma si salverà) il consigliere provinciale MSI Cesare Biglia in via Camminadella mentre usciva di casa con la moglie. Devastato il bar "Gin Rosa" (in piazza S.Babila). Frequentato da fascisti. Devastata la cartoleria "Tecnica" in via Custodi. Assaltata l'agenzia di viaggi «Utras». Devastato e incendiato un bar Alemagna. Tentativo di assalto e incendio della sede MSI di via Mancini da parte del corteo. I carabinieri rispondono con lancio di candelotti e colpi d'arma da fuoco. Il corteo risponde a sua volta: 11 automezzi dei carabinieri bruciati. Le forze dell'ordine scappano disordinatamente.
PAVIA: tentato assalto alla sede del MSI. La polizia risponde sparando (2 feriti).
BERGAMO: tentativi di assalto a 2 sedi MSI. La polizia spara raffiche di mitra.
LOVERE: assaltata e incendiata la locale sede MSI.
BARI: un fascista spara per strada e ferisce un passante.
Ore 12,40 MILANO: i carabinieri uccidono Giannino Zibecchi dei Comitati di vigilanza antifascista. Un camion facente parte di una colonna dei C.C. dopo numerosi caroselli si dirige sul marciapiedi contro coloro che stanno fuggendo, e, sterzando, gli passa sopra. Egli giace a terra, privo di vita, chi accorre verso di lui ha appena il tempo di vederne il viso orrendamente sfigurato e il cervello che giace a poca distanza dal cadavere, poi deve fuggire per scampare ai colpi d'arma da fuoco sparati da carabinieri. Un carabiniere dichiarerà: "non credevo che un comunista avesse un cervello così grosso. ." Il luogo è l'angolo fra via Cellini e corso XII Marzo. L'uccisore è il carabiniere Sergio Chiarieri. L'arma è il camion dei C.C. targato E.I. 601206.
Ore 13 MILANO: tentativo di assalto alla caserma dei C.C. di via Fiamma, questi rispondono sparando all'impazzata dalla strada e dalle finestre, vengono incendiati altri automezzi della forza pubblica.
Ore 16 MILANO: viene assaltata la libreria Rusconi in via Turati.
Ore 18,30 MILANO: il portavoce della questura Franco La Torre dichiara che le forze dell'ordine non hanno fatto uso d'armi da fuoco. Il ministro Gui, da Roma, conferma. Le fotografie, i bossoli di proiettili in dotazione all'Esercito, giornalisti presenti, li smentiscono.
Ore 19
MILANO: un corteo parte dlla Statale e va in piazza Cinque Giornate. Viene aggredito Rodolfo Mersi, fascista, amico di Bertoli, sindacalista della CISNAL.
GENOVA: viene lanciata una bottiglia Molotov contro l'associazione Mutilati e Invalidi della R.S.I.
Ore 22 TORINO: Tonino Miccichè, ex operaio di linea alla FIAT, militante di Lotta Continua, viene ucciso con un colpo di pistola in mezzo agli occhi da Paolo Fiocco, guardia giurata dei «Cittadini dell'ordine» simpatizzante della CISNAL. Da mesi Miccichè era all'avanguardia nell'occupazione delle case popolari alla Falchera.
VENERDI 18 APRILE
Ore 10 MILANO: un imponente manifestazione muove dall'Università Statale.
Tra le 10 e le 12
MILANO: durante il corteo vengono date alle fiamme alcune auto delle varie polizie private. Assaltato un bar in piazza F.lli Bandiera. Gli studi di 2 avvocati missini sono assaliti, uno va in fiamme. Lo studio dell'avvocato Benito Bollati in via L. Manara 11 va a fuoco, lo studio del senatore Gastone Nencioni in corso Porta Vittoria 32 viene salvato per poco dalle fiamme. Viene assaltata la sede del giornale «Il borghese».
TORINO: viene incendiata la sede MSI di corso Francia.
ROMA: viene assaltata la sede CISNAL di via Principe Amedeo.
CAGLIARI: una velocissima incursione devasta e incendia la sede CISNAL.
Ore 12 MILANO: il corteo di circa 30.000 persone si chiude in piazza Duomo con un comizio.
Ore 12.30 MILANO: alcuni gruppi di persone si staccano dal comizio. Assaltata e incendiata la sede CISNAL di via delle Erbe 1 . Assaltata e devastata la sezione PSDI di via Dogana 4.
Ore 21 ROMA: assalita la sede MSI di via Signorelli, i fascisti sparano numerosi colpi di pistola. Per uno di questi colpi Sirio Paccino dei collettivo di Monteverde, resta ferito alla spina dorsale. Paccino viene poi arrestato sulla base di una fragile e traballante accusa. Probabilmente Paccino resterà paralizzato. Nessun missino è ancora stato seriamente incrimimato, mentre Paccino è accusato di detenzione di «molotov» e di danneggiamenti.
SABATO 19 APRILE
Ore 1 MILANO: è data alle fiamme la sezione "Prampolini" del PSDI in via Mar Jonio. Durante la notte la polizia arresta 17 persone. Molti di questi sono "commontisti". Sembra che fra costoro ci fosse un informatore della polizia.
Ore 19,05 FIRENZE: durante scontri la polizia spara ancora. Uccide Rodolfo Boschi del PCI e ferisce ad un braccio Francesco Panichi dei Collettivi Autonomi. Nove agenti in borghese con fazzoletti bianchi sul viso picchiano coi manganelli e sparano; vengono visti da parecchie persone. Non si sa a quale reparto appartengono. A sparare è stato l'agente della squadra politica Orazio Basile (....si ho sparato... ma in stato di legittima difesa...). Panichi viene accusato dell'omicidio (anche il PCI avalla questa tesi). L'accusa si basa su elementi estremamente fragili.
DOMENICA 20 APRILE
Ore 15 BARANZATE: i funerali dello studente Claudio Varalli vengono svolti a Baranzate (periferia di Milano) in forma privata. Erano presenti oltre 20.000 persone della sinistra rivoluzionaria.
LUNEDI 21 APRILE
Ore 15 MILANO: si svolgono i funerali di Giannino Zibecchi. dietro allo striscione "Ora e sempre Resistenza" erano presenti 50.000 persone.
Ore 24 SESTO S. GIOVANNI: vengono lanciate alcune bottiglie molotov dentro lo stabilimento "Rotopress" di via Di Vittorio 232. Nella tipografia sono stampati il "Candido" e lo "Specchio".
da "Nuvola rossa" giugno 75
Le giornate d'aprile
Le giornate dell'aprile 1975 resteranno a lungo nella coscienza dei militanti rivoluzionari. Non solo perché i caduti sotto il fuoco dei fascisti e della polizia vanno vendicati, non solo perché le tremende responsabilità repressive del potere vanno denunciate e colpite. Ma soprattutto perché queste giornate rappresentano un primo punto di arrivo, vittorioso, del movimento autonomo di classe nella lotta contro il riformismo, per il comunismo. I padroni, lo Stato, i riformisti non se l'aspettavano. Malgrado la pedante e continua opera di provocazione che mettono ogni giorno in piedi, che nutrono con tanta amorevolezza, non se l'aspettavano davvero che "gli sparuti gruppuscoli" dell'autonomia operaia e proletaria esplodessero in un incontenibile movimento di massa. E invece le cose erano andate esattamente come noi da anni ripetevamo: il cumularsi continuo dell'insubordinazione autonoma del proletariato, l'insieme dei mille comportamenti di violenza e di sovversione che il proletariato necessariamente produce nella sua lotta incessante contro la crisi e contro lo Stato, tutto questo doveva rovesciarsi in un momento di attacco complessivo, che come tale ha la capacità di spostare tutti i termini della lotta politica in Italia e di spazzare via tutte le stupide mistificazioni che i padroni, lo Stato e i riformisti dai loro giornali e dai loro pulpiti propagandistici mettevano in giro. Il loro odio per l'autonomia è stato tale che alla fine non la vedevano più, erano essi stessi intrappolati dalle mistificazioni che avevano prodotto. Perciò, quello che il punto di vista di classe vedeva e attendeva, essi non potevano né vedere né prepararsi a reprimerlo. Così è esploso questo formidabile impero dell'autonomia proletaria ed operaia, così s'è realizzato e consolidato il potenziale rivoluzionario delle masse. D'ora in poi tutti dovranno vederlo, tutti dovranno averlo continuaniente sotto gli occhi, e sapranno bene che ogni esorcismo è impossibile e dannoso. Ma le giornate d'aprile non sono solo un fatto quantitativo non sono solo il prodotto delle lotte continuamente prodotte dell'autonomia. Sono anche un fatto qualitativo. Una nuova generazione di militanti ha preso la testa del movimento. Sono quelli che non avevano fatto il '68, che hanno appreso la gioia della lotta attraverso le battaglie di questi anni: sono i compagni per i quali la lotta di appropriazione e per il comunismo è una parola d'ordine immediatamente attiva. Aprile '75: luglio '60. Quante somiglianze hanno quelle e queste giornate! Una violenza dura, una determinazione che solo le nuove generazioni sanno presentare, una settaria volontà di scontro e di affermazione, una primavera di lotta. A via Mancini, durante gli scontri, ad ogni camionetta incendiata i compagni si abbracciavano felici. La rozzezza, la brutalità bestiale dell'avversario, la sua natura porcina: tutto questo viene in mente subito al confronto della gioia della lotta e della determinazione ideale dei compagni in lotta. Tutto questo mostra la continuità ininterrotta del movimento operaio e proletario in Italia, mostra come si siano illusi tutti coloro che credevano di averlo bloccato: continuità nella diversità, continuità nelle diverse generazioni che nella lotta portano l'urgenza e la novità dei loro bisogni, della loro determinata volontà di comunismo . E' per questo che l'intera mistificazione delle lotte e della continuità del movimento che padroni, Stato e riformisti avevano tentato di mettere in piedi dal '68 ad oggi va in frantumi. Essi - tutti d'accordo - avevano tentato di ingabbiare le lotte operaie e i bisogni proletari dentro il livello istituzionale, attraverso l'antifascismo come momento di unità del potere. Sotto la coperta dell'antifascismo essi facevano i loro giochi tentando in questo modo di sganciare le avanguardie dal movimento di massa, il movimento delle fabbriche da quello dei proletari, il movimento giovanile da quello popolare. Bene, tutto questo le giornate d'aprile lo hanno distrutto. Le masse, le nuove generazioni hanno dimostrato di saper vedere dov'è il fascismo: non certo solo laddove vogliono mostrarcelo, ma soprattutto altrove, nella polizia in tutte le strutture dei corpi separati dello Stato, nel riformismo, nel terrorismo della socialdemocrazia e delle multinazionali. E' questo che nelle giornate di aprile è stato attaccato, è l'«ordine istituzionale» che è stato denunciato, è l'orizzonte politico della socialdemocrazia e del riformismo che è stato incrinato. Il PCI, attore fondamentale della mistificazione del '68, esce da queste giornate spostato a destra in termini definitivi. Probabilmente, oggi, dopo i comportamenti «responsabili» che ha avuto durante le giornate di aprile, il compromesso storico è più vicino: ma la faccia della repressione comincia ad averla anche lui, e come! I compagni scoprono che il PCI è quello che l'autonomia denuncia da sempre: il partito del compromesso sulla pelle dei lavoratori, contro i bisogni delle nuove generazioni. Il compromesso storico appare oggi per quello che è: alleanza centrista per mantenere l'ordine, costi quel che costi, - sia pure l'espulsione di un compagno colpevole di essersi fatto uccidere dalla... polizia. Ma stiamo attenti. Queste giornate di aprile non sono solo la scoperta di un formidabile potenziale di forza rivoluzionaria, non sono solo denuncia e la liquidazione di tutta una fase politica impiantata sulla mistificazione delle lotte, - queste giornate avranno effetti istituzionali determinanti. E' troppo tardi perché il PCI possa tornare indietro dall'infame budello nel quale si è cacciato. Gli apparati repressivi dello Stato, sotto la guida della DC, con la connivenza del PCI, verranno perciò sviluppati. Tutto l'insieme del totalitarismo repressivo dello Stato contemporaneo verrà affinandosi secondo le linee di tendenza che paesi come gli Stati Uniti e la Germania Federale mostrano. Tanto più cocente è il senso della sconfitta riportata in questi giorni, tanto più forte sarà l'accordo che Stato, riformisti e padrone metteranno in piedi contro le lotte. Sulla sconfitta e sulla terribile disillusione, sulla paura che hanno sentito, su tutti questi elementi la repressione tenterà di presentarsi con maggior forza. Stiamo quindi attenti. Non sottovalutiamo la forza dell'avversario. Ma con realismo rivoluzionario vediamo anche l'altra faccia della medaglia: e cioè i nuovi rapporti di forza che oggi le giornate di aprile fissano per l'intero movimento rivoluzionario. Rapporti di forza che permettono di rilanciare il programma dell'autonomia, il programma dell'appropriazione e della lotta contro il lavoro salariato.
da "Rosso", aprile '75
Firenze: la polizia spara. psss... è una provocazione!
Il 18 aprile, a Firenze, la polizia spara e ammazza un compagno, Rodolfo Boschi militante del PCI e ne ferisce un altro, Francesco Panichi, militante dell'Autonomia Operaia; il PCI stravolge la figura di Boschi facendolo diventare, da antifascista militante e sincero qual' era, un ignaro e occasioale passante; salva la faccia alla polizia scaricando su Panichi la responsabiità dei fatti e lo manda in galera per tentare di placare la collera operaia e proletaria e sviare così i contenuti della risposta antifascista che sorgeva spontaneamente già dopo gli assassini di Milano. Alla manifestazione indetta dall'ANPI a poche centinaia di metri dalla Federazione del MSI, la partecipazione è di massa e militante. Ma prima ancora che il corteo si formi la polizia, presente in gran numero a proteggere la sede fascista, carica i gruppi di compagni che si trovanosparsi tra il luogo del concentramento e la sede del MSI. A questo punto l'ANPI, per evitare gli scontri che si andavano moltiplicando, sposta immediatamente i compagni in Piazza S. Marco per il comizio (molto breve) al termine del quale gli scontri con la polizia si proraggono fino a tarda sera in tutta la zona. Boschi, impiegato dell'ENEL, fa parte da tempo del servizio d'ordine del PCI e durante il concentramento per la manifestazione dell'ANPI partecipa al presidio delle strade che conducono alla sede del MSI. Più tardi, in via Nazionale, la scena che già più volte e in vari luoghi si era ripetuta durante tutta la giornata: una squadra di «picchiatori» composta da 9 individui in borghese, sta sprangando un compagno della sinistra extraparlamentare. Boschi insieme ad altri compagni, è nelle vicinanze e di fronte al brutale pestaggio fa per intervenire così come fa Panichi che stava cercando la sua ragazza; i pistoleros di Stato prendono la mira e con molta precisione sparano su Boschi e Panichi: il primo è colpito al capo e muore, il secondo viene ferito all'ascella (molto vicino al cuore). La notizia si sparge rapidamente per Firenze e in tutta Italia. La base del PCI rumoreggia e vuole dare una risposta concreta: due case del popolo prendono ufficialmente posizione contro l'ennesimo deliberato assassinio di Stato. Ma a questo punto interviene la direzione del PCI che impedisce l'uscita dei volantini già pronti ed emette un comunicato «ufficiale» in cui si afferma la totale casualità della presenza di Boschi in via Nazionale e si addossa di fatto la responsabilità della sua morte, non alla polizia, ma al provocatore di turno che per l'occasione è bell'e pronto: Panichi. A Firenze dunque il PCI tenta di giocare una grossa carta sull'ordine publico accreditando ancora una volta la tesi del «poliziotto proletario e figlio dei popolo» e nel contempo, cercando con tutti i mezzi di offrire di sè e della sua base un'immagine che sia la più pacifica possibile. Ed è proprio per nascondere la realtà della ribellione ideale e pratica di Boschi come di tutta la sua base, che il PCI si inventa di sana pianta la storia della provocazione di Panichi per colpire così tutta la sinistra rivoluzionaria e in particolare l'Autonomia Operaia. Ma il PCI a Firenze è anche un partito di potere e in quanto tale lo esercita in qualsiasi occasione approfittando ignobilmente persino del clima creatosi con l'uccisione di Boschi per risolvere le sue beghe interne. Non a caso infatti la pubblica dichiarazione di accusa contro Panichi viene fatta leggere in un comizio al Sindaco di Scandicci, personaggio ormai bruciato per il partito che farà subito in modo,a seguito della immediata querela di Panichi, di silurarlo definitivamente! Ma fra tanta miseria e tanta bassezza la verità che comunque si vuole soffocare è che il 18 aprile a Firenze la base del PCI, gli studenti e gli operai tutti, erano scesi in piazza duramente contro la DC e i fascisti per contrapporre i fatti all'antifascismo parolaio e per dire basta a commemorare ancora i propri morti. Riaffermare questa verità significa fare giustizia non solo della «verità di Stato» ma soprattutto fare giustizia delle tesi che revisionisti e opportunisti cercano di accreditare sui fatti di via Nazionale, restituendo a Boschi quella dignità di antifascista militante che si vuol sacrificare, insieme alle calunnie e al carcere per Panichi, sull'altare del compromesso storico. Ma significa anche che vanno battute quelle tesi opportuniste di chi vuole oggi Panichi, innocente, si, ma in galera per coltivare nel proprio orticello un nuovo caso Valpreda e salvare così la faccia al PCI.
da "Rivolta di classe", maggio 75
Sottoscrizione nazionale per Sirio Paccino
Il compagno Sirio Paccino, generosa figura di antifascista di Monteverde militante dell'Autonomia Operaia, rischia di restare paralizzato in seguito ad un colpo di pistola sparatogli alle spalle dai fascisti il 18 aprile. Il proiettile trapassandogli la spina dorsale, gli ha bloccato forse per sempre l'uso delle gambe. Le cure particolari in Belgio e i fisioterapisti specializzati necessari per avere la speranza futura di riacquistare l'uso delle gambe costano un sacco di soldi che esulano dalle possibilità materiali della famiglia. Spetta al movimento operaio e rivoluzionario garantire a Sirio tutte le cure necessarie; per questo lanciamo una sottoscrizione nazionale per raccogliere in ogni scuola, nei quartieri, nei posti di lavoro i fondi necessari per Sirio, spedendoli a mezzo conto corrente postale a:
DARIO PACCINO C.C.P. 1/73749
Compagni, impegnamoci in questo contributo solidale con un compagno che ha saputo, con la sua militanza, indicare la strada della lotta antifascista restituita all'iniziativa pratica delle masse e non a vuote e cadenti celebrazioni. Impegnamoci in questo momento di aperta sfida al movimento operaio e rivoluzionario da parte delle forze reazionarie e fasciste. Rispondiamo nelle piazze allo stato di polizia e all'infame legge Reale. Solidarietà per Sirio Paccino. Libertà per tutti i compagni arrestati.
Il Comitato Promotore
Dichiarazione della madre di Sirio all'indomani del ferimento del figlio
Compagni, lavoratori, studenti, la grossa e pronta risposta antifascista che le scuole di Monteverde hanno saputo mettere in piazza è stata per mio figlio Sirio, per me e mio rnarito, l'unica prova reale di solidarietà antifascista con quella di tanti altri compagni i cui partiti, purtroppo, avallano la tesi degli opposti estremismi. Questa mobilitazione dimostra come il comportamento antifascista di mio figlio, in un momento in cui i rivoluzionari sono scesi in piazza per mettere fuorilegge effettivamente i fascisti, sia giusta e recepita dalle masse dei lavoratori, degli studenti, degli sfruttati. Non consideriamo nostro figlio Sirio un avventurista, né gli altri compagni antifascisti che hanno pagato un caro prezzo pur di continuare a lottare. Avventurista è chi, in momenti come questi, non scende in piazza e delega l'antifascismo a chi organizza e sovvenziona i fascisti.
Siamo con nostro figlio Sirio, con tutti gli antifascisti.
da: "Rivolta di classe" maggio '75
Quale Resistenza?
Fanfani e Berlinguer hanno festeggiato il 25 aprile a modo loro, con un pò d'anticipo ma indubbiamente con molta chiarezza; i quattro morti, decine di feriti e di arrestati sono il prezzo pagato per la difesa delle istituzioni repubblicane. Non permettiamo che la retorica ufficiale copra ancora una volta gli assassini di Stato: la compattezza e la determinazione della risposta di massa di questi giorni d'aprile non lasciano più spazio al rituale antifascista istituzionale delle medaglie e dei gonfaloni. La festa alla Repubblica la sta già facendo la classe operaia, anche se il conto non si è chiuso. La campagna elettorale aperta co gli assassini e il terrorismo di Stato si è tradotta in guerra civile, con gli scontri di piazza, i covi fascisti chiusi col fuoco, gli assalti alle caserme dei carabinieri, alle sedi della confindustria e del PSDI. Questa è la faccia operaia e proletaria del 25 aprile. E' la continuità delle lotte partigiane, degli scioperi del marzo del '43 e del '44, della resistenza popolare e della lotta armata, dell'azione dei Gap, di tutte le lotte contro il sistema. Oggi celebriamo il 25 aprile 1975 vendicando con la lotta per il comunismo i compagni Varalli, Zibecchi, Micciché, Boschi e tutti gli altri assassinati in questi trent'anni di "libertà repubblicana" da Melissa a Reggio Emilia, da Avola a Battipaglia. In questi trentanni la classe operaia e il proletariato sono cresciuti. L'autonomia operaia ha sconfitto i compromessi, i tradimenti, la repressione. Luglio 1960, autunno 1969, aprile 1975: queste sono le tappe di massa del nostro cammino.
Dove non arriva la polizia...
A sentire le dichiarazioni di Moro Fanfani e Berlinguer si ha la misura di quanto sia maturo il compromesso storico. Le norme «democratiche» sull'ordine pubblico sono entrate in funzione di fatto al di là di ogni dibattito parlamentare. L'ordine pubblico, lo abbiamo visto in azione, è l'ordine antioperaio, la violenza organizzata di uno stato criminale che vuole criminalizzare le lotte di massa degli operai e degli studenti. Tra i tutori dell'ordine emerge, con incredibile durezza, Berlinguer. Il partito comunista italiano, con disgustoso accanimento, fa a gara con le questure nel dare la caccia ai compagni, nell'accreditare la tesi degli opposti estremsmi, nella repressione delle forze rivoluzionarie. Il comunicato della Federazione fiorentina infatti non esita a sacrificare la morte di un suo militante a questa tesi pur di giustificare l'operato della questura e dell'antiterrorismo e di incolpare un compagno rivoluzionario.
Organizziamo l'autonomia operaia
Con i nuovi livelli di scontro proletario, di fronte alla sempre crescente capacità di organizzazione della classe operaia, il «cretinismo parlamentare» del PCI si è progressivamente trasformato in un disegno politico repressivo soggettivamente funzionale al progetto statale di restaurazione borghese. Ma repressione e ristrutturazione, crisi e disoccupazione non spezzano la forza operaia. Le mobilitazioni di massa di questi giorni e il livello di scontro e di autonomia raggiunti in tutt'Italia indicano quale resistenza allo Stato la classe operaia è in grado di produrre. Consiste nella lotta incessante allo sfruttamento, nella costruzione di spazi di potere in fabbrica e nella società, nella capacità di rifiutare il lavoro salariato e l'alienazione del «vivere sociale». Autoriduzioni e appropriazioni, riduzione dell'orario di lavoro e occupazioni di case, estraneità e lotta per la la liberazione sono il terreno sul quale è cresciuta la violenza degli sfruttati che contrasta la legalità dello Stato e impone con la critica delle armi la nuova legalità, quella dei bisogni sociali delle masse, del comunismo.
Aprile '75
COLLETTIVI POLITICI OPERAI
COORDINAMENTO COLLETTIVI AUTONOMI STUDENTESCHI
COLLETTIVI AUTONOMI UNIVERSITARI
Di fronte a questa determinatezza e all'estendersi a macchia d'olio di una pratica di antifascismo militante non fine a se stessa, ma legata e concatenata alla pratica complessiva di lotta dell'Autonomia operaia, il potere, ben coadiuvato dal PCI, cerca in tutti i modi di colpirla servendosi per le sue provocazioni di fascisti in divisa e in borghese e cercando ancora una volta di costruirsi morti in casa come aveva già sperimentato con l'incendio di Primavalle. Si tenta così di confondere le idee all'opinione pubblica presentando i fascisti che vengono sacrificati per questi giochi come dei bravi «angioletti» per nulla coetanei dei vari Nico Azzi, Ferrari, ecc., responsabili di innumerevoli stragi proletarie come quella di Brescia e dell'Italicus. Ma la pratica dell'antifascismo militante è ormai estesa a settori sempre più vasti di movimento che non intendono affatto ripercorrere cammini lunghi e tortuosi, intrisi di vuota democrazia e tiepido innocentismo da riscattare ancora e ancora con altro sangue proletario. Di sangue versato, di morti da piangere il proletariato ne ha fin troppi e non intende più che ciò accada per mano delle canaglie fasciste.
Anticipare i fascisti
Le fucilate sparate la sera del 29 ottobre davanti alla sezione missina di via Gattamelata, con l'uccisione di un fascista e il ferimento di un altro, hanno subito rinnescato in tutta Roma lo schema di provocazione e di strumentalizzazione politica gestita congiuntamente da fascisti e polizia già sperimentato ai tempi del processo Lollo. Il fatto di per se stesso rimane ancora avvolto nel più fitto mistero. La pista dei NAP subito strombazzata da tutta la stampa, e filtrata dalle veline della polizia, è fortemente smentita dallo stile stesso delle precedenti azioni di questa organizzazione. Così come per il rogo di casa Mattei va fatta una precisa opera di controinformazione sulle attività «collaterali» della sezione di via Gattamelata di cui tutto il quartiere parlava ormai da tempo. La tecnica del morto fascista costruito in casa non è certo una novità per rilanciare l'attività missina dopo le pesanti batoste subite e dopo il crimine commesso dai neri al Circeo. Per questo va fatto il massimo di chiarezza negli atteggiamenti opporunisti manifestati da gruppi come Lotta Continua sul fatto che il fascista ucciso fosse soltanto un "ragazzino". Sappiamo bene che di questi ragazzini, dalle bombe sui treni a quelle di Milano e di Brescia, alle aggressioni quotidiane contro i compagni, all'assassionio di Maria Lopez, sono ormai piene le cronache. Lo stesso fascista ucciso girava armato di uno di quei coltelli che sono l'armamento usuale, assieme a spranghe e pistole, degli assalti che partono quotidianamente da sezioni missine come quella di via Gattamelata. Subito dopo le fucilate di via Gattamelata i fascisti entrano in scena con ripetuti assalti alla vicina sede del PCI. Nel corso della notte una loro squadra penetra dentro S. Lorenzo per aspettare il rientro di un compagno a casa. Sbagliano persona e freddano a colpi di 38 un giovane del quartiere, Antonio Corrado. Venerdì c'è la messinscena dei funerali ed un comizio di Almirante in piazza SS. Apostoli. Mentre LC e AO si radunano a S. Maria Maggiore subito sloggiati dalla polizia, numerosi compagni si danno appuntamento sulla Prenestina dove si svolgono i funerali, impedendo di fatto ai fascisti di compiere qualsiasi bravata. Una macchina con quattro noti picchiatori fascisti viene fermata e data alle fiamme, mentre dai giornali si apprende che gli occupanti sono finiti all'ospedale. Durante il comizio Almirante dichiara apertamente guerra ai collettivi di via dei Volsci; dichiara il compagno Daniele Pifano responsabile di tutto armando così la mano ai suoi killer e a quelli di Stato per tentare di ammazzarlo. Alla fine del comizio i fascisti ritentano la scorribanda compiuta ai tempi di Mantekas, ma questa volta numerose zone di Roma sono presidiate dai compagni. Arrivano ai limiti di S. Lorenzo, assaltando a colpi di pistola la sede del PCI di via Cairoli. Il compito di fare irruzione a S. Lorenzo viene ancora una volta lasciato alla polizia, che tenta prima una provocazione armata alla sede di via dei Volsci, subito respinta dai compagni e dai lavoratori del quariere, e subito dopo l'assalto alla vicina sede di LC con lacrimogeni e colpi di mitra, e arresta un compagno. In questi giorni prosegue costante la mobilitazione per togliere qualsiasi spazio alla strumentalizzazione e alla provocazione fascista, che già questa volta non è riuscita a ripetere quello che aveva fatto ai tempi di Mantekas. Nelle scuole e nei quartieri i fascisti devono essere anticipati nelle loro iniziative autioperarie, vanno ricacciati ancora più nelle fogne in cui vivono e messi alla gogna dalle masse. In quanto alle minacce di Almirante, stiamo molto attenti i suoi killer, perché non sempre troveranno giovani come Antonio Corrado, del cui sangue dovranno comunque rispondere di fronte al proletariato.
da: "Rosso", novembre 75
ciao carissimi, alla proxima
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La costante autonomistica sarda
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grazia deledda Friday, Dec. 27, 2002 at 4:48 PM |
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La Lega viene ascoltata sempre,e propongono il SECESSIONISMO;a noi invece ci ignorano sempre e proponiamo solamente l'indipendentismo !!!
Associazione tra gli ex Consiglieri Regionali della Sardegna
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GIOVANNI LILLIU
La costante autonomistica sarda
(Relazione svolta a Cagliari presso l’ITIS “Giua” il 26 febbraio 1999)
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1 - Dopo i lunghi tempi dell’indipendenza, la Sardegna ha avuto uno strano marchio storico: quello di essere stata sempre dominata (in qualche misura ancor oggi), ma di avere sempre resistito. Un’isola sulla quale è calata per secoli la mano oppressiva del colonizzatore a cui ha opposto, sistematicamente, il graffio della resistenza.
In questa dialettica perenne i Sardi sono riusciti a mantenere, anzi a sviluppare, l’identità di popolo e, da ciò sostenuti, a percorrere, senza sosta, un cammino di autonomia, per il riscatto e per il ritorno alla libertà dell’origine.
Si discute, dagli storici, sul quando e sul come sia nato questo sforzo di organizzarsi secondo il proprio genio, corrispondendo a un diritto di natura e di gente sarda specificamente e diversamente connotata.
Vi è chi opina di riconoscere il punto iniziale della coscienza e del moto autonomistico nel periodo giudicale, quando in una vasta parte dell’isola – quella dell’Arborea – si era realizzata l’autonomia statuale, al punto che gli stessi dominatori stranieri della parte restante vi riconoscevano la nacion sardesca. Altri storici sono d’avviso che i presupposti della questione sarda, in termini di autonomia, stiano nel cosiddetto “triennio rivoluzionario sardo”, cioè nei fatti verificatisi in Sardegna dal 1793 al 1796. Ma vi è infine chi pensa – io tra questi – che il punto critico del riscatto autonomistico vada collocato già al momento in cui la Sardegna fu spaccata in due dall’imperialismo cartaginese, alla fine del VI secolo a. C., perdendo l’unità nazionale morale e reale: il più grande dramma storico dell’isola. Allora fu travolta la lunga e feconda stagione dell’autonomia del popolo sardo e cominciò la storia millenaria della dipendenza isolana. Il modello cartaginese ha funzionato attraverso tanti altri troni e dominazioni per tutto il percorso storico della Sardegna sino al nostro tempo.
Infatti dalla dipendenza, per quanto si vadano cogliendo annunzi e attese liberatorie, i Sardi non ne sono ancora usciti, interamente. In quella drammatica circostanza sono nate le due culture che ancora distinguono e tormentano l’isola e i suoi popoli, è nata la dicotomia continente – mare, lo scontro libertà – integrazione, la questione della Sardegna. Fu allora che gli indigeni fuggiaschi, diventati veramente barbaricini per spazio geografico e per psicologia, dovettero pronunziare per la prima volta, nella genuina lingua sarda del ceppo basco – caucasico, il detto barbaricino “furat chie venit da e su mare”, “ruba chi viene dal mare”.
A quel nocciolo storico può risalire la formazione del tessuto culturale, il contesto socio – economico, la struttura spirituale e l’ordinamento giuridico (non ancora del tutto spento) dell’attuale mondo sardo delle “zone interne”: un mondo, come tutti sanno (e meglio, dopo le indagini antropogiuridiche del compianto Pigliaru), antico, chiuso ma reattivo, carcerato (come in una “riserva”) ma resistente e sprigionatore di autonomia.
2 - Scorrendo le fonti classiche, i frammenti che ci sono rimasti di quel paesaggio umano remoto della Sardegna in conflitto perenne con Cartagine e Roma dal VI secolo a. C. sino al I d. C., indicano la ripulsa del dominio e la determinazione di tornare a “su connotu”, la stagione dell’autonomia. Gli autori greci e latini ci dicono di capanne sperdute dove i pastori si cibano soltanto di latte e carne, scrivono di loro tecniche militari difensive consistenti nel mimetizzarsi in boschi e caverne e di sortite improvvise per atti di guerriglia di tipo “partigiano”. Ci parlano dei modi repressivi usati dai Romani, volti a snidare i ribelli con i cani poliziotto, quasi antesignani di quelli moderni, adoperati, anni fa, dai “baschi blu” nelle operazioni contro i “banditi” del Supramonte e più in generale nel Nuorese non integrato e resistenziale.
Conosciamo, dalla letteratura antica, stragi feroci di sardi, azioni di brigantaggio (così definite dai Romani come i nazisti chiamavano “banditi” i partigiani italiani della Resistenza) che costrinsero Tiberio a inviare nel 19 d. C., quattromila liberti ebrei coercendis illic (cioè tra le tribù montane) latrociniis. Sappiamo delle “bardane” dei Galillenses, annidati nei boschi dell’Ogliastra, che occupano periodicamente per vim i praedia dei Patulcenses Campani (i sardi collaborazionisti africanizzati e semitizati, poi romanizzati, del Basso Sarcidano, della Trexenta e di Parte Dolia), sottraendo messi e greggi dal III a. C. al 69 d. C.
Forse è venuto il tempo di spiegare alcuni eventi storici isolani, anche del Medioevo e dell’età moderna oltre alcuni dell’evo antico e contemporaneo, tenendo presenti questi meccanismi resistenziali: del grande scontro delle due culture del VI secolo a.C., della subcultura violenta della legge della montagna che esplode se accerchiata (la “riserva” barbaricina”). Ciò significa moderare i metodi di ricerca della storiografia tradizionale della storia politica – diplomatica che è piena di falsità (è la storia dei vincitori, storia di parte) ed anche quelli di una storiografia che vuole spiegare la resistenza sarda soltanto con ragioni economiche – sociali, in una contrapposizione di classi, senza aver riguardo alle profonde cause della “storia che sta nel non averne”, cioè le cause etniche – etiche intime alla convinzione nei sardi nel valore della propria cultura “minore” o “minoritaria” (in senso di diversità). Si tratta di tener conto dell’importanza determinante dell’elemento “popolo”, dell’elemento “civiltà” nella grande contesa sarda tra le due culture, dove sta il nocciolo vero, il plafond necessitante della resistenza costante, della conflittualità permanente, di una compiuta autonomia che ancora non c’è.
3 - Sono motivazioni etniche ed etiche, il senso e la ragione dell’appartenenza, che, ancora nel VI secolo d.C., tengono salde e compatte le indomite popolazioni dell’interno dell’isola, per un terzo della sua estensione: le civitates Barbariae con a capo Ospitone dux Barbaricinorum. E’ uno stato indipendente e sovrano ancorato alle tradizioni di lingua, cultura e costume e legato dalla religione primordiale nel culto delle pietre e degli alberi. Nel 549 d. C., il papa Gregorio Magno scrive un’epistola al governatore bizantino dell’isola Zabarda, residente a Forum Traiani (Xrisopolis), per ringraziarlo di aver collaborato a concludere l’accordo con Ospitone con la clausola di lasciare libertà di propaganda per il cristianesimo ai missionari pontefici Felice e Ciriaco. Impotente a occupare con le armi il territorio saldamente in mano delle Civitates Barbariae, l’abile funzionario venuto da Bisanzio si era rivolto al papa romano per trovare una soluzione politica, per la via pacifica della religione, d’uno scontro che durava da settant’anni. In tal modo si sarebbe potuto rimuovere il pericolo costante alla frontiera del territorio isolano in possesso dei Bizantini, dovuto alle reiterate violazioni, sconfinamenti e aggressioni delle forze “barbaricine”, imprese ritenute “banditesche” che mettevano in forse lo svolgimento regolare della vita, della società e dell’economia dei possedimenti imperiali. Se Ospitone e la sua gente si convinsero di convertirsi alla nuova religione, non cessarono i conflitti, tanto che il limes venne rafforzato con presidi di milizie locali (limitanei), tutto intorno alla roccaforte della Barbargia di Ollolai, centro del potere indigeno. E il magister militum, il governatore bizantino, dovette ristare ancora al Forum Traiani, capo-saldo della frontiera, ancora per 49 anni, sino al 598, quando la sede, rasserenato il clima, fu trasferita a Cagliari. La conversione al cristianesimo non estirpò tradizioni, costumi e statuti. Si abbatterono le pietre sacre degli antenati, ma restò il “codice barbaricino” (ancora oggi non del tutto rimosso) che punisce il furto in casa propria ma lo considera atto di guerra in terreno altrui e lava le offese e tutela l’onore personale e di gruppo vendicandolo col sangue. Un autogoverno, che può rasentare l’anarchia, un’eguaglitarismo quasi “solidarismo” che non ha radici soltanto nell’effimero scambievole economicistico e volgare, ma anche nel vincolo etico d’un sistema creduto e sofferto sia pure a livello di comunità di villaggio, quando non di regione o di popolo nel comune denominatore dell’antica e comune difesa storica da tutte le dominazioni e colonizzazioni. Un cristianesimo, quello di Ospitone, “libertario” e intriso di paganesimo, che ha lasciato traccia, se non umore, in quello odierno dell’antica “riserva barbaricina”.
4 - Un passo della Vita Ludovici imperatori (MGH, II, 632) fa parola del conte Bonifacio, prefetto della Corsica nominato da Ludovico I e preposto alla difesa generale dei possedimenti franchi nel Mare mediterraneo. Nell’anno 828, allestita una piccola flotta cui si aggiunsero il fratello Bernardo e altri, dopo aver perlustrato il mare senza trovarli, Bonifacio Sardorum insulam amicorum appulit. L’amicizia datava da tredici anni prima, da quando nell’815 legati di Sardegna si recarono alla corte dell’imperatore dei Franchi e d’Occidente per offrire doni non disinteressati. L’interesse stava nella necessità dell’impero d’Oriente, ancora sovrano della Sardegna, di avere aiuto dai Franchi contro gli Arabi per difendere il debole possesso, minacciato anche dai Sardi che già levavano voci di autonomia. Lo sbarco di Bonifacio è una forma di questo aiuto. Ovviamente un soccorso di “amicizia”, non uno stato di dipendenza della Sardegna dai Franchi. D’altra parte, nel quadro delle notizie sardo – franche, si può ravvisare la tendenza dell’isola, se non a staccarsi, non potendolo, dall’Oriente, a orbitare nell’area della nuova grande potenza occidentale, in un sogno di lontana libertà.
5 - La caduta dell’Impero di Bisanzio e la perdita dei collegamenti con l’Occidente (con gli stessi Franchi) danno la speranza ai sardi del riemergere dell’antica nazione. Si forma appunto un governo autonomo, con a capo dei giudici, forse anche per suggerimento della Chiesa bizantina che, a differenza dell’autorità civile, non aveva perso del tutto l’influenza, mantenendo la presenza fisica e il potere spirituale coerente ai tempi e determinante nello sviluppo, per aver riflessi anche di natura economica. In questo libero e in certa misura indipendente periodo di storia sarda, si colgono i presupposti politici e istituzionali della formazione dei giudicati nel secolo XI.
Ha scritto Umberto Cardia che il carattere autonomo del regime giudicale deriva dal fondo etnico e da un senso comune sociale e culturale che tende a realizzare l’unità di popolo e nazione. Un ordine “sovrano”, con soggettività statuale, si realizza alla fine del secolo XIV, nell’ambito del libero Giudicato di Arborea. Il quadro normativo è contenuto nella Carta de Logu, scritta il lingua sarda del tempo. Si palesa come un Regno indigeno (Barisone d’Arborea viene incoronato Re di Sardegna, in Pavia, da Federico Barbarossa, nel 1166). La memoria di questo Regno è rimasta nell’immaginario collettivo dei sardi, come istituzione di autonomia e di soggettività autonomistica, sino ai nostri tempi. Questa di Regno è un’idea centrale, un’idea forza che nutre circa centocinquanta anni di guerra d’una parte dei sardi contro lo straniero nell’isola. Un’idea pervasiva e resistente al punto che lo stesso conquistatore aragonese deve riconoscere alla Sardegna le caratteristiche di Regno, come continuum nel tempo della statualità giudicale. Ne mantiene, infatti, la legge e gli ordinamenti propri nel quadro istituzionale della corona di Spagna: i Parlamenti e gli Stamenti. E’ un farsi dell’autonomia come autogoverno, sia pure entro più ampi e dinamici sistemi statuali, con i quali non si confonde in quanto proprio d’un popolo che si identifica con una nazione: la nacion sardesca (così la titola il conquistatore iberico).
6 - Già dopo la conquista catalana – aragonese nel 1324 si manifesta un atteggiamento di opposizione non solo tra stato indigeno e stato invasore, ma tra elementi della società sarda e agenti della potenza dominante che tende ad occupare con suo personale tutti i gangli della vita ufficiale, laici e religiosi. Il nuovo ordine politico e la svolta ideologica ispanica si manifesta nei provvedimenti dell’Infante Alfonso d’Aragona prima e poi di Pietro IV il Giovane (1335) che fanno divieto di residenza e dimora nelle città e dintorni ai frati dell’Ordine dei Minori e dei Predicatori che non siano catalani e aragonesi. Forte la reazione, sino all’ostilità, dei frati sardi e corsi, in un sussulto di identità.
Con la fine del regno giudicale e, poi, del Marchesato d’Oristano nel 1478, a fronte della feudalità spagnola si afferma una nobiltà indigena, in specie la Casata dei Marchesi di Laconi (i Castelvì e gli Aymerich). Si fa più robusta la polemica tra il clero locale e quello d’obbedienza ispanica. Nel secolo XVI si avverte una ripresa e maturazione della lotta autonomistica del popolo sardo, nel senso di riserva di cariche e di governo per i sardi.
7 - Nel mondo ecclesiale, il 13 dicembre del 1559, i frati dell’Osservanza del Convento di Santa Maria di Gesù a Cagliari reagirono a un editto pubblico dell’Arcivescovo spagnolo Mons. Antonio Parragues de Castillejo che imponeva a tutti i fedeli di accudire agli uffici divini nelle loro parrocchie, pena scomunica, e non nel Convento degli Osservanti, frati non affidabili nella formazione e nello studio e poco devoti al Re. Questi risposero al Parragues attraverso la voce dal pulpito di fr. Arcangelo Bellid, nella chiesa del monastero femminile di Santa Lucia in Castello, proprio il giorno della festa della Santa. Il frate tra l’altro esortò i fedeli della chiesa di non aver riguardi né di accogliere la censura intimata dall’Arcivescovo, che egli “si gettava dietro le spalle”. Il discorso incauto gli procurò la prigione e la ritrattazione in pubblico. Ma diciotto giorni dopo la predica nel convento di S. Lucia, la replicò nella chiesa del proprio convento con le stesse parole e tono, questa volta protetto dal Viceré D. Alvaro Madrigal, a spregio dell’Arcivescovo che si era opposto alla celebrazione d’un Parlamento straordinario.
Il dissenso tra il Parragues (personaggio di vertice ecclesiastico e rappresentante della “grandeur spagnola”) e il Bellid che si oppone interpretando i sensi di “ribellismo” dei confratelli in maggioranza sardi e corsi, non si pone tanto a piano disciplinare quanto in polemica politica. E’ una contestazione che si colloca nel clima del secolo per così dire di “fibrillazione sardista”. Alto clero e autorità regia, per frenare l’egemonia del personale sardo dell’Osservanza, fanno ricorso a flussi di religiosi iberici. Filippo II procederà ad una progressiva e coercitiva desardizzazione socio culturale – ecclesiastica del contesto civile ed ecclesiale del Regno di Sardegna. E se da una parte lo Stamento militare sollecita il Re, in data 8 maggio 1565, ad imporre che gli Statuti Comunali antichi di Sassari, Bosa, e Iglesias, originariamente in lingua sarda e poi tradotti in lingua italiana, siano nuovamente resi, per decreto reale, “en llengua sardesca o catalana” “que los de llengua italiana sien abolits talment que non reste memoria de aquels”, dall’altra lo stesso Filippo II aveva proibito ai giovani sardi di recarsi, per motivi e ragioni di studi, alle Università italiane per costringerli a preferire quelle spagnole e sradicarli dall’area matrice culturale italiana. Ugualmente per il contesto ecclesiastico, e se, nelle chiese particolare o diocesi sarde, non c’era spazio per i prelati sardi e italiani, ma solo per quelli spagnoli, analogamente gli Ordini regolari dovevano essere totalmente integrati e assorbiti nel conteso spagnolo degli stessi Ordini.
Il trapasso dalla Provincia di Sardegna a quella Ultramontana e l’incorporamento e l’unione dei frati alla parte spagnola non furono senza una forte resistenza da parte sarda. Il tentativo di riforma, basata sulla sostituzione dei “sardos discolos” con frati spagnoli, ad opera di fr. Vincenzo Ferri, nel 1565, incontrò la ferma opposizione del gruppo di frati sardo – corsi. Non migliore accoglienza toccò al drappello dei trenta prima e quindici frati delle Provincie aragonesi, venuti al seguito del Commissario fr. Vincenzo Angles, nel 1575. A questo i frati corsi, in Sassari, negarono l’obbedienza e, per di più, levandoli contro falsi testimoni, lo accusarono nanti il Generale e Protettore dell’Ordine che lo esonerò dalla Commissaria di Sardegna. L’Angles, in spregio dell’ordine del Ministro Generale, continuò a mantenere l’ufficio, ciò che aumentò lo sdegno dei frati i quali insorsero in aperta ribellione al suo vice fr. Pedro Cortès. E’ verosimile che la ripulsa dei frati sardo – corsi ad essere agiti da superiori esterni per operare in autonomia, non fosse rimasta nascosta al popolo, data la consuetudine con i religiosi, predicatori d’ufficio e padri spirituali. Possibile, dunque, che si fosse ingenerata anche nella gente, una crisi di credibilità, il sospetto di essere suddita d’un potere estraneo e intruso e la voglia di eliminarlo, nel giusto momento, per fare da sé.
La rivendicazione “sardista”, nel senso di riserva di cariche o di ruoli di governo per gli indigeni in ogni campo, non viene meno nel secolo XVII. Ma costituì premessa ai moti angioyani della fine del ’700. Moti avversi al dominio piemontese che già all’inizio di secolo, nel 1718, aveva tradito l’impegno politico principale, assunto con il Trattato di Londra, di mantenere le leggi e gli statuti dell’isola, pattuiti con la Spagna; tra l’altro di avere Viceré indigeni.
8 - Il passaggio della Sardegna al Piemonte, frutto d’un baratto, dette occasione al costituirsi d’un partito “patriottico”, e luogo al formarsi d’un nuovo fronte di resistenza e di opposizione contro l’ultimo venuto. Questo era ritenuto un corpo alieno e repressivo, non meno dei precedenti, intento all’integrazione dei sardi e voglioso di istituire, come di fatto fu istituito, uno studiato rapporto di tipo coloniale. Il vantato riformismo del Ministro Bogino, a giudizio di storici di parte non piemontese, non può essere riferito ai quadri concettuali del vero riformismo settecentesco. Non procura una crescita dal basso né rimuove le incrostazioni del passato – soprattutto il feudalesimo – per il cambio democratico. Concesse talune realizzazioni positive (Università, Monti Granatici, pratiche agricole), il quadro strutturale risultò inefficace e tale da ingenerare credibilità nei così detti “riformatori”. Non ne sortì unione tra governanti e governati. La dissennata politica di “integrazione”, aprì un solco, creò un incompatibile dissidio tra le due parti. Era inaccettabile dal partito “patriottico l’inconsulto e incolto tentativo di piemontesizzare culturalmente e linguisticamente la Sardegna e di snazionalizzarla sottraendole quel che rimaneva ancora della propria identità con i diritti di autonomia, seppur “deboli”, acquisiti nel passato.
Dal passato rimaneva intatto il quadro negativo: problemi insoluti, le sofferenze del popolo e le angherie dei ceti elevati, l’economia stenta, lo sviluppo zero. Permanevano integri gli ordinamenti feudali, l’oppressione fiscale, l’espropriazione delle risorse del luogo, l’esclusione quasi totale dagli uffici dei “nazionali”. Il campo era tenuto dalle sopercherie del potere politico, civile e militare, da governatori forestieri corrotti e abbietti, circondati da cortigiani in prevalenza piemontesi e nizzardi non meno disonesti e corrotti, da ufficiali e soldati di ventura.
Tutto ciò non poteva non indurre i sudditi d’uno Stato tra i più “oscuri” d’Europa, tra i più piccoli ma più “assoluti” e “conservatori”, ad una avversione – specie nel cresciuto ceto borghese e nei pochi magistrati indigeni – e a uno stabile e diffuso sentimento antipiemontese che sfociò, di necessità, nell’azione rivoluzionaria di fine secolo.
9 - I fatti rivoluzionari del triennio 1794-1796, lungi da essere stati, come nell’interpretazione d’una certa storiografia di “palazzo”, jacqueries contadine, senza negare il carattere peculiare sardo, si spiegano nel quadro dei sommovimenti sociali che da Parigi si irradiavano in Europa e nel mondo nel segno repubblicano e autonomistico. La vittoria sui Franchi nel 1793, con azione congiunta e unità d’intenti di aristocrazia, borghesia, clero e popolani indigeni, fu un “trionfo” della volontà di indipendenza dei sardi, il risultato d’un popolo che si compatta nel segno e nella coscienza di appartenere a una nazione che si risveglia e insorge, vincendolo, contro lo straniero. I moti espressi dalla borghesia urbana – leader la magistratura indigena della Reale Udienza in uno ad elementi popolari, usciti alla espulsione di piemontesi e nizzardi della città di Cagliari e di altri luoghi dell’isola (in capo il Viceré Balbiano, nel 1794), trovano l’input nell’onda secolare della rivendicazione di autogoverno dei sardi. All’idea di autogoverno, riscatto dalla servitù al dominio, espressione di libertà democratica, si rifaceva la Carta dei diritti della Sardegna, elaborata e approvata dagli Stamenti quasi all’unanimità. Nell’evento di ribellione, esaltato sino alla cacciata del conquistatore di turno, è da vedere, secondo Umberto Cardia, la prima, per rimanere l’ultima, vendetta storica della nazione sarda.
Vendetta effimera in quanto l’unità degli anni 1973 e 1974 si ruppe già nella seconda metà di quest’ultimo anno con il colpo di forza termidoriano del Pitzolo e del La Planargia, circuiti da emissari del governo sabaudo, finito per loro in tragedia. Nel contempo vi fu la secessione della città di Sassari e del Capo di sopra, procurata dalla feudalità sardo-iberica, complice lo stesso governo sabaudo. L’ala moderata della borghesia cagliaritana (i Cabras, i Pintor, il popolano Sulcis), leaders della sommossa autonomista antipiemontese e gli esponenti dell’aristocrazia e della feudalità sarda arretrarono rispetto alle precedenti posizioni unitarie. Gli elementi della borghesia giacobina e repubblicana, fautori dell’indipendenza dell’isola e filofrancese (il Cilocco e il Mundula) si misero a capo dei moti di jacquerie rurale, del movimento popolare antifeudale delle villi del Capo di sopra che, nel 1975, si era concentrato nell’assalto e nel saccheggio di Sassari e concluso con la cacciata dalla città dei “realisti” (esponenti del governo, del clero e della feudalità conservatrice).
In questi fatti si inserisce, come moderatore, Giovanni Maria Angioy, il personaggio più eminente (tale resterà anche nel ricordo storico) delle vicende del tempo alimentate dalle speranze di liberazione dell’isola viste in un quadro europeo. Angioy, nato a Bono, nella profonda regione montana di Sa Costera, nel 1751, da genitori nobili e possidenti, era uomo delle zone interne, quella generatrice, per natura, di “ribellismo” e di coscienza “resistenziale”, accetto dunque a un fiero popolo agreste. Uomo grato anche all’ambiente chiesastico; il fratello maggiore arciprete della Cattedrale di Nuoro, lo zio materno canonico della cattedrale di Sassari, per di più il padre fattosi prete in vedovanza. D’altra parte, laureatosi in giurisprudenza nell’Università turritana, aveva attinto in questa città di tradizioni repubblicane stimoli e umori culturali laici. Da ultimo, portatosi a Cagliari per la pratica forense, vi esercitava apprezzata avvocatura e, provvisto di profonda dottrina giuridica, toccava l’apice dell’accademia con l’insegnamento di diritto civile in quell’Ateneo. Impiego, quest’ultimo, parzialmente appagante ma non soddisfacente in pieno le sue ambizioni di soggetto attivo nella classe dirigente, da lui esplicata nel raggiungimento del grado elevatissimo di giudizio di giudice della Reale Udienza, braccio di giurisdizione e di governo in vacanza viceregia. Uomo, dunque, Angioy con radici e interessi negli ambienti culturali, economici e sociali, differenziati, dei due capi dell’Isola. Impegnato anche nella conduzione dei suoi possedimenti terrieri e nel mercato, realizzata secondo gli indirizzi in materia dell’illuminismo.
Agli inizi della carriera Angioy non era giacobino né repubblicano. Era un autonomismo, fiero di appartenere a una “nazione minore” e far parte d’un gruppo etnico ben definito: il sardo. Era fautore dell’abolizione del sistema feudale, ma per gradi, nella prospettiva dell’autogoverno da realizzarsi, nel tempo, all’interno della monarchia. A fondare e concretare il governo autonomo sardo avrebbero dovuto concorrere, in unità d’intenti, forze borghesi e popolari urbane, ma fondamentale sarebbe stata la sinergia del mondo rurale di tutta l’isola con le proprie risorse umane ed economiche attivate in un sistema di corretto capitalismo, come quello allora emergente nel contesto europeo. Questo era il progetto dell’Angioy, riformista e illuminista, atto al progresso integrale della Sardegna, quando il Viceré, d’accordo Stamenti e Reale Udienza, gli affidavano una delicata missione. Al giovane e intraprendente leader del partito democratico, a cui cultura e culture della terra sarda stavano in testa e in cuore, veniva dato l’incarico di pacificare il Capo del Nord turbato dalle jacqueries, e di governarlo e normalizzarlo, con titolo e carica di Alternos, munito di pieni poteri. Nel pieno vigore dei suoi quarantacinque anni, con la coscienza d’un grande dovere patriottico e d’una missione quasi salvificata in un certo senso della nazione sarda in attesa di tempi liberatori quali erano quelli che andavano compiendosi nel contorno europeo, l’Alternos partiva da Cagliari dove per un destino infausto quanto fausto l’inizio, non avrebbe fatto ritorno. Era il 13 febbraio 1796.
Un viaggio lungo il suo, esaltante, tra speranze e acclamazioni d’un popolo fiducioso del riscatto dopo tanto dominio di padroni esterni e mediatori interni. A Sassari l’Angioy entrava trionfante nella città, alla testa di oltre mille cavalli e uno stuolo di paesani a piedi, in variopinto corteo, per la porta di Sant’Antonio. Qui veniva accolto dai suoi fans con evviva, grida, lazzi contro i baroni feudali e i traditori “realisti” della nazione sarda di cui si osannava la libertà. Nel dare inizio al governo democratico, l’Alternos reintegrava il vuoto di potere adottando alcuni provvedimenti normativi al “nuovo”: atti rivolti alla pacificazione. Quanto all’anarchia e le ribellioni che si erano fatte più forti e organizzate nelle ville, inviava il personale di propria fiducia e vicino politicamente, a temperarne l’emozione. Ma dal contado rispondevano che egli in persona si recasse tra le comunità villatiche per ascoltare le impellenti volontà di riscatto e si ponesse alla guida del movimento. Dalla vasta confederazione antifeudale, formata da rappresentanti del clero, dei consiglieri comunitativi, dei prinzipales, venivano voci su sempre maggiori abusi e danni irreparabili procurati dal regime feudale.
Alfine, mosso dall’intento di indurre i rivoltosi alla moderazione e dalla duplice sollecitazione, quella dei vassalli e quella pressante e quasi minacciosa del Viceré, l’Angioy si partì da Sassari verso le ville in agitazione il 2 giugno 1796, con la scorta di miliziani, dragoni e amici. Ai vassalli egli fece balenare la speranza di ottenere dall’autorità preposta il riscatto dei feudi, quando questa fosse la ferma volontà popolare. Si trattava di far constatare al governo regio, del quale non si contestava la legittimità, rinnovando anzi il pieno sentimento di fedeltà al Sovrano sabaudo, la decisa intenzione dei villici di liberarsi dal giogo feudale. E ciò poteva essere reso visibile attraverso una marcia pacifica di popolo verso la sede viceregia guidati dall’Alternos. Pertanto i convenuti si accordarono di accompagnarsi con le loro milizie a cavalli e a piedi, al viaggio dell’Angioy.
Il viaggio si svolse non senza difficoltà, a causa di scontri con milizie della parte baronale e insinuazioni d’un sollevamento dei commissari governativi del Marghine e di Bosa. Giunto con i suoi a Oristano, l’Alternos si premurò di inviare un messaggio nel quale diceva di trovarsi colà a capo d’una schiera di vassalli del Logudoro in armi, i quali chiedevano un abboccamento col Viceré, o in sua vece, con una deputazione degli Stamenti in luogo da loro scelto allo scopo di esporre le lagnanze e l’indignazione per non aver avuto alcun riscontro circa provvedimenti atti a rimuovere l’oppressione feudale. La provincia logudorese rimaneva “fedele a Sua Maestà”, ma era altrettanto ferma e risoluta nel difendere diritti, interessi e privilegi della “Sarda Nazione”. La lettera dell’Alternos si incrociava con ben diverse determinazioni del Viceré, avvallate dagli Stamenti. Una missiva viceregia spedita ai ministri di giustizia delle singole comunità del Capo di sopra, li informava che l’Angioy era stato rimosso dalla carica di Alternos, e gli si ordinava di non prestare obbedienza, sotto pene gravi estensibili alla morte. Inoltre il Viceré radunava con urgenza gli Stamenti e le due Sale della Reale Udienza, denunziando il movimento dell’Alternos come rovinoso per la monarchia, al punto di dover essere represso con le armi. Si decideva, in conseguenza, di apprestare un corpo di esercito da mandare incontro alle milizie dell’Angioy prima che si muovessero da Oristano verso la capitale, attivandone la difesa.
L’Angioy, avuto sentore delle determinazioni di guerra, decise di arretrare le sue truppe verso il villaggio di Massama, accampandovisi. Al ponte del Tirso venne lo scontro di fucileria tra i contendenti, alla pari per qualche tempo. Ma essendo poi caduto il capo dell’avanguardia angioyana, i restanti combattenti ripiegarono verso il campo di Massama, dove l’Angioy, constatata la situazione di disfatta, sbandati e dispersisi parte dei militari, ordinò la ritirata verso Sassari, con i resti! A Sassari venne ricevuto dal Mundula e dai suoi amici. La città lo accolse ancora con esultanza assiepandosi nelle vie e inneggiando alla libertà, persino col grido francese del ça ira. Un modo, questo, per mascherare la sconfitta e tenere in vita un sogno di futura rivincita. Ma la sera dello stesso giorno del festoso reingresso, Angioy lasciava silenziosamente la città, dirigendosi a cavallo con una piccola scorta armata a Portotorres. A notte, con i fidi amici di ideali e di battaglie democratiche, s’imbarcava su un veliero napoletano diretto ad Ajaccio. Era la prima tappa dell’esilio, per lui senza ritorno. Per la storia l’epilogo del triennio rivoluzionario. Si vanificavano gli empiti di libertà, di autonomia. di autodeterminazione, di orgoglio nazionale espressi con la vittoria sui Francesi, la cacciata dei Piemontesi, l’autogoverno stamentario dopo l’esecuzione popolare dei “realisti” Pitzorno e Paliaccio, i moti antifeudali, la marcia dei vassalli logudoresi per la difesa della nazione sarda. Tutti questi esaltanti avvenimenti, tesi alla liberazione nazionale, diventavano per i democratici rovello di memoria e pena per le battaglie perdute, per i reazionari un oggetto di fastidio da cancellare anche dal ricordo storico. Ancora una volta la Sardegna accumulava la storia delle occasioni perdute per effetto delle divisioni e per una sorta di accettazione d’un ruolo di martire del dominio secolare.
Non stupisce che, dopo tale tragica débacle, Giovanni Maria Angioy, nel definitivo esilio a Parigi, non fosse rimasto altro che una vendetta “virtuale”: quella di diventare giacobino e repubblicano e, nel 1799, nove anni prima della morte, di sollecitare il governo francese a procurare la liberazione della Sardegna, occupandola militarmente.
10 - Per effetto della dura repressione dei moti angioyani, nel primo ventennio dell’800 caratterizzato dalla cresciuta integrazione e subordinazione politica ed economica dell’isola al Piemonte, e, poi, dalla ambita e subito deprecata fusione del 1847 conclusa con la Costituzione albertina, gli antichi istituti di autonomia sarda decaddero e l’autonomia stessa, come sentimento, entrò in una grande zona d’ombra. Né valsero a restituire le sorti, i sommovimenti rurali contro le chiudende e il ritorno a su connotu (1832, 1868). Né, tanto meno, il revival romantico della più remota storia patria, l’orgoglio retorico di popolo e nazione, celebrati dagli autori delle false Carte d’Arborea.
La fusione aveva addormentato gli spiriti, ma non di tutti. Il senatore Giuseppe Musio, già mentre si costruiva (1848), parlava di “fusione” condizionata, avvertendo la non utilità della “non perfetta mischianza di tutto nostro e di tutto noi con i continentali”. Nell’anno medesimo il canonico Fenu vedeva la soluzione delle sperequazioni tra la Sardegna e il Piemonte nell’istituzione di un Parlamento sardo, il quale “darà ai sardi una capacità di iniziativa che non hanno mai potuto avere perché tutte le cose sono state decise dagli altri”.
Una quindicina di anni dopo la fusione, Giovanni Battista Tuveri annunciava una nuova questione, la “questione sarda” e invocava un’insurrezione antipiemontese del popolo sardo a favore dell’Inghilterra. Egli saldava tale questione all’idea repubblicana, democratica e federalista, dello Stato. A questa idea si riferiva anche Giorgio Asproni il quale, però, inclinava al moto di unificazione dello Stato italiano rivolto soprattutto al sostegno delle impoverite plebi meridionali contro lo sfruttamento del capitalismo settentrionale. In lui era la coscienza di una patria isolana con una precisa etnia e una particolare cultura. Ne difese e promosse gli interessi ed esaltò la libertà, tanto da incitare i sardi a “muovere” i loro “Vespri”.
Scriveva Giovanni Siotto Pintor che “in ogni tempo i continentali tennero le isole come colonie, come spugne da spremere e da succhiare. Con piede tardo arrivò il 1848 allorché, invasa la popolazione da quella mattezza collettiva della quale più esempi si vedono nella storia, gridò l’unione immediata, la quale contro ogni buon costume confuse le sorti di un infante con quelle di un popolo maturo. Quando sarà che le isole raggiungeranno il continente senza chiedere venia allo statuto, io risponderò che non mai. Dunque, non può essere col continente unione, anzi separazione. Ciò è sentito da tutti gli isolani di ogni parte dell’isola. Se vi si facesse un plebiscito, compresi i ragazzi, senza dubbio nessuno voterebbe per essere lasciati a sé”. Il Siotto Pintor nella Storia civile dei popoli sardi, celebra i moti antipiemontesi dell’ultimo decennio del Settecento e il tentativo di G.M. Angioy e dei suoi seguaci teso a fondare su nuove basi politiche e sociali l’autonomia della Sardegna. In pari tempo (1878), collega l’autocritica collettiva dei sardi alla fusione del 1848, al ricordo degli istituti di antica autonomia e del triennio rivoluzionario.
11 - Nell’ultimo ventennio del secolo XIX la questione sociale, determinata dai turbamenti del mondo rurale e dai moti in quello minerario e operaio urbano, si accomuna alla rivendicazione politica, sostenuta dai partiti socialisti; né mancano riflessi in queste istanze della specificità etnica, storica e culturale dell’isola. Ma gli auspici di liberazione della Sardegna si palesano, più espliciti, con accenti di protesta e di riscossa, nella poesia colta e popolare, nell’arte, nella narrativa a sfondo popolare.
La poesia popolare del su connotu, d’intonazione sociale con occhi volti ai valori del passato, prepara il clima culturale in cui produrranno Sebastiano Satta e Grazia Deledda. Il primo attinge l’ispirazione socialista negli anni di studio nell’Università di Sassari: un socialismo di natura “sardista” che non perde le implicazioni borghesi. Satta esalta il popolo sardo con una aggressione verbale di tipo sciovinista. Il suo indipendentismo socialista si alterna al desiderio della bara d’elce in cui porre la Sardegna per sprofondarla in mare . Nella Deledda, che non ha deviazioni socialiste ma non è immune dal positivismo, il “sardismo” è meno drammatico, non impegnato, perché il suo non è il sardismo politico. E’ il “sardismo” di coscienza della diversità. E’ un sardismo “enfatico”, ma sincero. La sardità autentica sta, per lei, nei valori che ripropone la forza fantastica e artistica dei suoi romanzi. Il “sardismo” è recuperato anche attraverso il folklore che non è di cornice ma si sostanzia di valori, è cultura sarda irrinunciabile senza di che i suoi romanzi non hanno senso.
12 - Le aspirazioni autonomistiche riemergono nel movimento di opinione antiprotezionista contro gli industriali del Nord, negli anni 1907 – 1909. Il movimento unisce nell’azione ambienti intellettuali, borghesi ed operai e si rispecchia anche nella stampa quotidiana e periodica del tempo. Nel foglio socialista “La Folla”, nel dicembre del 1907, si svolge un significativo dibattito sul “separatismo”. Altri fogli socialisti, nelle elezioni politiche del 1909, sostengono la candidatura del radicale e autonomista Umberto Cao. Sintomi interessanti di risveglio autonomistico si traducono, negli anni precedenti la prima guerra mondiale, nell’intensa azione di propaganda svolta nel Sassarese e nel Logudoro, dal bonorvese Giovanni Antioco Mura. Egli tentò di sviluppare, operando nel mondo contadino, le idee del socialismo sindacalista con l’innesto di istanze autonomistiche e sardiste, nel solco nell’antico movimento angioyano.
Di notevole rilievo nella storia del “rinascimento” dell’autonomia, appaiono la visione teorica e l’attività politica del nuorese Attilio Deffenu. Di educazione anarco – socialista e antiprotezionistica, auspica la nascita d’una borghesia imprenditoriale sarda, autonoma, moderna, da porsi come nuova classe dirigente. Nel capitalismo endogeno e nell’economia liberista vede il “risorgimento” politico, sociale e morale. Dunque, un autonomismo di classe, avulso da un progetto istituzionale e territoriale di autonomia, fondamento di compiuto autogoverno.
Nel V° Congresso socialista sardo, governato da Angelo Corsi e Alberto Figus, emerge forte la richiesta d’un regime di autonomia politica, da realizzare con l’istituzione di un Parlamento sardo legiferante; dirigente la classe operaia. Nel 1918, anno di celebrazione del Congresso socialista, Umberto Cao, che ebbe un ruolo di primo piano nelle vicende politiche cagliaritane del primo decennio del secolo, promosse un Manifesto per l’autonomia istituzionale e territoriale della Sardegna.
13 - Nel solco di questa tradizione, finito il conflitto mondiale 1914 – 1918, il movimento autonomistico e sardista fece un grande balzo in avanti. Diventò movimento di massa. Nacque dall’esperienza della guerra che vide “uniti” oltre centomila soldati, proletari e piccoli borghesi, reclutati nell’isola. L’istanza autonomistica fu raccolta dapprima appunto dall’Associazione di militari e reduci fondata nel 1918 da Camillo Bellini e Arnaldo Satta Branca. L’Associazione non fece suo l’appello del Cao per la creazione di un “Partito autonomista sardo che proclami la necessità dell’autonomia, già rivelata nella germinazione improvvisa e vigorosa d’un sentimento comune”. Un partito autonomista, come “Partito sardo d’azione”, dopo l’elaborazione teorica dovuta ai suoi più eminenti rappresentanti (C. Bellieni, E. Pilia, E. Lussu, U. Cao, Fancello e altri), nacque e si costituì nel congresso di fondazione, tenuto a Oristano il 16/17 aprile del 1921.
Motivo ideale del Partito era la “conquista dell’autogoverno e della sovranità per il popolo sardo e per il popolo italiano”. Partito di popolo inteso a “dare coscienza di sé al proletariato”. Autonomia regionale da esplicare nelle forme della libertà doganale, del libero mercato e scambio, in regime sociale di uguaglianza economica, da realizzarsi attraverso la costituzione di sindacati. La produzione che ne deriva “sarà tutta dei lavoratori e per i lavoratori”. Il maggior teorico – C. Bellieni – auspica uno Stato federale di Regioni-Stato con potestà d’imperio, con poteri primari nei campi di competenza riservati all’Ente-Regione, espresso dal basso, dall’ambito delle province. Nel Partito trovano rispondenza le aspirazioni di un mondo in prevalenza rurale e pastorale, ma non estraneo alle città e alle zone minerarie, diretto da intellettuali della piccola e media borghesia urbana e delle campagne. Nel Partito sardo d’azione si distingue, sebbene in minoranza, un’ala di sinistra, che fa capo a Emilio Lussu, nella quale l’autonomismo acquista una duplice valenza. Vuole rivendicare un nuovo quadro istituzionale federale o regionale a livello alto di “potere” e, insieme, riscattare le masse lavoratrici sarde indirizzate ad assumere ruolo e funzione di autogoverno. Con l’andare del tempo, nel 1972, Lussu diventa federalista, socialista e internazionalista. D’altronde, lo stesso Bellieni, nel 1925, quattro anni dopo la nascita del Partito, a fronte della crisi dello Stato democratico, affermava l’esigenza di riprendere il contatto con le masse proletarie d’accordo con quei partiti che le rappresentano, e che in questo ritorno alle masse stava il vero significato della parola “autonomia”.
14 - Se il maggior riferimento di appartenenza etnica, cementata dal sentimento unitario autonomistico, va al partito che assume significativamente il nome di sardo, nondimeno l’autonomismo regionale tocca, seppur con minore intensità, altre forze politiche di massa di ampio spettro nazionale.
Su d’un moderato autonomismo si fonda il Partito popolare italiano, di derivazione giobertiana e sturziana, con base larghissima nel mondo rurale e nei ceti medi urbani. Un grande partito di contadini, scriveva A. Gramsci nel 1920. In Sardegna attrasse a sé parte dell’aristocrazia post – feudale di tradizione piemontesizzante e sabauda e i transfughi dal coccortismo e dal democratismo radicale. Essenzialmente municipalista, incline alla conciliazione tra Stato e Regione, tendenzialmente monarchico, il partito sturziano è orientato a una semplice riforma dello Stato. L’Ente elettivo, rappresentativo, autarchico e legislativo previsto da Sturzo, non esclude poteri dell’apparato burocratico statale. Nel popolarismo entra pure il meridionalismo come suggestione salveminiana e l’interesse per la classe rurale ha preoccupazioni economiche e religiose a sé stanti.
Anche l’ala federalista e municipalista del Partito italiano d’azione propone un discorso autonomista. Rivendica l’indipendenza dell’ente – Regione dallo Stato per tutte le funzioni di natura economica e sociale con potestà d’imperio primario nella propria sfera di competenza determinata dai limiti posti dalla sovranità dello Stato federale costituito dalle Regioni.
All’interno del Partito comunista italiano risalta l’ipotesi gramsciana di autonomia. Già nel 1922 Gramsci avanza la parola d’ordine sulla trasformazione dell’Italia in una “Repubblica federale di operai e contadini” e suggerisce l’opportunità di dialogare in Sardegna, a tal fine, con il Partito sardo d’azione. La questione sarda è da risolvere a partire da una rivendicazione etnica – territoriale e dalla remota, diffusa e insistita aspirazione all’autonomia e all’autogoverno, con ripetuti tentativi, peraltro mai riusciti, di sottrarsi al dominio straniero e di darsi proprie istituzioni. Questo storico anelito al riscatto si rifletteva anche nel sovversivismo elementare, sino a forme deviate, delle masse contadine e popolari sarde e nel loro istintivo sentimento anti-continentale. Occorreva, dunque, riunire e organizzare queste forze matrici, implicitamente, dell’autonomia in un insieme di forze regolari da imporsi a guida del riscatto dall’oppressione secolare. Più nettamente, questa questione, di sardismo e autonomismo, è posta fa Gramsci, nel 1936, nello scritto Alcuni temi della questione meridionale. Qui la “questione” da sarda diventa meridionale e nazionale insieme. Il sardismo, cioè il Forza paris dei sardi, viene assunto come forza classista e omogenea dell’intellettualità libera dalla conservazione borghese, in alleanza con i ceti rurali e operai. La “questione” è posta in termini di un “quasi sardismo” che passa alle tesi del socialismo scientifico. C’è, in effetti, il superamento del sardismo e del regionalismo tradizionale e una svolta polemica con quest’ultimo, come nella questione meridionale Gramsci entra in polemica con le tesi salveminiane.
15 - Già all’inizio del formarsi di questo schieramento autonomistico di differente estrazione ideologica, preludio di una felice età dell’autonomia e del conseguente progresso democratico e civile dell’isola, irrompe il fascismo. Il fascismo tentò di attrarre nella sua orbita lo stesso Partito sardo per un confronto sulla base della comune matrice combattentistica e con richiamo ai contenuti meridionalistici e rinnovatori.
La trattativa, nel 1923, fu posta sul terreno della concessione alla Sardegna d’un regime di autonomia regionale legislativa e amministrativa in materia economica e non solo economica. Su ciò poteva configurarsi uno schema di patto di fusione del P.N.F e del P. s. d’azione. La risposta di Mussolini fu negativa. Si ruppe la trattativa e si spaccò anche il P. s. d’azione in una destra filofascista o sardofascista e il grosso del personale dirigente e della base di massa del partito, passato all’opposizione, fermo sulle posizioni originarie dell’autonomismo regionale, in aperto e schierato antifascismo.
Con le leggi eccezionali del novembre 1926, la dittatura fascista spense tutte le voci libere, interrompendo, per un ventennio, il percorso della stagione felice dell’autonomia diffusa e del sardismo partitico e generalizzato. Ma non cessò il desiderio di autonomismo e di libertà. Nello stesso piccolo mondo del sardofascismo rimase qualcosa del programma del Partito sardo d’azione. Nel terreno economico Paolo Pili, diventato da sardista deputato e segretario del fascio cagliaritano, creò la Federazione delle latterie sociali della Sardegna per sottrarsi al giogo del capitale caseario privato continentale e procurò canali autonomi di credito e commercializzazione in primo luogo negli Stati Uniti d’America. Impresa fatta fallire dal grosso capitale italiano che aveva in prima linea promosso e sostenuto il regime dei fasci. A Pili non toccò migliore sorte all’interno del partito perché fu sostituito in tutti i suoi incarichi economici e politici, riducendosi, alla fine, a vita privata. Uomo retto, rimase nell’animo “sardista”. Egli cadde nell’errore di voler conciliare contenitori di libertà quali l’autonomismo e il sardismo con una espressione di tirannia. Per il resto, il sardismo – autonomismo si ritrasse nella coscienza, nella ricerca e negli atti in favore dell’identità e dei valori isolani da parte degli storici (C. Bellieni, R. Carta Raspi, B.R. Motzo)) degli artisti (Carmelo Floris), di letterati (Egidio Pilia) del diritto (Antonio Marongiu) e in riviste di storia, cultura e tradizioni popolari sarde.
16 - E’ nell’approssimarsi alla fine dell’ultima grande guerra che si risveglia l’istanza sardista e autonomista di segno antifascista, nel tentativo di liberazione della Sardegna. In concomitanza con la guerra civile di Spagna, E. Lussu promosse una cospirazione, cercando di coinvolgere antifascisti sardi (popolari e sardisti residenti nell’isola) e volontari (anarchici, comunisti, sardisti e senza partito combattenti nelle brigate internazionali repubblicane in terra iberica) per uno sbarco in Sardegna che avrebbe dovuto provocare un’insurrezione e un colpo di Stato. Progetto andato a monte a finito con l’arresto di alcuni cospiratori del Nuorese.
Il ritiro spontaneo delle truppe tedesche (la 90° divisione corazzata) dall’isola nel 1943, il vuoto di fascismo nella maggior parte del territorio sardo, oltre che la pronta occupazione delle forze anglo – americane al comando del generale Webster, tolse l’occasione al manifestarsi in Sardegna, se non in forme sporadiche senza risonanze, del movimento di liberazione nazionale che, nel 1945, pose fine al conflitto internazionale e alla guerra civile nella penisola italiana. Il potere reale fu assunto dal comando militare alleato. Si formò un Comitato regionale con una giunta consultiva. Il 27 gennaio 1944 il governo fu affidato a un Alto Commissario nella persona del generale di squadra aerea Pietro Pinna, con la somma del potere politico e civile.
17 - Si ricostruirono i partiti dell’antiguerra, con i programmi più o meno variati, ma tutti con l’intento di dotare i sardi di più ampi poteri rispetto al passato.
Con l’Appello del Partito comunista di Sardegna nacque il Partito comunista sardo, di orientamento federalista, in tono con i motivi e le parole d’ordine gramsciani presenti già nel programma approvato nel 1920 dal congresso comunista di Lione. Il Partito comunista di Sardegna si dichiara autonomo ma direttamente collegato con l’Internazionale comunista. Ma nel primo congresso del Partito comunista italiano, tenuto a Iglesias l’11/12 marzo del 1944, fu sciolto per averlo ritenuto separatista. Soltanto nel 1947 il P.C.I si incammina sulla via dell’autonomismo di ispirazione gramsciana.
Il risorto Partito sardo d’azione, a parte una frangia iniziale separatista con segrete simpatie filoamericane e filobritanniche, nei congressi del 1944 e 1945, fedele al principio d’uno Stato federalista repubblicano italiano, continua a rivendicare un autonomismo regionale forte e radicale, con poteri legislativi sovrani e piena competenza nei settori finanziari ed economici di base liberista. Rispetto al passato emerge l’attenzione a un programma di riforma sociale.
Nel partito della Democrazia cristiana, erede del Partito popolare sturziano, si avverte un più attento interesse alla “questione sarda”. Antonio Segni, anticipando le decisioni del Consiglio nazionale sulla necessità d’un ordinamento regionale autonomo del Paese, prese per primo e risolutamente posizione per l’autonomia regionale della Sardegna. L’isola, - scrive – al pari della Sicilia, è una regione prima ancora di qualunque argomentazione politica. E’ regione per aspetti peculiari geografiche, storici, aspirazioni e atti intesi a governarsi da e stessa. Segni, nel maggio del 1944, sostiene le necessità di istituire una Camera delle Regioni in luogo del vecchio Senato. Il gruppo della D.C di Pozzomaggiore, paese nativo dell’Alto Commissario Pinna, rasentava posizioni di radicale autonomia per la Sardegna, ai limiti della secessione.
Autonomisti erano nell’isola, pure nelle differenti ideologie, repubblicani, azionisti e persino i liberali radicali del giovane Francesco Cocco Ortu, di orientamento “gobettino”.
18 - Era, questo, il clima politico nel 1945, così che Gonario Pinna, allora militante nel Partito sardo d’azione, poteva affermare che “tutti ammettono la necessità dell’autonomia per l’isola” e il suo correligionario Luigi Battista Puggioni osservava “l’impressionante fenomeno che tutti i partiti, qualunque sia la loro tendenza o colore, si professano autonomisti”.
Ma si tratta di puro sentimento, per così dire virtuale, che non porta a una coscienza e a un’azione comune, ad unità reale.
Da queste ambiguità e contraddizioni non poté sorgere un compatto movimento sardo per l’autonomia, un fronte unico di sostegno e di realizzazioni, pur auspicato da talune parti. Infatti, non usciranno a buon fine la “Giornata unitaria dell’autonomia” celebrata a Cagliari nel giugno del 1947 per l’emanazione dello Statuto sardo poco dopo l’approvazione da parte dell’Assemblea Costituente della riforma regionalistica dello Stato, né il successivo “Convegno per l’economia” a Macomer, presenti sardisti, democristiani, socialisti, comunisti e repubblicani. Infine, le divisioni dei partiti in campo nazionale indussero gli stessi partiti in Sardegna a separarsi sino a confliggere.
19 - Di questo clima politico incostante soffrì la prima Costituente sarda insediatasi nell’aprile del 1945 e successivamente rinnovata nei suoi componenti nel giugno del 1946, per esprimere, alla fine, un testo statutario approvato a maggioranza il 20 aprile del 1947. Nel corso dei lavori, assai travagliato, si confrontarono vari progetti di Statuto, di diversa misura e peso autonomistico, né si volle accogliere il modello dello Statuto siciliano già approvato dalla Consulta nazionale nel 1946, uno Statuto con ampi poteri di autonomia, a base quasi federale. Ne sortì, al termine dei lavori, uno Statuto sardo già in partenza mutilato e svuotato di poteri, privo d’imperio. Per di più, il testo statutario, trasmesso all’Assemblea costituente nazionale per l’approvazione che si sollecitava immediata, fu rimessa da questa al Governo con l’invito a provvedere un disegno di legge costituzionale che tenesse conto anche del progetto di Statuto elaborato dalla Costituente sarda. Dopo tanta pena, il progetto fu approvato, a larga maggioranza, in extremis, proprio nell’ultima seduta dell’Assemblea costituente, il 31 gennaio del 1948. Diventò legge costituzionale il 26 febbraio 1948, col n. 3, pubblicata nella G.U. n. 58 del 9 maggio di quell’anno. Il 28 maggio del 1949, si insediò il primo Consiglio regionale della Sardegna. Si badi, “Consiglio”, non “Parlamento” come si titola l’Assemblea siciliana.
20 - Questo Statuto, nato zoppo, di parziale autonomia, non consacrava le aspirazioni e le lotte secolari dei sardi per vedere riconosciute ed esaltate, in una solenne Carta costituzionale, la peculiarità etnica, culturale, storica, politica e territoriale d’un popolo distinto, risorto a nazione. Nei suoi limiti e nelle sue mutilazioni era implicito che sarebbe stato faticoso e aspro il cammino per realizzare un sistema efficace e moderno di autogoverno. In uno Statuto “incompiuto” era in nuce una “autonomia incompiuta”, una nazione sarda “dimidiata”. Una Carta con poteri “deboli” rendeva impari il confronto tra la Regione e lo Stato, la prima “suddita” del secondo. Difatti la Regione sarda non aveva le “radici” statutarie, la forza intrinseca costituzionale per agire in proprio, secondo il proprio “genio”, in modo “eccentrico” rispetto allo Stato, bizzarra, fantasiosamente creativa. Non poté farsi e tanto meno mantenersi continuamente in “giro” autonomo e autonomistico. Invece ha dovuto mimare il sistema e gli schemi dello Stato, duplicando competenze, seguendone pedantemente legislazioni e ordinamento. Si è introdotta (o costretta a introdursi) nella morsa d’un ingranaggio “copernicano”, in un sistema di anelli concentrici dove il cerchio minore (la Regione) gira perfettamente concentrico al cerchio maggiore (lo Stato), per cui lo Stato gira in maggiore e la Regione gira in minore, in un rigoroso e astratto sistema matematico. Impigliata nella tela del ragno statale, la Regione finisce col diventare succursalista dello Stato.
Si credette di poter soddisfare le antiche passioni e pulsioni di riscatto autonomistico per il progresso, introducendo all’articolo 13 dello Statuto, unico fra tutti gli Statuti di autonomia speciale, un “Piano organico per la rinascita economica e sociale della Sardegna, da predisporre e attuare con concorso della Regione”. E’ vero che l’articolo 13 si rifà a una logica di sussidiarietà, ma anche di corresponsabilità, di compartecipazione, di solidarietà. Ma nel processo dell’attuazione è rimasto mero enunciato giuridico formale, perché non vi hanno corrisposto le garanzie e gli atti delle politiche del governo nazionale. Del resto, le ragioni dello scarso successo del Piano, denunciato già nella relazione generale che introduce il progetto del quarto programma esecutivo del Piano di Rinascita per gli esercizi 1967 – 1969, stanno in realtà nella natura degli interventi previsti dalla legge attuativa del Piano (la n. 588), che si riferisce a intervento straordinario. La legge n. 588 è una legge di “riforma” e della sfera “economica e sociale” generale (per il contenuto politico, l’indirizzo ideologico, le conseguenti forme e tecniche d’attuazione). Perciò lo Stato può richiamare (come più volte ha richiamato suscitando contestazioni e conflitti) l’interesse nazionale, con tutti i vincoli, i limiti e le ingerenze sull’attività regionale che ciò comporta. Sebbene sembri una legge “motoria” dell’attività autonomistica regionale sarda, in quanto legittima la Regione ad essere soggetto e rappresentante degli interessi generali emergenti nell’ambito locale e determinati dalla programmazione autonoma, e la delega anche all’attuazione, in sostanza la legge stessa prevede una serie di blocchi per cui sembra piuttosto doversi parlare di una programmazione e di una attuazione condizionate. Può dirsi, questa, una programmazione autonomista, dinamica, effettivamente (non soltanto verbale) democratica, sinceramente regionalista? Si tratta d’una pianificazione “arbitraria”, di vertice, non di base, senza controllo sociale né all’origine né per i risultati. Se poi si guarda al rapporto tra la programmazione regionale sarda (nella specie della legge 588) e la programmazione macroeconomica nazionale, la prima è stata egemonizzata e condizionata dalla seconda alla quale – volente o nolente – si è dovuta arrendere nella logica del sistema centralistico e autoritario dello Stato.
Circa la sfera di attuazione del Piano, i blocchi non sono stati meno cogenti. La progettazione è conformata su schemi fissi, su “modelli nazionali”. L’assistenza tecnica in agricoltura delegata delle Regioni agli organi burocratici della Cassa del Mezzogiorno, senza che possa intervenire nelle direttive e nel controllo in quanto si interferirebbe su organi e direttive riservate allo Stato. L’Ente di sviluppo, strumento “estraneo alla Regione”, un tabù dello Stato dal quale dipende in orientamenti e forme di intervento tecnico (e non soltanto tecnico). Dove e come possono dunque manifestarsi la capacità politica, la volontà autonomistica, la responsabilità direzionale e di controllo, in definitiva l’autodeterminazione e l’autogoverno che sono caratteri fondamentali e obiettivi finali delle autonomie regionali?
Nell’articolo 13 dello Statuto ne è contenuto e consacrato il logos, la ratio, ma, nello stesso tempo, ne risaltano i limiti e l’incompiutezza. Vi appare un’indicazione della “specialità”, dell’autonomia esclusivamente economica. Si tende a raggiungere una parità economica e di condizioni di vita con il resto del Paese, ma non un vero e proprio autogoverno. Si ignora che la storia d’un popolo non progredisce soltanto con i fatti economici e che lo sviluppo non si riduce a una semplice crescita economica. Dunque una “Rinascita” materialistica, senza anima, senza identità, senza il supporto di valori immateriali (di stirpe, di lingua, di costumi). Un’attenzione volta soltanto al plafond strutturale, senza la base etnico – etico – culturale, non avrebbe potuto realizzare progresso, emancipazione, protagonismo, il “fare da sé” in libertà pur senza chiudersi al respiro del mondo. A parziale discolpa di questo Statuto “moderato”, va detto che nasceva come una sorta di acquisizione ereditata, un punto di arrivo, un passato, quasi la definizione politica d’un processo concluso. Radici, ma non ali. Per di più si usciva da una guerra perduta, da macerie, da lacerazioni dei partiti riemersi, dalla presenza nella Costituente di esponenti d’un tessuto sociale polimorfo, prevalentemente piccolo borghese, con dirigenza costituita in maggior parte da elementi di borghesia intellettuale e professionale, e da rappresentanti, tutt’altro che coesi, del mondo contadino e operaio; l’insieme, se non impreparato, scarsamente attrezzato a realizzare il sogno ambizioso dell’autogoverno.
21 - L’attenzione dei primi governi regionali fu indirizzata alla valorizzazione delle tradizionali risorse locali, agro-pastorali e miniere. Non poté esperirsi, per opposizioni del governo nazionale e interne, l’offerta americana della Fondazione Rockfeller, in tecnici, attrezzature e liquidità per concorrere a realizzare in certi settori il Piano di Rinascita. Ci vollero dodici anni per l’evento di questo Piano, col disegno di legge del Consiglio dei Ministri del 17 giugno 1961, modificato con legge del 17 giugno 1962. Il Piano fu accolto con favore, nonostante gli obiettivi si appiattissero sui contenuti generali della politica meridionalistica, fossero troppi e scarsamente coordinati gli organi che vi avevano parte e fosse dislocato il potere decisionale locale riguardo al tipo di industrializzazione rivolta in modo prevalente se non esclusivo alla monocoltura chimica e petrolchimica, chiusa in alcuni “poli di sviluppo”. Altri erano gli enunciati originali del Piano che teneva conto dell’equilibrio tra il comparto industriale e quello agricolo ora penalizzato, come limitata a poche aree l’occupazione, ipotizzata diffusa. La Regione non risultava preminente soggetto di attuazione né completi erano gli strumenti attuativi, scarso il decentramento, insiti nell’organizzazione i pericoli di burocratizzazione e lunghi (venti anni) i tempi di realizzazione.
Nel modello dei “poli” petrolchimici, calato dall’alto e dall’esterno, senza l’accertata congruità ambientale e culturale, il sottosviluppo che si v
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