In 200 mila per dire a Bush che non siamo il 51° stato Usa. Che la sua ideologia di guerra non ci rappresenta. Che la sua visita occupa e non libera Roma. E a Berlusconi: via le truppe dall'Iraq. Riformisti assenti.
«Bush dishonors us all», Bush «ci sputtani tutti, noialtri americani», traduce in stentato ma efficace italiano una signora americana di mezza età a un ragazzotto curioso che tenta di decifrare il cartello, uno che non ha seguito la regola delle «tre i» suggerita da Berlusconi. Di cittadini d'oltreatlantico in piazza ce n'erano molti, ieri a Roma. Dietro lo striscione «Not in our name/ Statunitensi contro la guerra», in gruppetti, a coppie, ognuno con un cartello contro Bush. E c'erano tanti italiani con l'adesivo «No a Bush, con i pacifisti americani» appiccicato sullo zainetto, sul petto, sulla schiena. Restano delusi i giornalisti che cercano le prove dell'antiamericanismo che come un cancro distruggerebbe le cellule di uno dei più straordinari movimenti pacifisti del mondo. Ci sono i ciclisti di «critical mass» ma non ci sono triciclisti. Una suora irriverente che sfila con Emergency sostiene di aver sentito arrivare dal «botteghino» dei Ds in via Nazionale un'aria dei Nomadi sparata a tutto volume: «Ma noi non ci saremo...». Effettivamente non se ne vede una di Quercia. Onore invece all'associazione Aprile, e bentornati agli amici di Legambiente. La presenza dell'Arci (o dello striscione del manifesto) non fa notizia, come quella della Fiom nonostante il congresso di Livorno. Fa invece notizia che la Cgil non abbia mandato soltanto una delegazione al corteo, come s'era ventilato, è arrivata in forze. Un corteo pacifico, colorato, convinto, incazzato ha reso inagibile per il presidente Bush l'intero centro di Roma per tutto il pomeriggio. Talmente pacifico che quando per due volte un gruppo di riesumati black bloc tenta lo scontro con la polizia e i carabinieri, prima a piazza Venezia e poi al Circo Massimo, sono gli stessi manifestanti a isolare e cacciarli dal corteo. Come dice una signorina arcobalenata, «estranei, siete estranei». Onore al merito, al corteo, a quell'altra ragazza con la striscia bianca di Emergency al braccio, che si fa avanti e affronta un gruppo di mascherati e alza un cartello con una semplicissima parola d'ordine: «No war». Ma onore anche alle forze dell'ordine che, tranne casi sporadico che segnaliamo nella pagina accanto, hanno dimostrato che la piazza si può tenere senza terrore, senza provocazioni, senza sangue. Non è poco, se è vero che alla vigilia del B-Day si spargeva a macchia d'olio la sindrome di Genova.
Tra i disoccupati napoletani e gruppi di immigrati c'è un drappello di ragazzi che a ogni cordone di polizia ripete il ritornello: «Chiediamo salario/ ci date polizia/ dieci cento mille/ Nassiriya». Sono proprio pochini, ma in assenza dell'agognata battaglia di piazza questo slogan cretino diventa l'argomento principe di dibattito politico, che appassiona purtroppo non solo la destra. Molto più efficaci, anche se decisamente screanzati i cartelli, centinaia, alzati dai giovani dell'area pink a ogni faccia a faccia con i poliziotti: «Ma chi ve se `ncula».
Il Comitato fermiamo la guerra apre il corteo, «No war no Bush». Dietro c'è lo striscione dell'Anpi, a reggerlo insieme a orgogliosi vecchietti c'è Tana De Zulueta (Occhetto-Di Pietro), un pò più avanti parlamentari Verdi, rifondaroli, del Pdci. Un «ragazzo di ieri» con il distivo partigiano all'occhiello mi racconta un po' di storia di «questa città che amo». Racconta che «Bush neanche saprà che la strada che ha fatto per arrivare da Ciampino a Roma attraverso il Quadraro», la «borgata ribelle» di Roma sud, «una zona franca dove tedeschi e fascisti neanche si avvicinavano». Poi, continua, «i nazisti fecero una retata e arrestarono tutti gli uomini dai 15 ai 60 anni, un migliaio, e li deportarono in Germania, al lavoro forzato». Con questo racconto il compagno dell'Anpi vuole dirmi due cose che ritornano nel corteo in tutte le lingue, in italiano e in inglese, in arabo con l'accento iracheno o palestinese, in kurdo, in spagnolo con l'accento cubano: 1) Roma l'hanno liberata gli alleati, ma «qui si combatteva, la lotta partigiana impazzava, ci torturavano in via Tasso e ci ammazzavano come cani»; 2) «Gli americani che sono entrati a Roma sessant'anni fa si rivoltano nella tomba», Bush non li rappresenta, è qui «per farsi la campagna elettorale e per aiutare Berlusconi a farsi la sua».
Saranno 100 mila? No, molti di più, forse addirittura 200 mila. Vi sembran pochi, con tutti i tromboni che invitavano a stare a casa perché in strada ci sarebbe stata la guerra? Vi sembran pochi, dopo che le componenti maggioritarie dell'opposizione hanno deciso di restarci, a casa? Qualche bandiera arcobaleno in più alle finestre si vede, è vero, almeno una cosa buona Prodi e Fassino l'hanno suggerita. C'è l'europarlamentare del Prc Luisa Morgantini, vestita come nella foto del suo libro e dei suoi volantini elettorali. Ma anche questa è una non notizia, così come la presenza del Verde Paolo Cento. C'è padre Benjamin. C'è, soprattutto, il popolo «no global». Lo leggi nelle facce e nei bisogni che esprimono, lo leggi negli striscioni e lo ascolti nella musica che li accompagna. Disobbedienti o cattolici di base (si dirà ancora così?), antagonisti o moderati, in lotta per l'accesso ai farmaci salvavita, contrari ai santuari della finanza mondiale, comunque «No alle guerre per il petrolio», piuttosto «Meno Esso più sesso». Come si fa a dargli torto?
Chi non c'era, ieri a Roma, per dire a Bush che è un ospite sgradito, che non c'è solo il mondo che lui e suoi sherpa vogliono imporre con la guerra e il liberismo dato che «un altro mondo è possibile», ha perso un'occasione d'oro (o pensa che un altro mondo è impossibile?). Ci saranno altre occasioni, chissà se perderanno anche quelle.
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