Caro direttore,
vorrei svolgere alcuni pensieri che riguardano il giovane pisano William Frediani, accusato di associazione a scopo di terrorismo.
Pensieri, non notizie by Adriano Sofri
Caro direttore, vorrei svolgere alcuni pensieri che riguardano il giovane pisano William Frediani, accusato di associazione a scopo di terrorismo. Pensieri, non notizie: quanto ai fatti sono pochissimo informato, e ho provato a recuperare per l’interesse che ha suscitato in me il protagonista della storia. L’ho visto infatti, in questa malaugurata casa comune, per alcuni mesi, e all’improvviso, da sabato scorso, non lo vedo più. Speravo di non vederlo più, perché era alla vigilia di una scadenza dei termini per la custodia in carcere: speravo che fosse messo fuori di qui e rimandato a casa. Invece, con la gravissima nuova imputazione, è stato trasferito - “sballato”, si dice in galera: rende meglio l’idea - al carcere di Spoleto, definito «di massima sicurezza». Benché abbia avuto a che fare con Frediani, nelle occasioni brutalmente intime che sono proprie della prigione - i colloqui con i famigliari svolti fianco a fianco, ascoltando senza volere commosse parole altrui, vedendo senza volere sorrisi e lacrime altrui; e poi le partite a biliardino, e le quattro chiacchiere a un tavolino della stanza comune - non ho alcuna sua autorizzazione a parlarne. Immagino che me ne diffiderebbe. E’ di quei giovani militanti che devono mandare a quel paese i vecchi e disillusi ex combattenti. L’impressione simpatica che ne ho - un ragazzo carino, orgoglioso, gentile, intelligente, scemo, premuroso verso i più disgraziati di qua dentro - vale poco. Non è affatto detto che simili doti umane contraddicano le peggiori fesserie politiche. Tanto meno valgono le mie opinioni sulla sua responsabilità o no riguardo alle accuse che gli sono mosse, e dunque non le nominerò nemmeno. Siccome mi piacerebbe che leggessero i miei pensieri anche i magistrati e gli inquirenti che si occupano dell’indagine, dirò invece del tutto francamente che cosa penso dei fatti sui quali si indaga. Ne penso malissimo. Ne penso come ogni persona perbene, e come il sindaco di Pisa, per esempio, e chiunque sia affezionato a questa città. Io le sono affezionato, perfino da qua dentro. Comincerò dalla lettera di minacce e di insulti spedita alla signora Paola Coen, vedova del maresciallo Fregosi. E’ una lettera infame. Che i suoi autori siano stati spinti dalla solidarietà con la cosiddetta resistenza irachena, comprese le sue imprese terroristiche, mostra che un triste strafalcione politico può tradursi nell’infamia umana. La morte del maresciallo Fregosi e dei suoi commilitoni (e di bravi civili) a Nassirya merita solo d’essere onorata, così come il dolore dei suoi cari. La signora Coen è ebrea, e questo aggrava l’infamia: e non la attenuano in alcun modo le predilezioni della signora per uno schieramento politico o l’altro. Gli attentati addebitati ai “Cor” (”Cellule di offensiva rivoluzionaria”: non è solo il centrosinistra legale a escogitare titoli insulsi) sono evidentemente, nelle intenzioni dei loro sconosciuti autori, e per fortuna anche nel loro esito, atti dimostrativi. Dico per fortuna, perché quando si maneggiano congegni incendiari, sia pure i più rudimentali, è la sorte a decidere della differenza fra un atto senza conseguenze sull’incolumità delle persone, e la tragedia. Il fuoco appiccato alle porte di abitazioni, come quella della signora Fusco, o della famiglia Petrucci, esponenti pisani di Alleanza Nazionale, può ridursi a una bruciacchiatura molesta. Ma non si deve mai credersi abbastanza giovani per non ricordarsi dell’orrore del rogo di Primavalle, anche se non si era nemmeno nati: e nessuno degli imputati dei “Cor” era nato. Gli autori di quel rogo non immaginavano certo di compiere una orribile strage di bambini e del loro padre. La mala sorte calcò la mano: ma le cose che sfuggono di mano non riducono l’orrore. Forse la fede (e la superstizione) antifascista militante, che era la loro e la nostra, li illuse poi di essere meno irreparabilmente colpevoli. Bisogna di nuovo persuadere, provarci almeno, chi compila elogi antimperialisti delle taniche di benzina e chi dà fuoco a porte di casa - chiunque ci abiti - a misurarsi con quella storia. Questo penso delle azioni imputate ai giovani pisani. Quanto alle parole loro addebitate, grondano di una retorica imbecille e di un gusto della minaccia megalomane. Parole simili erano frequenti anche al mio tempo: suonavano forse meno imbecilli, perché sembravano meno anacronistiche. L’imbecillità, quando è così retorica e così compiaciuta di sé, è imperdonabile. Ma le parole restano parole, almeno per la valutazione giudiziaria. La nozione di “propaganda armata” mi sembra piuttosto equivoca. Che una cosa sia armata, basta e avanza a condannarla, senza bisogno di chiamare in causa la propaganda. Ma, fuori dalle competenze giudiziarie, le parole prendono in ostaggio chi le pronuncia, e prima o poi gli presentano il conto. Specialmente esose sono le parole pronunciate in pubblico, o davanti alla ragazza - o al ragazzo - che si vuole conquistare. E’ come rovinarsi al gioco in una notte: viene la mattina dopo. Bisogna tener dietro alle proprie parole, quando si è giovani e si deridono gli adulti che non si sono dimessi dalle parole troppo forti, benché non si sognino di tradurle in fatti. Questa è la mia opinione sulla congerie di reati di cui si occupa l’inchiesta. Fatti - benché fortunosamente - che non hanno superato la soglia dell’irreparabilità, segnata dalla violenza inferta alle persone. Di qua da questa soglia, chi ne abbia partecipato ha il tempo per tirarsene indietro illeso, ammesso che non sia stupido, e che sia coraggioso. Coraggioso sul serio: perché riconoscere, prima di tutto con se stessi, un simile errore, vuole più coraggio che restarsene in una piccola banda, reciprocamente fomentati e spalleggiati, a bruciare automobili e spedire clandestinamente bossoli di proiettili. Questa occasione gli “anarcoinsurrezionalisti” - nome davvero fesso - ce l’hanno, chiunque siano. Ma anche i loro avversari, l’opinione pubblica, le istituzioni civili, i giornali, e più peculiarmente gli inquirenti, hanno a che fare con questa occasione. Ecco un caso in cui repressione e prevenzione possono, e dovrebbero, andare insieme. Ammettiamo infatti che gli inquirenti mettano le mani sugli effettivi autori di attentati e rivendicazioni. E’ un loro interesse, e di tutti, che quelle persone non rendano cronica e indurita la loro scelta. Niente è più efficace del carcere nell’inchiodare i combattenti amatoriali, e i loro sostenitori, alla professione. Il carcere conferisce loro un’aura magnanima di persecuzione, induce i loro sodali a esigere sui muri la loro libertà - per esempio, “Willy libero”: ho fatto qualche escursione nelle strade di Pisa, e l’ho letto - e, siccome non si è anarcoinsurrezionalisti per niente, a riscattare la richiesta singola con l’altra plenaria: “Liberi tutti”. Chi sta in carcere, anche nelle notti lunghe e sole trascorse in una cella di Pisa o di Spoleto, farà fatica a deludere le scritte sui muri: sono la sua nuova carta d’identità. Il carcere, brutto e triste com’è, riesce ancora a nobilitare un imbecille qualunque: figuriamoci un ragazzo simpatico, premuroso con i disgraziati, bravo studente, pronto al dialogo e alla conversazione. Così devo pensare, a giudicare dalla serietà con cui, come me e tanti, frequentava la chiesa e il prete del carcere. Da questo punto di vista, che Frediani sia o no responsabile dei reati che gli vengono imputati non cambia: anzi, il meccanismo può travolgerlo ancora di più se è loro estraneo, non userò la parola innocente. Il passaggio alla Procura antiterrorismo fiorentina, la traduzione a un carcere di massima sicurezza come Spoleto, sono misure dolorose per Frediani (e molto di più per i suoi cari) ma possono anche diventare medaglie al valore combattente sul suo maglione, invidiate dal suo piccolo pubblico. C’è una deformazione ottica crescente. Anche nella fisionomia. Che Willy sia carino non è un argomento a suo favore. Però se uno guarda la sua fotografia sui giornali, sempre la stessa, un ceffo allarmante, là c’è un argomento a suo sfavore. O i titoli: «Aveva in carcere il Corano». Io ho in carcere il Corano, e mi adopero per procurarne altri ai ragazzi musulmani che non riescono a procurarselo. Scorro le fotocopie degli articoli dedicati al caso dal suo esordio, e Willy passa nel giro di pochi mesi da aderente di un’associazione a delinquere a capo di un’associazione a scopo di eversione - art. 270 bis - il più grave. Trovo che anche dalla parte di chi aborre taniche di benzina e lettere minatorie bisognerebbe tenere una proporzione fra le parole e i fatti. Sugli stessi giornali locali, mi aspetterei che non ci si limitasse alla cronaca nera e giudiziaria, ma che si discutessero le opinioni dei giovani accusati, senza nessuno sconto, e senza rimozioni perbeniste. E’ un peccato che argomenti e sentimenti esistenziali, che hanno tanta parte in queste vicende, siano ignorati, o relegati alla rubrica delle lettere - la lettera di una professoressa di Frediani, delle sue antiche compagne di scuola... Ci sono persone che scelgono la clandestinità: invitateli a fare due chiacchiere, e ne avranno meno voglia. E in ogni caso, ci avrete provato. Ho letto in un’ordinanza dei magistrati, a proposito di Willy e coimputati: «Immersi in ideologie e considerazioni farneticanti e via via sempre più sganciati dalla realtà...». Agganciarlo a lungo alla realtà del carcere di Pisa, e a peggior ragione di Spoleto, non è una idea così conseguente. La legge è come il sabato, o dovrebbe essere. E’ fatta per l’uomo, non l’uomo per la legge. Non solo per il futuro di Willy Frediani, che non è da buttar via, ma anche per la pubblica sicurezza, è più sensato il prolungamento della sua detenzione a Spoleto, o il suo ritorno a casa? Per me la risposta è chiara: e non solo per l’aria di Natale.
Adriano Sofri
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